Da L'Unità del 13/04/1978

Editoriale

Perché non bisogna trattare.

Non dovrebbe essere necessario ripetere le ragioni per le quali di fronte alle mosse dei brigatisti occorre tenere ben fermo il rifiuto intransigente, il no più risoluto ad ogni ricatto, anche se dire queste cose pesa di fronte al fatto che in gioco è anche una vita umana. Colpisce la sottile malizia di chi cerca di sbriciolare quest'argine parlando di una cinica “ragion di Stato” che i “politici” vorrebbero far prevalere sulla ragione comune, quella degli uomini. E' la tesi di Lotta Continua, ma anche di altri gruppi di sinistra e di destra che in qualche modo puntano allo sfascio. Non è a questi che vogliamo rivolgerci ma a quanti, forse, non hanno ancora valutato appieno qual è il piano dei terroristi, e la posta in gioco. L'obiettivo di costoro non è tanto lo scambio di prigionieri quanto creare una situazione tale di confusione e di cedimenti da parte dello Stato democratico per cui, una volta legittimate le BR come un “partito” e non come una banda di criminali, l'Italia si troverebbe di fronte al rischio di una guerriglia strisciante. Con tutte le conseguenze del caso: l'insicurezza generale; la normalità democratica e lo Stato di diritto rimessi in discussione; le prevedibili spinte ad adottare misure “forti”. Si capisce allora perché ciò non dispiace alla destra reazionaria - che come Lotta Continua, il Quotidiano dei lavoratori e la nuova gestione del Manifesto - preme sulla DC per indurla a cedere. Ecco perché tutti i democratici devono comprendere che la intransigenza non è una concessione a non si sa quale astratta “ragion di Stato” ma solo il mezzo per difendere la pace, la sicurezza, la vita civile di tutti, la convivenza democratica. Ma la questione che è stata posta è se ciò non comporti il sacrificio di una vita umana come conseguenza ineluttabile di una simile linea di condotta. E' una questione grave, sulla quale vogliamo dire una parola, serenamente, nel più grande rispetto del dramma umano. Vogliamo dire la nostra persuasione che l'intransigenza è anche l'unica via praticabile per fermare la mano degli assassini. A noi sembra, cioè, che la minaccia più grave per la vita di Moro viene proprio da ogni tentazione di scendere a patti con i suoi carcerieri, da ogni atto, pur compiuto sotto la spinta del dolore e dell'affanno, che abbassi la barriera di fronte alla quale gli assassini possono esitare: la chiara consapevolezza di tutti, dell'intera comunità nazionale che la totale responsabilità per un eventuale nuovo atto di barbarie ricade esclusivamente sui terroristi. Questo è il solo deterrente che può fermare questi criminali. E' giusto ciò che ha scritto Giovanni Ferrara sul Giorno, cercando di spiegarsi perché, per quali calcoli di “utilità”, i terroristi abbiano deciso di rapire Moro, mentre avrebbero potuto benissimo ucciderlo insieme alla scorta. Perché “era necessario”, per le Br, ottenere l'ambiguo effetto dell'“avvertimento” e soprattutto (qui viene l'orrendo), mettersi in condizione di giustificare l'eventuale successivo assassinio del leader con pretesti quali il fallimento delle trattative o la sentenza del “tribunale proletario”. Bisogna guardarsi dall'offrire anche il più piccolo alibi ai terroristi. Le menti che li guidano sono di cinici, abituati a studiare e calcolare gli effetti di ogni loro mossa sull'opinione pubblica. E' molto dubbio che essi vogliano aprire una reale trattativa (anzi, addirittura lo negano) rendendosi ben conto che per tante ragioni, non soltanto di principio ma di fatto, essa è senza sbocco. Basti pensare che nessun governo è disposto ad accogliere i banditi eventualmente liberati. Essi vogliono un'altra cosa. Vogliono che si apra una discussione sull'opportunità di trattare, e sul quando, sul come, a quali prezzi. In una parte dell'opinione si creerebbe una confusione, una incertezza che in qualche modo oscurerebbe la responsabilità totale, esclusiva dei terroristi. Si abbasserebbe quella barriera che ancora li fa esitare, si indebolirebbe la forza del deterrente che sta tutta nella chiarezza, nella forza della condanna e dell'isolamento non soltanto politico ma morale dei rapitori di Moro. Soltanto in questo modo si può cercare di fermare la loro mano.

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