Da Corriere della Sera del 28/04/1978

Il retroterra dei brigatisri

Il pescecane e l'acqua sporca

di Gaspare Barbiellini Amidei

Anche oggi giorno, come il don Ferrante di Manzoni, i dotti di professione, al primo parlar di terrorismo si misero a discettare: è ideologia, cioè sostanza, è follia, cioè accidente, è acqueo, cioè diffuso, è aereo, cioè intellettuale, è igneo, cioè straniero, è terreo, cioè classista. Ne discutono ancora. Non che le brigate siano proprio una peste ma un certo contagio lo dimostrano. Giorno dopo giorno continuano a colpire con incredibile impunità: l'altro ieri un dirigente democristiano a Roma, ieri un funzionario della Fiat a Torino. E colpiscono con le pallottole, colpiscono con i messaggi, sparando nel mucchio delle incertezze politiche e morali. Qualcuno dice che "obiettivamente" sono bravi, che danno lezioni di efficienza e di fedeltà alle loro idee. (Come scrisse Malaux dei nazisti: "hanno dato lezioni all'inferno"). Ma che cosa è per davvero, questo terrorismo? Un dotto di altri Paesi, Brian Jenkins, esperto della Rand Corporation, ne da questa definizione quasi accademica: "Il terrorismo può essere definito come l'uso di violenza attuale o temuta per guadagnare attenzione e creare allarme e paura, così da convincere il popolo a sopravvalutare le forze dei terroristi". Passati oltre quaranta giorni dal rapimento di Moro, di fronte all'ultimo sconvolgente messaggio, senza una pista, senza l'arresto di un colpevole, di cosa si è convinto il popolo? Che cosa sopravvaluta? Fuori dall'ironia : è molto importante vedere le radici ideologiche, le colpe storiche, le ascendenze politiche, le ramificazioni internazionali della violenza armata che affligge il paese. Oggi però la questione essenziale non è storica, ma pratica: se è vero, come vuole l'ideologo Mao, che il guerrigliero sia il pesce, e il territorio di diffusione sia l'acqua, di quanta acqua dispone questo pescecane che azzanna la Repubblica? E come si fa a prosciugare quest'acqua? A proposito della quantità d'acqua un sociologo che se ne intende, Sabino Acquaviva, scrive: "Si dice che il terrorismo e la guerriglia non hanno una base sociale: a questo proposito suggerirei di ascoltare per una settimana una delle tante radio dell'autonomia che nello spazio di una giornata alternano musica impegnata o molto raffinata con “bollettini di guerra”. Per esempio: un comunicato sulla lotta delle donne nella città x; altra musica, altro comunicato: notizie su un gruppo di donne che ha attaccato con bottiglie Molotov agenzie che distribuivano film pornografici; altro intervallo, altro comunicato; e così via. Ma questi comunicati coprono tutti gli spazi; dal sindacato al teatro, al femminismo; mostrando, se non una base sociale vasta, una penetrazione capillare dei loro elementi". Anche questa è acqua del pescecane, un'acqua torbida di errori e di disattenzioni. Isole di consenso, zone di reclutamento, aree di confine, spazi di omertà o di indifferenza: chiamatele come vi pare, sono parti politiche e morali di Italia dove uno vede sparare e sta zitto, un altro sa e si distrae, un terzo si dispone, almeno psicologicamente, a nuotare a fianco del pescecane. Contro il contagio della propaganda, contro quello della vita e dello spirito gregario, c'è una questione di contenuti e c'è una sfida di immagine. Tutti sanno quali sono le fasce della società più esposte alla suggestione della rivolta: un milione di studenti nelle università senza riforme, ottocentomila giovani disoccupati, duecento - duecentocinquantamila lavoratori precari nelle scuole e negli atenei; e poi gli infermieri di un mondo ospedaliero umiliato dalla povertà tecnica e dal clientelismo. E poi le donne, giovani donne cui il femminismo ha dato la consapevolezza aspra, quasi furibonda, della mancanza di potere e di decisione, della perseveranza cieca di una visione del mondo che è ancora troppo dalla parte dell'uomo. Tutta questa gente può essere acqua: eppure la legge per l'occupazione giovanile resta una macchina vuota, le università sono lì, con le stesse miserie, le stesse non-leggi che partorirono il '68. E i giovani fuggono nelle università per non constatare sulle strade la loro condanna statistica alla disoccupazione. Ma poi delusi fuggono dalle università, appena iscritti (più di un quarto se ne va già al primo anno) e tornano sulla strada, spesso disponibili per il pescecane. La riforma sanitaria è ancora un titolo quotidiano per le promesse delle giornate stanche e c'è chi butta i letti dalle finestre degli ospedali. Non si riesce neppure a spezzare, con il colpo di scure di un provvedimento onesto ma veloce, il peronismo inquietante dei precari, garantendo un futuro a questi lavoratori-centauri, metà professori, metà studenti, vittime predestinate di ogni vampirismo ideologico. Se ci sono poi mani ignoranti da restituire alla zappa, lo si dica con chiarezza. Manca la consapevolezza della straordinaria amministrazione. L'Italia ha bisogno di vivere un suo secondo boom: il primo l'ha trasformata da Paese agricolo a Paese industriale, il secondo deve inserire nel tessuto economico, sociale politico, alcuni milioni di cittadini tenuti fuori dalla produzione, dalla partecipazione, dalla condivisione dei valori civili e morali. Le maggioranze politiche ci sono. Ci vogliono idee di grande respiro, audacie legislative capaci di incidere, disponibilità a pagare i costi, in tasse e in salari, in una ridistribuzione del lavoro e del reddito. Si è parlato di un'evasione annua di quasi diecimila miliardi: è necessario cancellare queste cifre criminali, trattare con leggi e manette i delitti economici dei colletti bianchi. Il problema dei contenuti si salda quindi a quello dell'immagine. Lo Stato ha di fronte nemici che sono conoscitori sottili della psicologia di massa. Nei loro messaggi, essi battono e ribattono sui facili concetti di bene e di male, dividendo il mondo nello schematismo suadente di sfruttatori e sfruttati. Hanno un'organizzazione metà mafiosa e metà templare, eppure si presentano come Robin Hood nel bosco delle multinazionali. Lo Stato deve trovare l'orgoglio dalla propria immagine, deve sapersi presentare con certezza di diritto, pulizia di mani, proposte di solidarietà. Oggi tutti vogliono fare processi, alle colpe, alle omissioni. Accanto al processo intollerabile delle omissioni a Moro, mille vili Brigate grasse fanno in cuor loro un silenzioso processo allo Stato, sostenendo che esso non merita l'onesta di una tassa pagata, né il coraggio di una parola scritta in sua difesa. Qui è l'errore di immagine e di valutazione storica. Con i suoi difetti, le sue disuguaglianze e i suoi ritardi, l'Italia è un grande Paese libero, fuori dalle liste della repressione e della tortura segnalate da Amnesty International, fuori dalle liste della fame e della povertà compilate dall'UNESCO, fuori dalle liste del colonialismo, stabilite all'Est e all'Ovest. I dannati della terra, cui Frantz Fanon affidava il diritto alla rivoluzione, sono in altri Paesi più sventurati del nostro. Alla periferia della nostra storia c'è solo un allucinato branco: anche se è cresciuto, anche se viltà, errori e meschinità politiche lo stanno di ora in ora ingrassando, è ancora un branco di pescecani. Se asciughiamo l'acqua sporca, i pescecani scompariranno.

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