Da Corriere della Sera del 12/09/2006

Gustavo Pignero ricostruì con i pm il caso dell’imam rapito

Da Curcio ad Abu Oma. Morto il generale che accusava Pollari

I verbali ora potrebbero essere a rischio

di Giovanni Bianconi

ROMA — Quando gli hanno notificato l'ordine d'arresto, all'inizio di luglio, era già malato, tanto che il giudice aveva disposto di lasciarlo a casa. E gli interrogatori vennero condotti con cautela, dilazionati nel tempo. Si affaticava Gustavo Pignero, generale dei carabinieri e capo di divisione del Servizio segreto militare, mentre rispondeva alle domande dei magistrati milanesi che indagano sul sequestro dell'imam egiziano Abu Omar. Prima come «persona informata sui fatti», poi nella veste di indagato, infine di principale testimone d'accusa contro il direttore del Sismi Nicolò Pollari. Ieri pomeriggio la malattia ha vinto, e Gustavo Pignero è morto all'ospedale Forlanini di Roma. Napoletano, avrebbe compiuto 59 anni alla fine del mese. Prima di approdare al Sismi nel 1980, fu una delle icone del nucleo antiterrorismo dell'Arma guidato dal generale dalla Chiesa. Nel 1974 gestì il rapporto con Frate Mitra, il prete-guerrigliero infiltrato nelle Brigate rosse che portò all'arresto dei «padri fondatori» Renato Curcio e Alberto Franceschini. Chi ha lavorato al suo fianco negli «anni di piombo» lo ricorda investigatore capace e uomo generoso, riservato e di poche parole, ma anche cordiale e disponibile.
Al Sismi ha salito molti gradini fino a diventare direttore della Prima Divisione: controspionaggio, controterrorismo e criminalità organizzata transnazionale. Incarico importante, che però gli è costato anche il coinvolgimento nell'indagine sul sequestro di Abu Omar, sparito da Milano nel febbraio del 2003. Quando i pubblici ministeri hanno cominciato a sollevare il velo su quell'intrigo, Pignero fu interrogato come semplice testimone e per due volte ha negato ogni coinvolgimento in quel rapimento, a qualunque titolo. Ma le sue telefonate con l'altro dirigente del Sismi finito agli arresti, Marco Mancini, facevano trapelare ben altre conoscenze sul sequestro. Scattò l'arresto e saltò fuori l'«intercettazione privata» con Mancini organizzata da quest'ultimo, in cui il generale ammette le bugie ai magistrati e svela il ruolo del direttore Pollari come tramite tra la richiesta della Cia di rapire Abu Omar e le «conseguenti direttive impartite» allo stesso Pignero.
Nella registrazione confermata nell'ultimo interrogatorio, il generale ammette di aver mentito coi magistrati «per tenere fuori il direttore, le autorità politiche e il Servizio soprattutto... Perché sono ventisei anni che ci sto... Per un senso dello Stato», dice, mentre ricorda la consegna da parte di Pollari della lista delle persone da «portare via» che il direttore aveva appena ricevuto dal capocentro della Cia. Elenco poi distrutto dallo stesso Pignero, il quale dopo qualche accertamento riferì a Pollari che la sua Divisione non avrebbe rapito nessuno «perché non siamo in Sud America», e «alla fine il direttore era stato d'accordo».
Per i procuratori di Milano le deposizioni di Pignero, unite ad altre, sono sufficienti a sostenere l'accusa di concorso in sequestro di persona contro Pollari, e non solo. Quei verbali, seppure non ribaditi in presenza di tutte le parti coinvolte, secondo il codice sono utilizzabili perché divenuti atti irripetibili a causa di «circostanze imprevedibili» come la morte dell'indagato-testimone. Ma qualche difensore potrebbe eccepire che la malattia avanzata di Pignero non consente questa conclusione, imponendo così un'altra strettoia tecnico- giuridica alla delicata inchiesta che coinvolge il numero uno dello spionaggio militare in Italia.

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