Da La Repubblica del 19/11/2005

I pentiti al processo Mori: c'erano segreti da far saltare lo Stato

"Così la mafia ripulì il covo del boss Riina"

di Attilio Bolzoni

Articolo presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
LA STORIA del covo di Totò Riina è uno di quei misteri italiani dove i confini sbiadiscono, si confondono. C'è un processo che si sta celebrando sulla mancata perquisizione di quel covo. E a dodici anni da quella mattina quando il capo dei capi di Cosa Nostra fu catturato, c'è la pentita Giusy Vitale della cosca di Partinico che racconta: «Seppi da mio fratello che lì dentro c'erano documenti che, se trovati, avrebbero fatto saltare in aria lo Stato».

E a domanda risponde: «Se le forze dell'ordine ne fossero venute in possesso sarebbe successo il finimondo». La testimonianza è di ieri, in un'aula di giustizia.

La cattura di Totò Riina sta trascinando il capo dei servizi segreti in un labirinto siciliano. Fu lui a non perquisire quel covo una mattina dell'inverno ‘93, il 15 di gennaio. Fu l'allora colonnello Mario Mori, oggi generale nominato prefetto e direttore del Sisde, a ordinare al famoso capitano Ultimo e agli altri carabinieri dei suoi reparti speciali di abbandonare «l'osservazione» della casa di un boss che era latitante da quasi un quarto di secolo. Una decisione apparentemente incomprensibile.

Una mossa azzardata che tanto tempo dopo è costata al capo degli 007 - e al suo fedelissimo ufficiale - un'incriminazione per favoreggiamento di Cosa Nostra.

Il dibattimento è in corso ormai da qualche mese, tante sono e sono state le polemiche, tantissime le manovre intorno a un processo che al di là del fatto in sé potrebbe svelare le vicende siciliane che segnano il passaggio tra le stragi dell'estate del 1992 e quell'"invisibilità" mafiosa conquistata con patti e trattative più o meno confessabili.

Ma in queste cose di Cosa Nostra il tempo non passa e non conta. Mai. E così tutto quello che sembrava semplice si è complicato, tutto quello che era stato apparecchiato come «un disguido» è diventato un affaire che fa tremare un pezzo di antimafia che ha sempre "camminato" fuori da certi binari.

Il processo contro Mario Mori e il capitano Ultimo (oggi è un tenente colonnello ufficialmente in forza ai Nuclei antisofisticazione dell'Arma) ha visto l'ultimo colpo di scena ieri pomeriggio con la deposizione di una donna che fino a qualche anno fa era considerata - e anche dai Ros orfani di Mori - un'"affiliata" a quei clan vicini ai Corleonesi dello "zio Totò", lo zoccolo duro della mafia siciliana, quelli che vorrebbero ancora sparare e comandare.

Teste al dibattimento, Giusy Vitale ricorda: «Seppi dell'arresto di Riina da mio fratello Vito che faceva la latitanza a casa mia. Seguivamo il telegiornale e sentimmo che non avevano fatto alcuna perquisizione dopo il suo arresto. La cosa mi stupì». Aggiunge ancora: «Chiesi a Vito e lui mi rispose: "Tutto è possibile" e "le vie del signore sono infinite"». Il fratello Vito era considerato allora uno «nel cuore di Riina», uno fidatissimo.

Cosa era accaduto quel 15 gennaio del 1993 a Palermo? Cosa era successo quella mattina in via Bernini, la strada della borgata di Cruillas dove il boss di Corleone si nascondeva con sua moglie Ninetta e i suoi quattro figli? Totò Riina era stato intercettato verso le 8 e 15 su una strada trafficatissima, il suo covo quelli del Ros lo controllarono solo per qualche ora (ma al procuratore Caselli poi dissero che lo avevano tenuto «sotto osservazione» per più di due settimane), una squadra di mafiosi intanto - la villa era ormai senza più vigilanza dei carabinieri - entrò nella villa e ripulì ogni traccia.

Ecco che cosa ha detto ieri in aula anche Gioacchino La Barbera, uno degli assassini di Capaci: «Hanno cancellato tutto con l'aspirapolvere, portato via vestiti, documenti e le cose più importanti. E poi tinto le pareti e smurata la cassaforte. La portarono via e rimurarono il buco perché non si vedesse più nulla». Ed ecco che cosa ha ripetuto - l'aveva già anticipato in corte di assise a Firenze, nel processo sulle stragi italiane, le bombe mafiose del 1993 - Giovanni Brusca: «In una cassaforte Riina teneva soldi, documenti, appunti, conteggi e atti notarili. Non so il contenuto specifico, ma so che in quel momento si parlava sempre di appalti e traffici di droga».

Dopo quel blitz dei commandos di Corleone un altro mafioso, Giovanni Sansone, si occupò di mischiare ancora di più le carte.

Ha ricordato ancora il pentito la Barbera: «Fu deciso di portare via i parenti di Riina da quella casa e poi di eliminare tutto ciò che poteva segnalare la presenza sul posto dello zio Totò: Sansone incaricò alcuni muratori di cambiare la conformazione della villa, furono abbattuti alcuni muri e ne vennero tirati su di nuovi». E ancora Brusca: «Bisognava togliere qualsiasi traccia che poteva ricondurre a lui». In quei giorni, mentre i mafiosi "ristrutturavano" il covo di Totò Riina, il colonnello Mario Mori assicurava i magistrati di Palermo, raccontava loro che «il covo era vigilato». Così è finito sotto processo con il capitano Ultimo. Così il generale è finito nel labirinto siciliano.

Il resto di questa storia non la svelerà certo l'ex amante di Giusy Vitale che a Palermo - proprio ieri mattina - ha raccontato che «Giusy si è inventata tutto sul covo di Riina». L'ex amante si chiama Alfio Garozzo, è un pentito di Catania che già nel ‘98 avevano espulso dal programma di protezione. Ha detto pure che c'è stato un accordo «a tavolino» tra il procuratore nazionale Pietro Grasso e la Giusy, che nel baratto lui e lei hanno potuto perfino godere di certe intimità nel carcere di Rebibbia. Un fascicolo sul maldestro tentativo di depistaggio è finito alla procura di Caltanissetta. Il catanese è indagato per calunnia.

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