Da Corriere della Sera del 25/04/1978

Dall' "intellettuale" Curcio al "galeotto" Notarnicola.

di Giuliano Zincone

Le Brigate rosse hanno chiesto la liberazione di tredici detenuti che vengono da esperienze politiche e da matrici guerrigliere diverse. E' una richiesta che, indipendentemente dalla risposta che otterrà, conferma che i brigatisti intendono proporsi come scudo e spada di tutti i movimenti armati di sinistra. Essi vogliono dimostrare a chi sta in carcere, ma soprattutto ai potenziali alleati estremisti, che l'unica formazione in grado di difendere concretamente i "prigionieri politici" è quella delle Brigate rosse. Essere gli unici, a questo livello incandescente di scontro, è l'obiettivo primario dei terroristi che mirano all'egemonia. Non all'egemonia fondata sul consenso della maggioranza, ma all'egemonia su tutte le forze "rivoluzionarie", in previsione della "guerra di classe" e della "lotta di lunga durata". Sottovalutare questa aspirazione, liquidare i brigatisti come una banda di criminali deliranti e solitari, sarebbe un errore micidiale per la democrazia. I documenti delle Br posteriori al rapimento di Moro sono rivolti non tanto all'opinione pubblica (la cui stragrande maggioranza li respinge con sdegno), ma all'area (reale o fantasticata) del cosiddetto Movimento Rivoluzionario Proletario Offensivo (MRPO). A questa frangia sociale, ai gruppi organizzati o spontanei che accettano la logica delle armi, le Br intendono dimostrare in primo luogo che tutti i partiti politici sono solidali ("complici") nella salvaguardia del Sistema vigente e che essi, i brigatisti, sono gli unici avversari efficienti e attendibili delle istituzioni difese dai partiti. Il calcolo delle Brigate rosse è semplice, ma non semplicistico. Secondo la loro analisi, sarà proprio la solidarietà, la convergenza fra tutti i partiti, a produrre all'interno delle classi sociali conflitti e tensioni privi di sbocco, e a obbligare i ceti subalterni a considerare il "partito armato" come uno strumento da prendere in considerazione. E' inutile illudersi: il rapimento di Moro non è un punto d'arrivo. E' soltanto una tappa di una strategia che prevede la provocazione sistematica del potere politico, in una escalation di ricatti e di attenuanti sempre più incisivi. Secondo i progetti delle Brigate rosse, questa aggressione permanente dovrebbe spingere il Sistema a "mostrare la sua vera faccia", cioè a mettere in atto provvedimenti repressivi che colpiranno non tanto i clandestini, quanto le frange dissidenti che oggi non solo criticano, ma avversano decisamente le Brigate rosse. A questo punto gli estremisti e i marginali politici individuerebbero nello Stato il loro principale e più diretto avversario e nell'"ipotesi guerrigliera" l'unica forma agibile di "autodifesa" e di espressione politica. Non ci sembra possibile, oggi, domandarsi quante probabilità di successo abbia un simile disegno: il suo esito non dipende certo dalla volontà soggettiva delle Brigate Rosse, ma dal senso di responsabilità e dal quoziente di reale democrazia che le nostre istituzioni di governo saranno in grado di esprimere. Chiedendo la liberazione di quei tredici detenuti, le Br compiono un atto simbolico, non si illudono certo di chiamare a raccolta formazioni combattenti che in qualche modo si sentano rappresentate da "prigionieri politici" come Mario Rossi, Sante Notarnicola o Pasquale Abatangelo. Il gruppo XXII Ottobre, cui apparteneva Mario Rossi, non è che una filiazione dei GAP di Feltrinelli, nati per organizzare la resistenza contro un colpo di Stato ritenuto imminente. Questa formazione ha già fatto l'autocritica e, per quanto se ne conosce, è stata assorbita quasi del tutto dalle Br. Sante Notarnicola non rappresenta che se stesso: un prodotto atipico del proletariato marginale metropolitano, fuggiasco dalla sezione del PCI, rapinatore per ribellismo generico, in prigione, rivendica una matrice rivoluzionaria, scrive un libro, diventa un politico arroventato e puntiglioso. Ma non ha seguito, anche se il suo caso è un segnale d'allarme che fa pensare alla teoria americana sul carcere come "scuola di rivoluzione". La galera, in realtà, è una esperienza comune per molti sottoproletari italiani: dopo il '68 diviene il punto d'incontro fra questi strati sociali e gli studenti politicizzati che, nei brevi periodi delle loro detenzioni, fanno opera di propaganda e tentano di organizzare la mobilitazione. Nasce la visione del carcere come esito e summa delle contraddizioni e delle ingiustizie dello Stato borghese, confortata ed esasperata dai ritardi della riforma e dalla realtà angosciosa e brutale di molti istituti di pena. In questa situazione, da una costola di Lotta Continua, si formano i Nap: Pasquale Abatangelo è uno dei fondatori, un teorico della rivoluzione carceraria. Ma i Nap, proprio per i loro legami esclusivi con il mondo delle prigioni, non riescono ad assumere una fisionomia politica rappresentativa. Infiltrati da poliziotti ed elementi corruttibili, portatori di una visione semplicistica e limitata, finiscono con l'estinguersi dopo pochi anni. I detenuti politicizzati, oggi, rappresentano ancora una minoranza. E tuttavia la breve esistenza dei Nap è un ammonimento da non trascurare. I Nap costituiscono, in vitro, il campione di una miscela esplosiva che viene formandosi non tanto nelle carceri, quanto nelle periferie urbane, nei ghetti sottoproletari, nei rioni del lavoro precario e dell'esistenza marginale. Qui, per la prima volta nella storia del nostro paese, entrano in contatto due specie di malessere che fino a ieri si tenevano reciprocamente a distanza: il malessere dei disoccupati intellettuali, in gran parte di estrazione proletaria, e la disperazione dei sotto-proletari cui la crisi economica e la recessione non promettono alcun futuro. I primi, oggi, si propongono come leaders naturali dei secondi e, contemporaneamente, rivendicano dignità politica alla spontaneità dei loro comportamenti: mentre la passata generazione degli intellettuali rivoluzionari tendeva a prendere a modello e a proporre le forme di lotta proprie degli operai, la generazione più giovane, delusa o respinta dai partiti, accoglie nelle proprie teorizzazioni i comportamenti sottoproletari, e li estremizza nella lode dell'esproprio, del progetto violento, dell'illegalità di massa. Non deve meravigliare, quindi, che nella lista dei tredici detenuti che premono alle Br coabitino un intellettuale come Renato Curcio e un galeotto come Sante Notarnicola: la richiesta, simbolica, allude alla saldatura tra "combattenti" di diversa estrazione che è stata più volte rivendicata come un obiettivo fondamentale dai brigatisti. Ma nel "Comunicato numero otto" c'è anche un riferimento esplicito alle carceri, ai "lager di regime dove sono rinchiusi a centinaia i proletari comunisti, l'avanguardia del movimento proletario che lotta e combatte per una società comunista". Sarebbe un errore ritenere che i residui movimenti politici nati nelle prigioni tendano a identificarsi direttamente con le Br. Ma esiste il reale pericolo che i terroristi, agendo sulle contraddizioni dell'attuale sistema penitenziario, riescano ad assicurarsi una base di consenso fra i detenuti e, soprattutto, su quella parte marginale della popolazione che, direttamente o indirettamente, ha conosciuto la galera o si aspetta di conoscerla. Lo Stato italiano non può permettersi il lusso di tollerare l'esistenza di strutture carcerarie come il manicomio criminale di Aversa o come il "braccio speciale" della prigione di Novara: luoghi di pena come questi esasperano le tensioni, invece di contenerle. E non si tratta di situazioni limitate o ignote. Almeno da dieci anni, una quantità di libri, inchieste, documentari, indagini giornalistiche vanno mettendo a disposizione delle forze politiche ogni possibile indicazione in merito alla realtà esplosiva che cresce nelle istituzioni dotali e nei settori marginali della società. Di queste indicazioni non si è tenuto il minimo conto, né ci sembra che l'attuale atteggiamento dei partiti di governo lasci sperare che le cose cambino. Anzi: su chi denuncia le ingiustizie e i ritardi che colpiscono ed esasperano i ceti subalterni, pesa l'accusa di "fiancheggiare le Brigate rosse". Ma questa accusa è un'arma a doppio taglio, poiché è difficile nascondersi che il vero "brodo di coltura" del terrorismo è la rabbia dei disoccupati, dei precari, dei giovani senza futuro. Dice il sociologo Giulio Salierno: "Kruscev, parlando degli errori di Eisenhower, disse che il presidente americano avrebbe meritato la tessera onoraria del PCUS. Io credo sinceramente che molti dei nostri leaders politici, per la loro incapacità di capire la situazione e di fronteggiarla, meriterebbero la tessera onoraria delle Br". Oggi dobbiamo constatare che le Brigate rosse, lungi dall'emettere proclami "deliranti", stanno operando con astuzia per seminare tentazioni guerrigliere nel deserto della disperazione e del malessere. Non si impedirà certo ai terroristi di raccogliere i loro frutti avvelenati continuando a metterli sullo stesso piano della banda Vallanzasca. O tentando di convincere la gente che le Br sono emanazioni di servizi segreti, entità diaboliche lontane dalle serene consuetudini del nostro buon popolo. Fino a oggi ha prevalso, all'interno delle forze politiche italiane, il cosiddetto principio di irrealtà, vale a dire l'incapacità-impossibilità di valutare il terrorismo per quello che concretamente rappresenta: un fenomeno di guerriglia limitata, che va combattuto sul piano politico e culturale. E va combattuto soprattutto, con una campagna di riforme incisive e durature, stroncando la inefficienza e la corruzione, coinvolgendo davvero la gente nella gestione della cosa pubblica. Lo sappiamo, la ricetta non è nuova: sono dieci anni che la andiamo ripetendo. Ma adesso è arrivato sul serio il momento di metterla in pratica. Prima che sia troppo tardi.

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