Da La Padania del 26/06/1998
Originale su http://old.lapadania.com/1998/giugno/26/260698p02a1.htm

ESCLUSIVO / La scomparsa di Emanuela Orlandi: forse una pista per individuare chi la sequestrò

I turpi traffici della banda della Magliana

Una lettera anonima dell'83 oggi potrebbe portare a scoprire la verità

di Max Parisi

Roma È stato un lampo. Un improvviso bagliore che ha illuminato per pochi istanti uno scenario dove la sparizione di Emanuela Orlandi avvenuta 22 giugno '83 sembra acquistare un senso preciso e agghiacciante.Procediamo per gradi. Nella precedente puntata della nostra inchiesta pubblicata lo scorso 6 giugno, eravamo arrivati a dei punti fermi. Sinteticamente: tra le 15 e 30 e le 16.00 del giorno della sparizione, Emanuela viene vista (e successivamente riconosciuta) da due persone, un vigile urbano e un poliziotto, davanti a Palazzo Madama mentre parla con un tizio, poi descritto come un "biondino, stempiato, corporatura snella, età tra i 35 e i 40, viso abbronzato, altezza vicina a un metro e ottanta".Il vigile ricorderà che mentre "il biondino" si sta per allontanare a bordo di una BMW giardinetta (vernice metallizzata, colore verde) rivolgendosi alla ragazzina, dice: «Ciao, ci vediamo dopo».La giovane, durante una pausa delle lezioni di musica al Conservatorio che quel pomeriggio sta seguendo, telefona a casa e avvisa di avere un appuntamento all'uscita con un tale che le ha offerto un lavoro di pubblicizzazione di profumi a una sfilata di moda promettendole per questa attività ben 375.000 lire. La sorella, da casa, cercherà di dissuaderla, ma Emanuela la avverte che andrà in ogni caso a quell'incontro, casomai con due sue amiche.Alle 18.00, terminate le lezioni, Emanuela e due altre ragazzine raggiungono la fermata dell'autobus 71 attendendo che arrivi "l'uomo dei profumi", che però non si fa vedere. Alle 18 e 45 le due amiche salgono sul bus che le porterà a casa. Emanuela a questo punto - sulla scorta della testimonianza di un altro poliziotto in servizio di guardia al Senato - torna davanti a Palazzo Madama dove c'è in attesa un'auto sulla quale la guardia la vede salire di spontanea volontà mostrando in quegli attimi anche una tranquilla confidenza con chi è al volante, che però l'uomo delle forze dell'ordine non riesce a vedere bene e quindi a descrivere. Fine. Questa è l'ultima prova testimoniale certa di Emanuela Orlandi in vita.A quarantotto ore dalla scomparsa, quando ancora la notizia non è di dominio pubblico, si attivò nella ricerca (spontaneamente, senza ordini superiori) un agente del Sisde, amico personale degli zii della ragazza. In pochi giorni, che diventeranno poche settimane fino al momento in cui il Servizio segreto gli ordinerà di sospendere tutto trasferendolo - in maniera punitiva - ad altro reparto, questo agente svolse un'indagine ficcante. Il suo obbiettivo era di riuscire a "mettere le mani" sul primo "anello", sulla prima o sulle prime persone che con tutta evidenza avevano adescato Emanuela facendola cadere in una trappola. Perché "trappola"? Semplice: questo agente riuscì subito a dimostrare che "il biondino" aveva raccontato alla ragazza una serie micidiale di fandonie: non era vero che quella casa di profumi (la Avon) avesse intenzione di darle un lavoro di pubblicità, era del tutto inventato l'evento (una sfilata della casa di mode Sorelle Fontana) nel quale Emanuela avrebbe dovuto "lavorare", stando alle parole di quel losco individuo. Così pure non ci sarebbe stata alcuna manifestazione a Palazzo Borromini a Roma che viceversa "il biondino" aveva indicato a Emanuela come il luogo dell'attività retribuita con 375.000 lire. Non era vero niente, quindi. A Emanuela erano state raccontate una serie di menzogne che associate alla scomparsa diventavano con tutta evidenza la traccia principale da seguire. E tuttavia non accadde. L'ultima azione operativa che compì questo agente segreto in merito al caso Orlandi (prima di venire bloccato dai suoi superiori) fu di arrivare forse "a un passo" dall'individuazione dell'auto con la quale "il biondino" aveva adescato la ragazza quel pomeriggio fra le tre e le quattro. Il detective aveva chiesto alla sede centrale della Bmw di Verona l'elenco di tutte le auto di quel modello e di quel colore vendute negli ultimi anni in Italia. La Bmw gli fece avere - subito - un tabulato con circa 150 vetture. Le controllò tutte. Ed ecco che dopo una serie di tentativi a vuoto, il detective incappò in un caso interessante. Un dipendente di un'officina autorizzata Bmw della capitale gli segnalò che tempo prima - certamente dopo la scomparsa di Emanuela - una "tizia" era venuta a far aggiustare una vettura identica a quella cercata. Aveva il vetro del finestrino anteriore destro frantumato, ma nessun altro danno. Il carrozziere si era stupito perché questa signorina aveva raccontato che l'auto non era sua ma di un suo amico, ma documenti a bordo non ce n'erano. In ogni caso, quella strana cliente aveva lasciato indirizzo e telefono: quelli del Residence Manllia di Roma. L'agente si precipitò lì e riuscì subito a parlare con la donna, viveva ancora in quella casa-albergo, ma: «La ragazza, appariscente, fin troppo, fisico muscoloso, notai anche i suoi polpacci "scolpiti", quelli di chi fa sport non saltuariamente, si rifiutò con veemenza di rispondere a qualsiasi domanda. Anzi, mi chiese chi ero io per porglierle. Me ne andai, le dissi che sarebbe stata chiamata in questura dato che non voleva fornirmi un semplice ragguaglio. Le avevo chiesto solo di chi era l'auto che aveva fatto aggiustare a quell'officina, niente di più». Questo ricorda l'agente del Sisde (da anni è un ex agente, lavora presso un ministero in tutt'altra mansione). Torniamo ai fatti. Il pomeriggio dello stesso giorno, rientrato in ufficio, questo detective ricevette una colossale "lavata di capo" per avere "importunato" quella giovane donna. Cosa era accaduto? La ragazza aveva preso nota della targa dell'auto dell'agente e l'aveva riferita a un "pezzo grosso", un suo amico, della questura. Accertare che non si trattava di un mezzo della polizia era stato facile, meno facile, anzi, stupefacente l'immediato sviluppo: quel "pezzo grosso" aveva parlato con Emanuele De Francesco, direttore del Sisde, che a sua volta aveva preso contatto con il diretto superiore (il dottor Criscuolo, capo centro) di questo "detective ficcanaso" che quindi venne chiamato a rapporto e riempito di improperi. In ultimo, fu stilata sanche una nota di demerito "per avere compiuto accertamenti non opportuni sul caso Orlandi"! Mentre a Roma tra luglio e agosto del 1983 accadevano questi fatti, la magistratura stava anche dando la caccia (che continuerà per tutto il 1984 fino all'arresto in dicembre) al gangster della banda della Magliana Enrico De Pedis, detto Renato. Il boss era latitante, era colpito da mandato di cattura in quanto accusato di nefandezze d'ogni tipo: traffico di droga, omicidi, traffico di armi, riciclaggio, mafia, perfino usura assieme ai suoi temibili "soci", i cravattari di Campo dei Fiori. Il clan De Pedis era - e in parte lo è tutt'oggi - anche proprietario (fra le tante attività) di diversi ristoranti- pizzeria nel centro storico di Roma, alcuni situati nel quartiere di Trastevere. Ebbene, qualcuno parlò. No, non fu una spiata in senso stretto, semmai una notizia arrivata all'orecchio degli inquirenti che però porterà le indagini sulla strada giusta. Il boss ha un'amante, spifferò un informatore, e non si tratta di una donna qualsiasi, è la moglie di un notissimo calciatore della Lazio. La donna venne seguita per mesi, e alla fine il gangster cadde in trappola. L'avvenente figliola l'aveva raggiunto in un appartamento di via Vittorini 63 nel cuore di Roma, ma alle sue spalle in quella casa entrò un nugolo di agenti sorprendendo De Pedis che finì in manette.Ora fate attenzione: il 17 ottobre 1983 alla sede di Milano dell'Ansa arrivò per posta una lettera anonima sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Nell'ultima parte dello scritto - riferì l'Ansa - l'autore faceva cenno al calciatore Spinozzi della Lazio, che avrebbe conosciuto sia Emanuela Orlandi che un certo "Aliz" e che quindi saprebbe molto della vicenda. Aliz, spiegava il misterioso autore della missiva, avrebbe ucciso Emanuela e ne avrebbe occultato il cadavere. All'indomani di queste notizie, la società Lazio, il calciatore e tutta la squadra protestarono vivacemente per la diffusione di questo messaggio anonimo, che giudicarono delirante. Anche gli inquirenti ritennero la lettera priva di fondamento, e lo stesso calciatore, il terzino Arcadio Spinozzi, nella conferenza stampa che venne immediatamente indetta dalla società calcistica negò ogni coinvolgimento personale nel caso Orlandi, dichiarando: «La lettera è opera di un folle intelligente che ha scelto bene la sua vittima. Sono sufficientemente conosciuto, ma non come altri miei compagni di squadra, sono scapolo, e il 22 giugno ero uno dei pochi ad essere a Roma». È molto probabile che Spinozzi non sapesse che la giovane moglie (aveva 23 anni nel 1983) del leader della sua squadra era l'amante del capo della banda della Magliana e vedeva il boss nel frattanto latitante, ma chi scrisse quella missiva altrettanto probabilmente sì, e soprattutto sembrava sapere dell'altro, cioè che la fanciulla era invischiata in un particolare genere di "giro" che verrà alla luce solo anni dopo. Quale? Vediamo. Tra la fine del 1988 e l'inizio del 1989 la magistratura aveva fatto mettere sotto controllo alcuni telefoni intestati a società i cui amministratori risultavano dei prestanome dei boss della Magliana, di De Pedis e di altri sgherri. Ascoltando e registrando, le forze dell'ordine scoprirono qualcosa che non stavano cercando. Anziché di soldi sporchi, di droga e armi, le conversazioni erano centrate su tutt'altri traffici: si trattava di prostituzione, di un giro di prostitute slave e minorenni. La persona che sembrava essere coinvolta direttamente in questa porcheria, ovvero colei che parlava di queste cose ai telefoni sotto controllo, era proprio quell'amante di De Pedis, la donna che involontariamente nel 1984 lo aveva fatto finire in carcere. Stando alle intercettazioni, era attivo un vastissimo giro di prostituzione tra la Toscana e Perugia con una clientela anche romana di alto rango. Vennero individuati anche alcuni appartamenti dove lo squallido mercato di sesso aveva luogo nel capoluogo umbro.Ora capite cos'è "il lampo" di cui ho parlato all'inizio? Alla luce di queste scoperte, oggi, rileggendo quel messaggio che nell'83 sembrò privo di fondamento e "delirante", esso appare come un terribile avvertimento in codice. Il classico "avviso" a Tizio perché Caio capisca? Cosa poteva significare, quindi? Che in qualche modo la banda della Magliana aveva a che fare con il sequestro di Emanuela Orlandi?Così, riflettendo su queste notizie, assume una straordinaria rilevanza un infinitesimo dettaglio: pochi giorni dopo la scomparsa, telefonarono - l'avete già letto nella precedente puntata - a casa della sua famiglia due giovani, un certo "Mario" e un certo "Pierluigi". Le chiamate vennero registrate da chi parlò con loro, lo zio della ragazza. Ebbene, l'accento dialettale di entrambi era quello classico dei trasteverini, e i rumori di sottofondo delle due telefonate erano quelli tipici di un ristorante romano affollato, piatti, gente, camerieri vocianti. Proprio quel genere di locali che De Pedis possedeva a Trastevere, la cui "parlata" aveva tradito gli anonimi interlocutori. Arrivato a questo punto, capite, il quadro che si viene delineando è terribile.Emanuela cade nella trappola di un adescatore "professionista", non di un maniaco isolato. Lei, come chissà quante altre ragazzine scomparse nel nulla - la casistica è sterminata - viene sì rapita, ma da un'organizzazione che si dedica a un mostruoso genere di "affari". È agghiacciante dover sottolineare che mai in tutti questi 15 anni - e dico mai - è stata fornita dai presunti "sequestratori" di Emanuela Orlandi una sola prova certa dell'esistenza in vita dell'ostaggio. Sono comparse fotocopie - questo sì - dei documenti in possesso della ragazza al momento della sparizione, ma ciò non significa altro oltre il fatto che chi le ha spedite, fatte ritrovare, ha avuto direttamente a che fare in modo paradossale con questo sequestro. Anziché premurarsi di dimostrare che il rapito era vivo - fatto indispensabile affinché le richieste in ogni caso vengano esaudite - i sedicenti "sequestratori" riuscirono solo a provare di aver avuto in mano gli effetti personali della ragazza. No, non funziona così il meccanismo ferreo dei sequestri di persona a fine di lucro e a maggior ragione di altro, ad esempio lo scambio di prigionieri. Quindi? Fu un micidiale depistaggio per impedire che le indagini imboccassero la strada giusta venendo a scoprire orrori indicibili al cui confronto le già terribili gesta della banda della Magliana sarebbero apparse addirittura irrilevanti. Quale altro genere di "clienti" soddisfava questa holding criminale? Quali abominevoli appetiti saziava questa tremenda organizzazione? Certo non è una novità che i boss della Magliana trafficassero in eroina, droga che veniva fornita loro da bande di narcos turchi in affari anche con Cosa Nostra. Sì, proprio i Lupi Grigi di Alì Agca facevano arrivare l'eroina ai gangster della Magliana. Non è difficile ipotizzare che qualcuno possa avere offerto loro un'arma - le povere cose di Emanuela Orlandi e qualche smozzicato ricordo captato dai suoi veri sequestratori - per ricattare il Vaticano e lo Stato italiano e contemporaneamente "tranquillizzare" il sicario di piazza San Pietro, sulla cui testa pendeva l'ergastolo. Quell'arma venne fornita, però, senza il "colpo" principale: una, solo una qualsiasi prova certa che dimostrasse che Emanuela era viva.

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