Da Il Barbiere della Sera del 24/10/2005

Delitto Fortugno. Accuse pesanti fra Corsera e Repubblica

E' una piccola storia ignobile, che vi vado a raccontare. Da MediaQuotidiano.it

di Mario Adinolfi

E' una piccola storia ignobile, che vi vado a raccontare. Perché questo è il paese delle guerre tra cosche ed è il suo stilema. Più elegantemente, nel giornalismo e non solo, si chiama guerra tra bande.

Protagonisti, anche questa volta, i due principali quotidiani italiani: Corriere della Sera e Repubblica. I direttori: Paolo Mieli ed Ezio Mauro. Due loro autorevoli firme: Sergio Romano e Giuseppe D'Avanzo. Un gruppetto di cronisti per parte, capitanati da Fiorenza Sarzanini e Attilio Bolzoni.

C'è anche una vittima, uno che già gli hanno sparato, non c'era bisogno di ammazzarlo un'altra volta. E' Francesco Fortugno, il vicepresidente della Regione Calabria ucciso giusto otto giorni fa. E la piccola storia ignobile, andiamo a raccontarla.

Chiunque sappia qualcosa di Calabria, chiunque conosca quel che sta accadendo in questi mesi con l'arrivo di Agazio Loiero alla presidenza della Regione, sa perché è stato ucciso Francesco Fortugno.

L'ha spiegato bene il membro della commissione parlamentare antimafia, Giovanni Russo Spena, in una mia trasmissione: "E' in corso il tentativo della 'ndrangheta di ricontrattare equilibri politici con le istituzioni".

Loiero non è un santo né un rivoluzionario. Ma in Calabria vuole comandare e per farlo rimuove molti da molti posti chiave. Ieri ha persino rimosso un assessore di Rifondazione che si era assunto la moglie, come da costume regionale.

La 'ndrangheta ha preso di mira Fortugno, uno che non aveva incarichi operativi, un uomo mite e privo di potere decisivo, per mandare il suo avvertimento. Prima aveva mandato i proiettili a casa di Loiero e aveva minacciato senza colpire. Ora ha avvertito. Tutto chiarissimo.

Repubblica spiega correttamente con Attilio Bolzoni e altri quel che sta avvenendo. Mieli invece vuole, fortissimamente vuole, differenziarsi dal concorrente e manda in Calabria la solitamente scrupolosa Fiorenza Sarzanini.

Escono fuori strane storie, la cui sostanza è: in realtà Fortugno era colluso con la 'ndrangheta. Lo hanno fatto fuori perché aveva le mani in pasta negli appalti della sanità, per una storia da 14 milioni di euro all'ospedale di Locri. Spuntano tabulati telefonici e 31 chiamate tra Fortugno e un medico-boss latitante, Giuseppe Pansera imparentato con un boss ancora più potente chiamato Tiradritto.

A nulla servono le assicurazioni della vedova di Fortugno, che racconta subito che si tratta di telefonate relative alla fase di elezione dei rappresentanti all'ordine dei medici. A nulla serve notare che le telefonate sono tutte precedenti al momento in cui Pansera diventa latitante. Il Corsera prosegue per giorni con la sua linea.

Poi, è domenica e arriva su Repubblica un articolo di Giuseppe D'Avanzo. Che spiega che le telefonate non erano 31 ma 12, che duravano al massimo tre minuti e soprattutto risalgono a sei anni fa.

Scrive testualmente D'Avanzo: "Era un uomo storto, Francesco Fortugno ucciso una settimana fa a Locri? Era davvero una persona per bene, come hanno detto Ciampi, Pisanu, Prodi, D'Alema, e la Calabria pulita di Loiero, di Minniti, del vescovo Bregantini? O, Fortugno, lo era soltanto apparentemente perché in realtà tesseva un filo segreto con la 'ndrina di Giuseppe Morabito, Tiradiritto?

Cade l'umore a vedere come, ai livelli infimi, il tempo non passa. Uccidere un uomo, si sa, è soltanto la prima mossa per i mafiosi. Per garantirsi l'impunità, dopo averlo accoppato o addirittura prima di accopparlo, è utile corrompere la verità della vita e della morte dello sventurato. Se è innocente, bisogna farlo colpevole. Se è trasparente, opaco. Chi mai si dannerà l'anima per trovare il colpevole e la ragione di quell'assassinio?".

D'Avanzo non cita mai il Corsera, perché nelle guerre tra bande il linguaggio è quello delle allusioni, ma è chiaro che l'attacco è dritto al cuore del concorrente che s'è comportato in modo disinvolto uccidendo un uomo già morto e facendo il gioco dei mafiosi.

Scrive D'Avanzo: "È un metodo che abbiamo visto al lavoro con buoni risultati nel corso del tempo. Anche Giovanni Falcone lo patì. Gli misero una bomba sulla scogliera davanti a casa. Soffiarono malignamente che 'se l'era messa da solo'. In queste ore, è la memoria di Francesco Fortugno a pagare. Dai cd-rom di un'indagine milanese, nata per mettere le mani su Tiradiritto latitante, saltano fuori 31 telefonate tra Fortugno e il genero del mafioso.

Sono davvero 31 le telefonate? E poi di quali telefonate si tratta? Se si prova a rispondere a queste domande non inutili, affiora un quadro interessante. Delle 31 telefonate, tra "tentativi di chiamata", telefonate interrotte dopo pochissimi secondi (cade la linea), telefonate registrate più volte, le conversazioni sono in totale 12 in tre anni (1997/2000). Non proprio un'assidua familiarità, pare.

Bisogna però chiedersi di che cosa parlano Fortugno e il genero di Tiradiritto, entrambi medici. Risponde l'investigatore che ha condotto l'inchiesta: 'Di cose da medici, per dir così'. Ne parlano anche brevemente perché la più lunga di quelle telefonate effettive dura appena 181 secondi". Sono conversazioni così irrilevanti che, nell'indice dell'istruttoria, la rubrica dei controlli su 464 linee telefoniche non fa nemmeno riferimento all'utenza di Francesco Fortugno.

Tuttavia, una "manina" sapiente (o disgraziata), nelle ore successive al delitto, riesce ad estrarne una traccia da un calderone di centinaia di file per avvelenare il metabolismo dei media dimenticando che, tra quei file, ci sono addirittura le prove dei contatti telefonici, con una mediazione tra il genero del mafioso (ormai latitante) e due utenze in carico al Viminale, al ministero dell'Interno. Notizia di un qualche interesse in giorni in cui si discute molto della "qualità" della presenza dello Stato in Calabria.

La mossa di spingere sotto i riflettori ciò che è ininfluente, e nascondere ciò che è essenziale, dà qualche pensiero. Chi ha in mano quei cd-rom è dentro lo Stato, ne è un funzionario o un servitore. Il suo passo falsario è fraudolento o soltanto irresponsabile? Se non ci si accontenta di restare alla superficie degli eventi, occorre chiederselo perché, se fraudolento, si avrebbe la conferma che è stata ed è anche la protezione dello Stato a garantire il potere della 'ndrangheta.

Se il passo è soltanto irresponsabile, si comprende meglio come, in Calabria, lo Stato giochi la sua partita con una squadra mediocre e inetta, come peraltro ci raccontano i conflitti interni che impegnano la magistratura calabrese, sopra ogni altra cosa.

Quel che conta è che, a una settimana dalla morte di Francesco Fortugno, 19 telefonate - irrilevanti, da qualsiasi punto di vista - hanno allontanato l'attenzione dagli assassini e dalla 'ndrangheta per scaricarla, gonfia di sospetti, sulla vittima".

La risposta il Corsera oggi l'affida a Sergio Romano, uno di quei senatori del giornalismo di cui non puoi dire mai male. Uno che stavolta deve arrampicarsi sugli specchi, in un esercizio di cerchiobottismo di cui maestro e teorico è il suo direttore.

Uno che attacca l'articolo scrivendo che sarebbe assurdo fare di Fortugno "un complice o un sodale" della 'ndrangheta. Poi aggiunge: "Esiste una larga area della società in cui si è formata col passare del tempo una rete di complicità, collusioni, silenzi interessati, relazioni familiari, favori fatti e ricevuti". Fortugno, secondo Romano, è in questa "larga area".

E parte l'attacco, sempre nello stile dell'allusione, senza nominare il giornale concorrente: "Temo che (...) una certa cultura marxista e cristiana abbia offuscato la natura del problema".

Repubblica risponde con una paginata di Bolzoni la cui titolazione spiega tutto: "Depistaggi sul caso Fortugno, a Reggio è caccia alla talpa: i magistrati convinti che qualcuno abbia voluto screditare il politico ucciso una settimana fa".

Leggetevi l'articolo, è sul giornale di oggi. Interviene pure l'Unità, sulla stessa linea di Repubblica, ma anche l'Unità non vuole scrivere che lo strumento del depistaggio è stato il Corsera di Paolo Mieli. Il Manifesto invece scrive di una assurda pista interna alla Margherita.

Riassunto brevissimo: la 'ndrangheta uccide Fortugno per avvertire la nuova giunta calabrese, dopo mesi di minacce; Ciampi va ai funerali (Berlusconi no); uno dei due principali giornali italiani racconta il dramma di una regione in ginocchio; l'altro, il concorrente, va in Calabria per raccontare che Fortugno era probabilmente colluso e lo fa avendo ottenuto delle informazioni da una "manina disgraziata" che regala una serie di indizi inutili alla giornalista del Corsera coprendoli di gustoso fango da spalmare sul povero Fortugno, che muore un'altra volta, ucciso dai sospetti.

I due giornali concorrenti si scambiano accuse pesantissime senza mai nominarsi. Così i lettori non capiscono, ma chi deve capire sì.

E ogni mafia di questo paese così gode a veder come è facile rendere torbide le acque e quelli che restano là, in Calabria, ora sono tutti disarmati.

E' una piccola storia ignobile: quella di un uomo ucciso due volte e del paese della guerra tra bande.

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