Da La Stampa del 21/03/2006
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/torino/200603articoli/3366...

I familiari delle vittime e le loro vite in trincea

di AA.VV.

Articolo presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
Impastato e l’esempio del fratello

Giovanni Impastato non ha smesso di lottare, anzi. Dalla morte di Peppino, assassinato il 9 maggio 1978, «ho preso finalmente coscienza, ho smesso di difendere mio padre, un mafioso, ho iniziato a combattere. Io non ho mai avuto il coraggio di Peppino, ma il dolore serve a cambiare». Giovanni, la sua battaglia, la combatte tutti i giorni: «Sono un commerciante e le mie idee sulla mafia le conoscono tutti, ma non voglio andare in giro con la scorta, voglio andare ovunque in sicurezza e fiducia, perché il messaggio deve essere uno e unico: chi lotta contro la mafia può lavorare e vivere tranquillamente, senza abbassare la testa e senza paura». Il fratello, amato, odiato, punto di riferimento, ancora oggi, dopo tutti questi anni, «mi manca così tanto. Non era solo un fratello, era un compagno di lotta ed era un siciliano libero. Mi manca, perché penso a quello che avrebbe potuto ancora fare. Lo immagino oggi, che sarebbe stato di sicuro insieme ai no global e ai movimenti, impegnato in mille altre battaglie per la libertà».

La resistenza della sorella di Rostagno

Quando il 25 settembre 1988 Carla Rostagno viene a sapere della morte del fratello Mauro, non dice una parola, non riesce a piangere, non riesce a urlare. Apre la porta di casa, scende le scale di corsa e scappa, da cosa non si sa, se non dalla notizia dell’assassinio del fratello. Oggi Carla è a Torino con la figlia di Mauro, Monica, che vive in India, «per combattere nel suo nome, nel nostro nome, per fare in modo che tutti questi morti non siano stati inutili».
All’indomani dell’assassinio di Mauro, Carla si licenzia, prima per seguire le indagini, poi «per sensibilizzare: bisogna sviluppare gli anticorpi alla mafia. Non è un’impresa impossibile e le storie di resistenza alla corruzione e alle mafie esistono». Carla cerca di portare avanti quello in cui credeva Mauro, «la necessità di combattere a costo della vita per essere degli uomini liberi e dei liberi pensatori, anche in un paese come questo, dove c’è la dittatura del pensiero unico». Questo era il suo messaggio, «lui diceva sempre che era fondamentale essere cittadini consapevoli e partecipativi. Io dico: tutte queste persone hanno pagato il conto per noi, ora è il nostro turno».


Margherita Asta: si può cambiare

Margherita Asta aveva dieci anni, il 2 aprile 1985. Margherita oggi ha 31 anni, la stessa età che aveva sua madre quando è stata dilaniata da una bomba piazzata dalla mafia. Barbara, la madre di Margherita, stava accompagnando a scuola i suoi gemellini, Giuseppe e Salvatore, sei anni appena compiuti: il destino ha voluto che la sua auto, a Pizzolungo, incrociasse nel momento sbagliato quella del giudice Carlo Palermo, a cui era destinata la bomba, e facesse da scudo. «Ho perso mia madre e i miei fratelli nella strage. Di loro è rimasta solo una macchia rossa di sangue su un muro». Margherita è coordinatrice di Libera a Trapani e «se faccio quello che faccio è perché sono certa che un cambiamento ci possa essere: l’importante è non delegare. Non possiamo riempirci la bocca sulle ultime novità del Grande Fratello e della Fattoria e non parlare mai di mafia, come se non esistesse o come se riguardasse solo gli altri. La mia esperienza dimostra che la mafia uccide chiunque, anche gli innocenti. Parlare del dolore, anche quello più personale, serve per trasformarlo in energia e speranza».

Piera Aiello e il sacrificio della cognata

La storia di Rita Atria e Piera Aiello è una storia di donne e di coraggio. Insieme, Piera e Rita, fecero il grande passo, raccontarono tutto al giudice Borsellino. La cognata Rita era troppo fragile e quando uccisero Borsellino decise di morire. Piera era più forte e ce l’ha fatta. Piera è testimone di giustizia: «Non fu coraggio, quando finii di parlare pensavo di tornarmene a casa e basta, e invece mi dissero che era meglio non tornarci, a casa. Non avevo idea di quello che stava succedendo, non sapevo neanche cosa fosse un pm e chiamavo Borsellino “onorevole”. Mi ritrovai testimone di giustizia. Ho deciso di continuare ad esserlo». Sono passati 15 anni dalla prima parola contro la mafia e «ora, dopo tutti questi anni, provo anche un senso di rabbia contro chi gestisce la vita dei testimoni: l’abbandono, la solitudine - la stessa che provava Rita, perché di questo è morta - è sempre peggio. Bisognerebbe capire cosa si passa a essere testimone, solo chi è dentro lo capisce veramente. Ma lottare per la giustizia e diventarne testimone è un dovere, rifarei tutto da capo».

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