Da Corriere della Sera del 18/03/1978

Cosa può dire un intellettuale?

di Cesare Medail

Quando, negli ultimi trenta anni, le cronache hanno registrato avvenimenti che hanno coinvolto emotivamente la pubblica opinione nel nostro paese il "pronto intervento" degli intellettuali non si è mai fatto aspettare. Il rapimento di Moro e l'assassinio dei cinque agenti non hanno registrato invece reazioni immediate (salvo qualche caso di mobilitazione collettiva come il documento promosso dalla Casa della Cultura di Milano e firmato dagli addetti all'industria culturale). Restano però i silenzi. Viltà degli intellettuali o bisogno di riflessione? Questi interrogativi che investono il problema del rapporto fra cultura e società civile, li abbiamo rivolti ad alcuni intellettuali italiani che non sono intervenuti sul rapimento di Moro. Italo Calvino risponde: "Ciò che è accaduto va al di là delle parole. Abbiamo esaurito ogni capacità di commento. Che cosa si può dire? Sono molto preoccupato per il futuro delle nostre libertà democratiche che oggi sono il bersaglio di un complotto di vaste proporzioni la cui matrice rimane sempre più oscura. Comunque un fatto positivo sono le manifestazioni dell'altro ieri: si sente crollare tutto ma la gente ha reagito bene". Franco Fortini, invece, dice che non ha sentito il bisogno di intervenire a caldo perché "da mesi si discute sui giornali del terrorismo e nulla di nuovo è da aggiungere". In sede di analisi non vede differenza con "altri macelli" (quando hanno sparato a Casalegno per esempio). Le otto-nove pagine che i quotidiani hanno destinato all'episodio mi preoccupano di più del rapimento stesso: neanche per una dichiarazione di guerra sarebbe stato fatto altrettanto". "Rifiuto comunque - continua Fortini - di associarmi al coro unanime che dall'Osservatore Romano al Corriere, passando per l'Unità, chiede di non distinguere, di non offrire coperture intellettuali al terrorismo. Non ho nessuna difficoltà a chiamare assassini, dei turpi assassini, costoro e a ritrarmene con orrore. Mi rifiuto di usare le parole unità, democrazia, nazione, bene pubblico come copertura di un operazione politica che ha portato ad una maggioranza dove stanno insieme i rappresentati degli sfruttatori e degli sfruttati, gli interessi degli assassini e degli assassinati". Sono parole che Franco Fortini dirà in serata a un dibattito radiofonico. La prima risposta di Lucio Colletti alla domanda sul silenzio degli intellettuali è ovvia: "probabilmente non ci hanno interpellato". Poi però aggiunge: "Una parte del mondo intellettuale cosiddetto “impegnato”, da tempo manifesta una tendenza elusiva rispetto ai problemi della società civile, salvo che non si possano strumentalizzare in qualche modo". E Colletti cita un suo articolo sull'espresso a proposito del sequestro di Guido de Martino che Antonello Trombadori (Pci), ha tentato di usare come piattaforma per una raccolta di firme che poi non ha raccolto. Ma aggiunge con amarezza: "A molti intellettuali sembra essere provinciale intervenire a difesa dello Stato di diritto, della costituzione repubblicana, della liberaldemocrazia. Sottovalutano i pericoli che corrono questi valori e denunciano come allarmistiche e catastrofiche le prese di posizione di quelli che non li sottovalutano". Mentre Colletti denuncia la tendenza "elusiva" e la spiega come abbiamo riportato, Norberto Bobbio dice: "Ogni qualvolta succede qualcosa di importante ci costringete a parlare, a parlare. Ieri mi hanno telefonato continuamente e ho fatto dire che non c'ero. Ma mi chiedo: che cosa ha da dire un intellettuale, dopo un episodio come quello di Moro, se non che è allibito, stordito, stupefatto, che cosa si può aggiungere oltre alla costernazione. La risposta a caldo dell'uomo di cultura non può essere diversa da quella dell'uomo della strada, ma il suo compito non è quello di fornire risposte emotive. Se è vero che gli intellettuali non hanno subito aperto il becco, dico: hanno fatto bene". Della stessa opinione è Carlo Bernari: "Di fronte al rapimento di Moro, a fatti del genere, l'emozione è uguale nell'uomo della strada, nello scrittore, nel pontefice. Non si hanno sufficienti lumi per capire le verità che sono sepolte sotto un grande monte di contraddizioni. Posso dire solo questo: mentre ascoltavo le sirene della polizia che accorreva sul posto sfogliavo un album di fotografie e avevo sotto gli occhi un immagine dell'incendio alla sede dell'Avanti! a Bologna nel 1922. Ho pensato, guardandola, non come eravamo, ma come siamo". Sulla stessa linea di Bernari è Goffredo Parise: "Il compito dell'intellettuale è l'analisi realistica e non la condanna moralistica. Lo ripeto per l'ennesima volta. L'esecrazione e la condanna morale sono assolutamente inutili e non sono uno scudo né contro le parole né contro i proiettili. Se devo dire qualcosa mi limito a sottolineare che questa è l'ennesima prova della sconfitta dello Stato nella guerra con il terrorismo e che sono d'accordo con le proposte di La Malfa in materia di ordine pubblico". L'accusa più dura agli intellettuali e ai loro silenzi viene da Carlo Cassola: "Un fatto del genere, per quanto atroce, calamita l'attenzione della gente sull'ordine pubblico, scatena emotività come non la scatena invece l'episodio del Cosmos o il massacro dei palestinesi ad opera degli israeliani avvenuto in questi giorni. Il problema che ci sta davanti è quello della pace. I silenzi degli intellettuali avrebbero dovuto essere presenti e non lo sono stati, dal 1945, dopo Hiroshima". I silenzi che coprono le verità, anche le più tragiche, sia che riguardino la cronaca nera sia le catastrofi, fanno dire a Giovanni Testori: "Io vorrei che, finalmente, intellettuali, uomini di politica, di partito e di religione usassero la parola come incarnazione della verità, anche se, su tale strada, la parola diventa difficile e dolorosa da trovare. Invece, l'ondata di retorica che ha invaso televisione e giornali pare a me che sia servita a coprire un'altra volta la strada della verità: che per me non è solo e propriamente una verità storica e sociale. Il nostro male è più grande: e se ci ostineremo a leggerlo e a misurarlo coi soli mezzi della storia e della società ne saremo travolti". Ma è tanto difficile andare in cerca della verità? Secondo il sociologo Franco Ferrarotti la cultura italiana è responsabile di non avere analizzato, sul piano delle cause, il fenomeno della violenza. "Io sono con la coscienza a posto - dice -: su Critica Sociologica lavoriamo da anni perché di fronte ai malesseri sociali non ci si fermi davanti alla registrazione dei sintomi ma si risalga alle origini. Nei dibattiti fra intellettuali, invece, si parla soltanto dei sintomi: ed è chiaro che sia più facile scambiarsi proiettili che idee, quando queste mancano".

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