Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri

Edito da Einaudi, 1991
170 pagine, € 10,33
ISBN 8806125435

di Carlo Ginzburg

Recensione

recensione di Ferrajoli, L., L'Indice 1991, n. 7

Ci sono molti modi, per uno storico, di accostarsi allo studio delle carte di un processo. Si possono assumere questi documenti come oggetto essi stessi di ricerca, idonei a segnalare le culture dei giudici, i loro metodi d'indagine, gli stili inquisitori e simili. Li si possono assumere invece come fonti per la conoscenza dei fatti o delle situazioni medesime che hanno formato oggetto di giudizio o di cui comunque nel processo è traccia.
Infine li si possono assumere come fonti e come oggetto d'indagine al tempo stesso. È quanto ha fatto Carlo Ginzburg nel suo bel libro "Il giudice e lo storico": che è lo studio degli atti di questo processo per accertare, attraverso il controllo delle prove raccolte e dei loro metodi di formazione, sia la verità intorno all'oggetto del processo, sia la correttezza o la scorrettezza delle procedure d'indagine e delle conclusioni raggiunte dai giudici. Ne è venuto un pamphlet che è un modello di saggio storiografico e civile: il rovesciamento, con i metodi dell'indagine storica ma sulla base dello stesso materiale probatorio raccolto al dibattimento, della verità ufficiale consacrata dalla condanna in primo grado di Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi.
Questo modo non usuale di accostarsi a un processo mi pare quello che meglio consente di mettere concretamente alla prova le analogie e le differenze tra il mestiere di storico e quello di giudice. Ginzburg ricorda i rapporti strettissimi che sempre hanno legato storia e processo quali investigazioni su fatti del passato. E sanamente si oppone all'eccessiva "insofferenza" di molti storici di oggi per la "storiografia ispirata a un modello giudiziario", che "tende sempre più spesso a coinvolgere anche ciò che giustifica l'analogia tra storico e giudice": il comune fondamento della loro ricerca su ciò che merita il nome di "prova" e perciò sul "principio di realtà".
Questo fondamento, se vale per il lavoro dello storico vale ancor più per quello del giudice. I momenti più bui della storia nell'insieme non luminosa della procedura penale sono stati quelli in cui i metodi di accertamento della verità processuale si sono maggiormente distaccati dai criteri dell'induzione scientifica: in forme vistose nell'età dell'inquisizione, allorché i criminalisti inventarono una bizzarra epistemologia fondata sull'idea che la verità potesse essere dedotta logicamente da un certo numero e da un certo tipo di prove legalmente prestabilite (la confessione, due testimoni concordanti, quattro indizi, otto "ammennicoli" o relative combinazioni); in maniera meno clamorosa ma spesso altrettanto profonda in età moderna, ove l'abbandono dell'assurdo sistema delle prove legali in favore del libero convincimento del giudice si è spesso risolto in un grossolano principio di valorazione arbitraria delle prove. La garanzia della prova è invece la prima garanzia del corretto processo e il fondamento della sua legittimazione. E "prova" vuol dire esattamente la stessa cosa sia nella storia che nel giudizio. Ciò non vuol dire che non ci siano differenze, ma solo che queste sono estrinseche alla logica dell'induzione. È innanzitutto diverso il modo in cui sono acquisite le prove, che nell'indagine storica pre-esistono di solito alla ricerca, mentre in quella giudiziaria sono formate prevalentemente nel giudizio, sicché ne vanno garantite le forme di assunzione onde impedire l'arbitrio e il sopruso. Inoltre l'accertamento probatorio del giudice si conclude con una decisione. Scrive Ginzburg: "uno storico ha diritto di scorgere un problema là dove un giudice deciderebbe il non luogo a procedere". Ma è vero anche il contrario: uno storico ha il diritto di sospendere il giudizio o comunque di fornire un giudizio dilemmatico o problematico laddove il giudice ha l'obbligo di decidere.
Di qui le divergenze, che sono tutte nel senso di una maggior severità dei canoni che dovrebbero presiedere a una condanna giudiziaria rispetto a quelli consentiti al giudizio storico. Mentre il giudizio degli storici non passa mai in giudicato, quello dei giudici conclude definitivamente il processo con costi irreparabili, in caso di errore, per le libertà dei cittadini. In caso di dubbio il giudice ha quindi il dovere, in forza non di un principio logico ma di una norma giuridica, di assolvere. Soprattutto, poi, i criteri dell'induzione sono nel giudizio vincolati da altrettante garanzie processuali: l'onere della prova che vuol dire la pluralità delle conferme di cui è sempre, in via di principio, suscettibile un'ipotesi accusatoria vera; il diritto di difesa, che vuol dire il diritto alla confutazione dell'ipotesi accusatoria, falsificabile anche da una sola controprova ma non accettabile come vera fino a che le prove raccolte si accordino con altre ipotesi esplicative del fatto giudicato. Ebbene, come ha mostrato Carlo Ginzburg nella sua analisi paziente e puntuale, queste garanzie sono state tutte clamorosamente disattese nel giudizio di primo grado; il quale sembra piuttosto il risultato di un'epistemologia autoriflessiva, basata sulla difesa aprioristica dell'accusa e sul rifiuto, non meno aprioristico, degli argomenti della difesa.
È stata innanzitutto violata la garanzia, sancita dall'art. 192 del nuovo codice di procedura, secondo cui "le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato" devono essere "confermate" da "'altri' elementi di prova". Si tratta del principio della necessità dei "riscontri", già più volte affermato dalla giurisprudenza della Cassazione. Di più: si tratta di un principio basilare del giusto processo, risalente al diritto romano e mantenutosi anche nei tempi più bui dell'inquisizione. "Unus testis, nullus testis", insegnavano gli antichi processualisti.
La sentenza di condanna richiama questo principio, e parla spesso di "riscontri", alludendo agli svariati elementi che confermerebbero in più punti la chiamata in correità di Leonardo Marino. Ma a tal fine essa è costretta a improvvisare una speciale teoria della prova che è un documento emblematico della già ricordata epistemologia autoriflessiva: i riscontri, essa dice, servono a conferire "attendibilità complessiva" al teste; acquisita la quale si deve ritenere - sulla base di uno sconosciuto "principio di normalità" e di "estendibilità" - che la chiamata di correo "costituisca piena prova" anche sui punti per i quali non ci sono riscontri, salvo prova contraria. Non mi soffermo sull'insensatezza di questa arbitraria generalizzazione, con la quale si rovescia il principio dei riscontri: non occorrerebbero riscontri o conferme positive, ma basterebbe l'assenza di riscontri negativi all'unico elemento di prova esistente. Ciò che è certo è che una simile teoria è esclusa dall'art. 192, secondo il quale è necessario che la chiamata di correo sia suffragata da 'altri' elementi di prova, diversi, evidentemente, dalla chiamata medesima. Che Marino abbia detto una gran quantità di cose vere è infatti tanto ovvio quanto irrilevante, così come sarebbe irrilevante per la condanna, non di Marino ma dei suoi accusati, che queste verità dimostrassero che egli ha effettivamente ucciso Calabresi. Quelli che avrebbero dovuto essere forniti sono i riscontri sulla responsabilità degli accusati: cioè gli elementi - di fonte diversa dalla deposizione di Marino - idonei a rendere attendibili la tesi del mandato dell'omicidio da parte di Sofri e Pietrostefani e quella della sua concreta esecuzione da parte di Bompressi. Questi riscontri non ci sono stati. Non ci sono stati, in particolare, riscontri esterni n‚ sul punto decisivo del "quando" e del "come" del mandato omicida conferito a Marino da Sofri e Pietrostefani, n‚ su quello delle "modalità" della sua esecuzione da parte di Bompressi. C'è un capitolo della sentenza intitolato "altri elementi di prova che confermano l'attendibilità delle dichiarazioni in ordine ai chiamati in correità". Ma questi "altri" elementi non riguardano la responsabilità degli accusati ma solo la credibilità di svariate circostanze del delitto riferite da Marino e confutate dalla difesa: il furto della Fiat 125, l'incidente con l'autovettura di Giuseppe Musicco, le abitazioni milanesi di Marino, le caratteristiche dell'autovettura utilizzata, le rapine di Marino, il comizio di Massa e simili. Nelle settecento pagine della sentenza, insomma, non c'è un solo elemento di prova a carico degli altri condannati che provenga da una fonte diversa da Marino. C'è solo la puntigliosa confutazione degli argomenti difensivi diretta a mostrare che essi hanno lasciato "intatta" la versione di Marino. Al punto che il lettore non riesce a liberarsi, alla fine, da un dubbio: che la difesa abbia peccato di ingenuità nello scegliere la strada delle confutazioni della credibilità di Marino sui tanti punti del suo racconto. Forse questa strategia ha consentito ai giudici di scrivere settecento pagine di apparente motivazione nelle quali non si motiva il punto centrale: il riscontro alle dichiarazioni del pentito sulla responsabilità degli imputati che come vuole la legge deve provenire da fonti diverse dalla deposizione del pentito medesimo. Se gli imputati si fossero difesi con il silenzio, semplicemente negando la loro colpevolezza, la "prova Marino" sarebbe certo rimasta "intatta", come trionfalmente afferma la sentenza, ma anche più nuda e sola di quanto oggi non sembri. Il libro di Ginzburg ci accompagna lungo tutto il dibattimento, mostrando che l'accusa di Marino è risultata a tal punto incoerente, lacunosa e per più aspetti contraddetta da riscontri oggettivi e da testimonianze dell'epoca da far dubitare perfino della colpevolezza dello stesso Marino; e comunque da convincerci che gli accusati sono riusciti a dare la prova, giudicata "diabolica" per la sua difficoltà dagli antichi criminalisti, della loro innocenza.
Non solo. Esso ha messo in evidenza, nella conduzione dell'inchiesta, tanti e tali punti oscuri - dal mistero dei diciassette giorni nei quali è maturato, a contatto con i carabinieri, il "pentimento" di Marino, alla distruzione dopo l'inizio del processo dell'autovettura e della pallottola utilizzata nell'omicidio - da suscitare il legittimo sospetto di una montatura o, quanto meno, di scorrettezze gravissime nelle indagini. Più di un secolo fa Francesco Carrara tuonava contro i processi promossi a troppa distanza dal fatto, che consentono all'accusa di "raccogliere le armi sue e prepararsi a piombare, quando sia matura la sua battaglia, addosso a un privato cittadino", ponendolo di fronte al "corpo del delitto o al materiale di un indizio" già "esaminati e periziati". Che dire oggi di un processo iniziato a ben sedici anni dal fatto, in cui i corpi di reato sono stati addirittura distrutti proprio quando servivano al processo e i difensori ne avevano fatto richiesta? E come giudicare una sentenza di condanna che non solo non adempie l'onere della prova, ma sorvola su simili ombre, nonché sulle innumerevoli lacune e contraddizioni manifestatesi nell'unica fonte d'accusa, in contrasto se non altro con l'art. 530 del nuovo codice, il quale prescrive l'"assoluzione" quando "è insufficiente o contraddittoria" la prova della responsabilità dell'imputato? Mentre scrivo queste righe è ancora aperto il processo d'appello, e non è facile prevederne l'esito. Penso tuttavia che il libro di Ginzburg abbia il valore di un giudizio d'appello - un giudizio esterno, non giuridico, sfornito di autorità ma suffragato dall'autorevolezza degli argomenti - che rende giustizia a Sofri, a Pietrostefani e a Bompressi. E che inoltre abbia un valore più generale: quello di un richiamo, rivolto ai giudici ancor più che agli storici, ai principi razionali della prova quale garanzia sia di verità che di libertà.

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