Da Corriere della Sera del 21/03/1978

Editoriale

Pubblicare o no i documenti dei terroristi?

Colloquio con Eugenio Montale

di Eugenio Montale

Domenica scorsa, a denti stretti, dopo molti dubbi, la direzione del Corriere ha deciso di pubblicare come hanno fatto tutti i mass media, la fotografia di Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse. E' un'immagine crudele pur nella stoica dignità dell'uomo, un'immagine che i terroristi avevano mandato ai giornali con la certezza che sarebbe stata riprodotta. Abbiamo anche riportato il lungo messaggio di guerra che accompagnava la foto. Eravamo, e siamo, divisi tra due obblighi di coscienza: da una parte quello di negarci ad ogni manipolazione della verità, di non nascondere ai lettori alcuna notizia, di non imboccare mai la strada inclinata e maledetta della censura; dall'altra, quello di non collaborare in nessun modo, sia pure inconsapevolmente, a un disegno ribelle che vuole devastare l'equilibrio dell'opinione pubblica. Quali sono le armi dei terroristi? Le Nagant, le Tokarev, le Beretta, e poi la propaganda, e quel terribile amplificatore della propaganda che talvolta forse rischiamo di essere tutti noi, giornali, televisione, radio. Possiamo disarmare anche della propaganda i terroristi, senza rinunciare al nostro ruolo di giornali - e di giornalisti - liberi? E' una difficile domanda. Resta chiaro che le Brigate rosse vogliono trascinare il Paese fuori dal terremmo naturale della democrazia: e una stampa che limitasse, condizionasse, ritagliasse l'informazione intorno a un fatto, atroce ma enorme, come questo, sarebbe una stampa già fuori dalla normalità democratica, quasi imbavagliata. E un bavaglio, anche quando ce lo mettiamo da soli, sarebbe sempre un bavaglio. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare le conseguenze dei nostri gesti, delle nostre scelte: i brigatisti stanno conducendo il loro assurdo "processo" ad Aldo Moro nel chiuso di quattro mura, che non sono una "prigione del popolo" ma un oscuro covo criminale. Rilanciando a milioni di persone le immagini e le parole di quel "processo", noi lo dilatiamo, ne rendiamo testimone davvero tutto un popolo, ingigantendo anche l'umiliazione che lo Stato subisce. Scriveva ieri l'altro l' 'Unità' che la foto è "l'immagine di un uomo che i rapitori si ripromettono di martirizzare, in una di quelle tragiche farse cui danno il nome di processi; e ciò per far durare più a lungo la sfida alla Democrazia italiana e all'onore di questa repubblica. Ma per far questo hanno bisogno che giornali e Tv si trasformino in cassa di risonanza dei loro farneticanti messaggi. Questo è, purtroppo accaduto". Perché ciò non si ripeta, aggiungiamo, è necessario guardare dentro le nostre coscienze e trovare la risposta che sabato nessuno di noi ha saputo darsi. Che fare? Senza la presunzione di conoscere una formula certa, il Corriere ha trasferito la domanda al suo giornalista più nobile ed illustre, a una voce senza sospetti: Eugenio Montale, redattore per tanti anni del Corriere, senatore a vita, Premio Nobel, uomo che seppe dire di no, con coraggio e povertà, agli anni della censura, agli anni di altri odiosi brigatisti. Tu, Montale, avresti pubblicato la foto e il messaggio delle Brigate rosse? "Forse sì. Pensate di aver fatto male?" Ce lo stiamo chiedendo. "Certo, giornali e Tv hanno portato davanti a milioni di occhi due messaggi - una foto, un comunicato ideologico - che, senza questo concorso, le Brigate rosse avrebbero potuto far circolare, ciclostilati, al più duecento copie". Ormai è andata così. D'altronde non era la prima volta. "Per il futuro, i giornalisti dovrebbero darsi un codice. Non dimenticate che quel testo, soprattutto il testo, può aver trovato degli ammiratori: dei giovani ammiratori, anche fuori dal mondo intorno alle Brigate rosse. Pensandoci, sarebbe stato meglio non pubblicarlo. E' scritto da un ideologo, in buon italiano, sarà certamente un laureato... Il terrorismo è una cosa ancora non ben studiata nei suoi veri motivi psicologici: esisteva già al tempo degli zar l'ideologia di far fuori, uccidendo, come se fosse una cosa santa, sacrosanta...". Parlavi, Montale, di un codice. Ma quale? Non certo una censura. "Non si può creare una regola di comportamento basata su ipotesi. Si dovrebbe piuttosto trattare di un codice che tutti i giornalisti dovrebbero cercare dentro di loro stessi. Ma sì, non li pubblicherei questi messaggi delle Brigate rosse. Bisogna averne la forza. Che poi sia facile proprio non lo so. Per fortuna non dirigo alcun giornale". Non pensi che così facendo si potrebbe finire per trascinare i giornali in un regime di libertà vigilata? "Non credo. Basterebbe dire per quali motivi non si pubblica il messaggio, non ritenendo opportuno di alimentare le fantasie di qualche altro potenziale delinquente. Insomma, una formula adeguata. Dire che mediante la pubblicità alle Brigate rosse potrebbero venire le adesioni degli imbecilli... E d'imbecilli ce ne sono tanti". E per la foto? "M'ha fatto tanta pena. E' l'immagine dello Stato umiliato". Allora, la foto l'avresti pubblicata? "Quella sì". Potrebbe aver provocato anche delle reazioni positive? "Qualcuna: ne viene un senso di pietà e di rabbia. Una soluzione per il futuro, il minimo che si possa fare, potrebbe essere non dare per intero gli argomenti di carattere ideologico dei brigatisti. La stampa è indubbiamente un potere, anche micidiale, questo è certo. Ma riusciremo a risolvere mai questo grande caso di coscienza?".

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