Da Il Resto del Carlino del 28/07/2006

Strage del 2 agosto 1980

La stazione di Bologna come in tempo di guerra

Fra morti e feriti, il nostro inviato racconta il suo arrivo sulla scena della devastazione, in Piazza delle Medaglie d'Oro. L'orologio segna le 10,25. I morti si contano a decine, i feriti appaiono come fantasmi. Forse una fuga di gas, ma presto giunge la certezza della bomba

di Gianni Leoni

Il sangue sulle facce, sugli abiti e sulle pietre. Il silenzio. E le urla. Eppoi il rumore delle ruspe. E la tetra sfilata degli autobus che ripartivano in una processione senza fretta e senza passeggeri, col solo autista e ogni volta verso lo stesso capolinea: la camera mortuaria.I corpi stavano sul pavimento, tra i sedili, distesi in fila sotto i lenzuoli bianchi, e c’era qualcosa di surreale in quell’avanzata di mezzi senza volti ai finestrini, che non rispettavano le fermate e che tenevano gli sportelli aperti solo nell’ultimo tratto del viaggio di ritorno verso un altro carico, e un altro, e un altro ancora, in una mesta, interminabile serie di funerali di gruppo.

La piazza della stazione, in quel mattino di sole e di stupore, di domande e di sirene, era così, un grande cimitero senza fiori e senza croci nel quale i sopravvissuti si aggiravano come maschere tragiche, solitari o a drappelli, senza meta, senza parole e senza lacrime. Uno di loro sbucò d’improvviso da un nuvolone di polvere che portava i toni dei muri della sala d’attesa e i riflessi delle cromature metalliche degli infissi, e quel suo passo placido e stravolto gli conferiva l’aspetto di un brutto fantasma dagli abiti stracciati e dalla faccia insanguinata, con lo sguardo perduto e con la bocca aperta in cerca d’aria, di forze e di coraggio, comparso fuori orario e da chissà dove, a disagio tra la gente e nella luce.

Nell’inferno dei cumuli di pietre, di corpi spenti, di binari divelti e di valigie sfasciate che offrivano agli sguardi le macchie policrome dei loro contenuti, le lancette dell’orologio a muro, immobili sulle 10,25, parevano un compasso disteso da un capo all’altro dell’area cancellata dalla bomba: la sala d’aspetto di seconda classe. Su quello stop d’orario, il 2 agosto 1980, giusto 25 anni fa, si era fissata la tragedia.

Bologna viveva il clima rilassato dei periodi di ferie. «Cos’è stato?», chiesi al collega Sandro Bosi, in piazza Galileo. Nessuno lo sapeva, ma il sussulto di una sirena ruppe la quiete e pareva già una risposta. L’illusione di un incidente casuale immediatamente. E allora tutti capimmo. O quasi. Poi la verità si fissò come un marchio sul nuvolone di polvere che saliva dai resti della sala d’attesa. Una bomba dalla potenza terrificante, abbandonata da una mano assassina, aveva sbriciolato quei vani e i sogni e i pensieri di centinaia di persone.

In altre zone della piazza, invece, il lavoro scandiva ritmi più lenti, perché la fretta, ormai, non serviva più. I morti partivano col bus, e un addetto teneva il conto su un quaderno, e i feriti sbucavano dalle briciole di sassi e di schegge, sballottati dai barellieri in corsa, e nelle maschere di polvere assomigliavano un po’ tutti l’uno all’altro e tutti si guardavano intorno in cerca di una faccia o forse di niente. Padre Mario, un frate domenicano, in veste bianca macchiata di sangue, recitava il rosario all’arrivo di ogni morto e all’arrivo di ogni ferito.

Anche quello raccontammo noi, testimoni di uno spettacolo straziante e nobile, che esaltava il lavoro di tanti uomini accorsi per salvare tanti altri uomini. E i 350 soldati della Brigata Trieste e del Genio Ferrovieri, allungati in un cordone di mani tutt’intorno alla piazza eppoi al lavoro con i vigili del fuoco e i carabinieri e la polizia e gli uomini della Finanza e i vigili urbani e i volontari, tra i resti dell sala d’aspetto, del ristorante, della biglietteria e nell’ammasso di lamiere di due carrozze del treno straordinario 13534 da Ancona per Basilea, che sarebbe dovuto partire alle 10,27.

Noi giornalisti ci eravamno sistemati nella hall di un albergo di fronte alla stazione, per una cronaca in diretta telefonica di volta in volta aggiornata. C’ero io, e c’erano Roberto Canditi e Lamberto Sapori e Romy Grieco, i primi ad arrivare, e c’erano tanti altri cronisti del Carlino e non solo. E anche il pomeriggio divenne interminabile. Come la notte e il nuovo giorno e uno dopo l’altro tutti quelli successivi. Ma la stanchezza non ci prese mai. L’orrore e le emozioni ci avevano isolati in un robusto scudo di forza, e la fatica restava lì, tutt’intorno, ma fuori da quel piccolo, inattaccabile alone di resistenza.Poi l’inchiesta spinse e chiese spazio nei titoli e nei commenti, e l’eco di quel botto terrificante chiuso da un bilancio di 85 morti e di 200 feriti divenne un ricordo e un romanzo di pagine drammatiche, e anche tutti noi uscimmo da quell’invisibile scafandro protettivo, e la stanchezza, finalmente, ci riportò nella realtà e tra gli altri.

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