Da Pagine di Difesa del 05/03/2005
Originale su http://www.paginedidifesa.it/2005/galgani_050305.html

Riforma Onu, gli Stati Uniti preferiscono la Nato

di Pier Francesco Galgani

Lo scorso 18 febbraio, alla vigilia del suo recente viaggio in Europa, George Bush, in una intervista trasmessa dalla tv pubblica tedesca Ard, rispondendo a una domanda sulla riforma delle Nazioni Unite, dichiarava di non avere ancora preso una posizione chiara sulle diverse soluzioni sul tappeto. Le proposte di riforma a cui si è riferito il presidente sono state presentate nel mese di dicembre da un gruppo di esperti nominati a tale scopo dal segretario generale del Palazzo di Vetro Kofi Annan.
I lunghi e sostanzialmente inutili dibattiti sulla guerra in Iraq e l'evidente incapacità della massima istituzione mondiale di evitare lo scontro bellico hanno evidenziato che rimandare ancora l'adozione di una vasta revisione delle sue strutture avrebbe ulteriormente indebolito la residua credibilità internazionale delle Nazioni Unite. Nate dopo la seconda guerra mondiale dall'accordo tra le nazioni vincitrici del conflitto e con l'obiettivo di realizzare un forum di discussione dove comporre i contrasti di interesse tra gli Stati, esse riflettono ancora oggi gli anacronistici rapporti di forza e i compromessi originati dai trattati di pace di quel conflitto.

La realtà internazionale attuale è molto diversa da quella di sessanta anni fa e tale consapevolezza ha spinto il gruppo di esperti nominati da Kofi Annan a formulare delle proposte di riforma che ne tengano conto. Prima di tutto la composizione del Consiglio di sicurezza. Per rendere più rappresentativo il massimo organo decisionale si è proposto di estendere il numero dei suoi partecipanti a 24 dagli attuali 15 di cui accanto ai tradizionali cinque permanenti con diritto di veto, sei membri senza diritto di veto e altri tre non permanenti a rotazione.

Un'altra ipotesi di riforma riguarda il Capitolo VII della carta Onu e cioè quello che fa riferimento alle modalità di utilizzo della forza da parte dei paesi aderenti all'organizzazione. Secondo gli esperti di Kofi Annan il Consiglio di sicurezza potrà essere chiamato ad autorizzare l'uso della forza per modalità diverse da quelle tradizionali quali combattere il terrorismo e evitare tragedie umanitarie, nonché potrà autorizzare "guerre preventive" intese tuttavia come estrema ratio dopo aver esperito tutta una serie di altri rimedi. In quest'ultima proposta è evidente l'intenzione di dare una legittimità giuridica al grave "vulnus" inferto al diritto internazionale dalla dottrina della guerra preventiva adottata dall'amministrazione Bush.

Malgrado tale tentativo conciliante, l'odierno atteggiamento di Washington verso le Nazioni Unite continua a restare vago e ambiguo, come evidenzia l'intervista del presidente alla tv tedesca Ard. Le cose non sono sempre andate così, anzi. Nei primi anni di vita dell'organizzazione, gli Stati Uniti consideravano l'Onu uno strumento essenziale al mantenimento del nuovo ordine nato dalla guerra e da loro ampiamente dominato. La stessa Assemblea generale era sottoposta a un ferreo controllo Usa grazie al voto di un vasto numero di Stati che dovevano loro qualcosa in termini finanziari o di difesa.

Con l'inizio del processo di decolonizzazione tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 i rapporti di forza all'interno delle Nazioni Unite e in particolare nell'Assemblea generale iniziarono a mutare. L'afflusso di un gran numero di Stati afro-asiatici frutto della decolonizzazione portò alla creazione di una maggioranza "non allineata" che si dimostrò ostile alla prosecuzione dei disegni egemonici sull'organizzazione da parte di Washington. Il deteriorarsi della collaborazione bellica tra Usa e Urss fino a sfociare nella guerra fredda bloccò l'operatività del Consiglio di sicurezza e contribuì all'ulteriore allontanamento di Washington dal Palazzo di Vetro.

Negli anni '70 e '80 la frattura tra l'Onu e gli Stati Uniti continuò ad aggravarsi. All'inizio degli anni '90, favorito anche dal fallimento della strategia unilaterale in Vietnam e dall'agonia dell'Unione Sovietica, la prima guerra del Golfo vide un parziale riavvicinamento Usa-Onu e una ripresa del multilateralismo internazionalista, ma fu di breve durata. Ben presto, di fronte alla difficoltà di riuscire a far prevalere la propria posizione in Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti tornarono a fare un uso "à la carte" dell'organizzazione del Palazzo di Vetro: seguire le sue risoluzioni fino a che si fossero dimostrate utili a servire i propri interessi e usare le sue assise come un mezzo, qualora fosse stato possibile, per sanzionare le proprie decisioni di politica estera.

L'amministrazione Bush non ha fatto eccezione. In ciò è stata facilitata dall'atteggiamento fortemente critico verso le Nazioni Unite da parte di quelle frange della estrema destra religiosa riunite nella Cristian Coalition che hanno sempre sostenuto l'amministrazione repubblicana e che vedono nell'Onu un "covo di sionisti" da combattere e demonizzare fino ad accusarla di aver ordinato la strage di Waco in Texas nel 1993.

Alla vigilia del conflitto in Iraq Colin Powell si recò di fronte al Consiglio di Sicurezza per tentare di convincere i suoi membri della necessità di attaccare il regime di Saddam Hussein e quando fu chiaro che tale sforzo non sarebbe riuscito, la guerra iniziò lo stesso. L'estrema sfiducia di Washington nelle Nazioni Unite non è stata scalfita nemmeno dalle recenti proposte di modifica dei meccanismi decisionali proposti dal gruppo di esperti nominati da Kofi Annan: anche se è stato recepito il concetto di guerra preventiva al di là del tradizionale ambito della legittima difesa - appunto preventiva - esso è stato caricato di tali limitazioni che l'iperattivo governo americano non può accettare.

Solo così si spiega il distacco verso la riforma Onu manifestato dal presidente Bush nell'intervista citata sopra. Per fornire una cornice di legalità internazionale alle proprie iniziative di politica estera, la Casa Bianca appare intenzionata a seguire altre strade consistenti nell'utilizzare le organizzazioni regionali come la Nato. L'attuale esecutivo statunitense punta infatti a una riforma dell'Alleanza Atlantica per incrementarne la flessibilità strategica e politica. Lo strumento proposto è noto come Combined Joint Task Force (Cjtf), un dispositivo non proprio originale poiché ideato dall'amministrazione Clinton nel 1994, ratificato dai membri Nato nel 1999 e rilanciato dai consiglieri di Bush al fine di facilitare il processo decisionale dell'Alleanza.

In breve con l'istituzione del Cjtf ogni volta che si presenterà una crisi e sarà necessario un intervento dell'organizzazione, anche in ambiti geopolitici diversi da quelli tradizionali, questa non resterà bloccata dai veti incrociati di quei paesi membri che, non vedendo in pericolo i propri interessi, preferiranno mantenersi fuori dall'intervento. Così facendo, in un momento storico come l'attuale in cui gli interessi americani non sempre coincidono con quelli di tutti i paesi europei, Washington potrà utilizzare i meccanismi istituzionali dell'Alleanza Atlantica per mettere in campo varie tipologie di "coalitions of the willing" e raggiungere più agevolmente i propri obiettivi.

Se la riforma della Nato caldeggiata dalla presente amministrazione andrà in porto, l'organizzazione potrà trasformarsi in un alleanza a geometria variabile che potrà operare ben oltre i propri limiti tradizionali e permetterà agli Stati Uniti di superare l'estenuante ma democratica impasse del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ottenere un appoggio e una legittimazione più o meno ampia alle proprie strategie di politica estera.

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