Da La Repubblica del 17/05/2004
Parlano gli eroi di My Lai
"È giusto disobbedire come facemmo noi in Vietnam"
di Carlo Bonini
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Disobbedire all´orrore è giusto, possibile. Soprattutto, è accaduto. Il mattino del 16 marzo 1968, in una risaia trasformata in mattatoio di innocenti, il soldato Lawrence Colburn, mitragliere di destra dell´elicottero OH23, 123esimo squadrone dell´aria dell´Americal Division, in missione di ricognizione e ricerca nella provincia di Quang Ngai, rivolse la canna della sua arma contro l´esercito degli Stati Uniti, il suo Paese, quello di cui vestiva l´uniforme. Aveva 18 anni. Era partito volontario per il Vietnam un anno prima, come il ragazzo che gli sedeva accanto, il tenente-pilota Hugh Thompson, che gli aveva appena gridato in cuffia «ciò che era giusto fare». Ora. Subito. «Fermare una banda di assassini con la divisa americana».
Quel giorno di primavera cambiò per sempre le vite di questi due soldati e dell´America. Perché quella risaia aveva un nome destinato a decidere le sorti della guerra, a modificarne il segno nell´opinione pubblica: My Lai. Colburn e Thompson fecero tacere le armi dei due plotoni di macellai della compagnia Charlie. Riuscirono a salvare le vite di dieci innocenti, a risparmiarli da un massacro che aveva impilato 504 cadaveri. Sarebbero stati testimoni chiave nel processo di corte marziale che ha consegnato My Lai alla storia.
Sono passati 36 anni. E le foto di Abu Ghraib, hanno riaperto le ferite e le emozioni di questi due ragazzi che ragazzi più non sono. Colburn ha 54 anni. Vive in un paesino del sud degli Stati Uniti, Canton, Georgia. Thompson, che di anni ne ha 61, lavora a Lafayette, Louisiana. Rintracciati telefonicamente in una pigra domenica mattina, accettano entrambi di raccontarsi e raccontare. «Abu Ghraib... My Lai... È come se i morti avessero preso ad afferrare i vivi. Come se non ci fosse scampo alla nostra, alla mia maledizione». Colburn scandisce le parole, tira un profondo respiro, chiede qualche istante per allontanarsi con il telefono dal prato della sua backyard che sta tagliando insieme al figlio di dodici anni. «Preferisco che non senta. Lui non sa chi sono davvero. Non sa che suo papà è quello di My Lai. Non voglio che lo sappia né oggi, né domani. Deciderò io quando dirglielo. Preferisco che per il momento sappia quello che è successo al suo papà dopo il 16 marzo 1968». Quando Colburn decide di fuggire l´ossessione di quella risaia del Vietnam del Sud a bordo di un peschereccio che incrocia nelle acque gelide dell´Alaska a tirar su gamberi e granchi. «Lì c´era silenzio e pace. Neve e ghiaccio. Lì sono riuscito a non impazzire, a rimettere insieme quel poco che era rimasto della mia anima. Sì, mi ha salvato la neve dell´Alaska e quella dell´Oregon, dove sono finito per un po´ a lavorare come uomo di fatica agli skilift e dove ho incontrato la donna che mi ha dato mio figlio. Che mi ha convinto che potevo tornare nel mondo dei vivi. Quello che avevo lasciato per sempre quando con Thompson sedemmo per testimoniare alla corte marziale contro gli assassini della compagnia Charlie. Gli infami eravamo diventati noi. "Canarini"... Sì così ci chiamavano e così hanno continuato a insultarci per anni. I due "canarini", gli infami. Anzi, la prego. Quando sente Thompson non la pronunci neppure questa parola».
Non ce n´è bisogno. Perché Thompson l´offesa l´ha incisa nella carne. «So che cosa molti non ci hanno perdonato. Che quella mattina, siamo stati io e Larry a decidere cosa era giusto fare. Che non esiste ordine illegale a cui si debba ubbidire. Che se un ordine è illegale, non basta tacere. Bisogna opporsi subito e poi denunciare i responsabili, chiunque siano». La rabbia rende nitido il ricordo. «Eravamo in volo radente quando vidi montagne di corpi, capanne che bruciavano, soldati impazziti che facevano fuoco su cadaveri ammucchiati. Cominciai a chiedere via radio se era necessario scendere per prestare soccorso ai feriti, ma non ebbi risposta. Feci altri due o tre cerchi e cominciai a chiedere chi fossero quei fottuti pazzi con le nostre uniformi. Farfugliarono che stavano rispondendo a una minaccia vietcong. Cazzate! Dissi a Larry di armare la mitraglia e prepararsi a mandare all´altro mondo un po´ di quegli assassini...E Larry lo fece. Senza pensarci un attimo. Purtroppo era tardi. Ne trovammo vivi solo dieci. Ma forse è servito. Forse».
Da due settimane, in casa Colburn, Abu Ghraib è un´ossessione. Racconta Larry: «Quando sono arrivate le prime immagini mi sono sentito morire. Mi sono detto: Cristo, ci risiamo. Ci risiamo con questo schifo...Ho ricominciato a sentirmi spesso con Hugh (Thompson ndr.). Perché? Perché?, continuavo a ripetermi. Poi, con il passare dei giorni ho cominciato a ringraziare il Padre Eterno di essere vivo. Di essere sopravvissuto a My Lai, perché evidentemente, finché sarò vivo, potrò continuare a dire ciò che penso da quella mattina del 16 marzo. Che non può che finire in un fottuto schifo quando pretendi di portare la democrazia in un Paese lontano di cui non sai nulla. Di cui non conosci nulla. Di cui non ti importa nulla... È la lezione del Vietnam che qualcuno non ha ancora imparato».
Anche se è una lezione che viene recitata da allora in ogni accademia militare. «Spesso in questi anni - dice Thompson - sono stato chiamato a tenere lezioni a West Point. Non c´è cadetto che non annuisca convinto, sentendomi ripetere che la Convenzione di Ginevra non è un´opzione, ma un dovere. Certo, se poi un giorno qualcuno si alza e dice che la Convenzione di Ginevra ad alcuni si applica e ad altri no, non è difficile che qualche ragazzo di diciotto anni faccia confusione. Che Abu Ghraib diventi quel che è diventata».
«Ma certo! - esplode Colburn - A chi la vogliono far bere questa storiella dei sei soldati pervertiti che si facevano le foto con l´autoscatto da mandare agli amici o da vedersi la sera in camerata? No, io sono convinto che qualcuno ha ordinato quel tipo di umiliazione. Perché lo scopo era piegare i prigionieri, farli sentire sporchi, luridi, violati. Si chiama guerra psicologica. Ed è antica quanto la guerra combattuta con i cannoni». Anche in Vietnam, andò così. «Nel ´68, non esistevano i campi di internamento. Né, ho mai assistito all´interrogatorio di prigionieri da parte della nostra intelligence militare. Ma una cosa la so bene, perché ricordo di aver chiesto ogni volta "perché?". Nel nostro squadrone, si chiamavano missioni "snatch", "afferra". Erano sequestri di persona. Piombavamo con gli elicotteri nei villaggi, dove gli ufficiali dell´intelligence individuavano contadini che per età o fisico apparivano abili all´arruolamento. Venivano caricati a bordo e incappucciati con sacchi di juta, perché allora, forse, ci si preoccupava ancora che i prigionieri potessero respirare. Quindi, scaricavamo quei disgraziati nei centri di interrogatorio perché dessero notizie sui movimenti dei vietcong. Ne ho visti tanti di quei prigionieri e, oggi, guardano le foto di Abu Ghraib, ho ricominciato a pensare a cosa è stato di loro».
Nel ´98, Colburn e Thompson hanno ricevuto la medaglia d´oro per aver fatto, il 16 marzo 1968, «la cosa giusta». Un riconoscimento arrivato con 30 anni di ritardo. «Le decorazioni scaldano il cuore - dice oggi Thompson - Ma io aspetto di vedere dell´altro. A My Lai, i generali e i papaveri di Washington se la cavarono. Ad Abu Ghraib non deve accadere».
Quel giorno di primavera cambiò per sempre le vite di questi due soldati e dell´America. Perché quella risaia aveva un nome destinato a decidere le sorti della guerra, a modificarne il segno nell´opinione pubblica: My Lai. Colburn e Thompson fecero tacere le armi dei due plotoni di macellai della compagnia Charlie. Riuscirono a salvare le vite di dieci innocenti, a risparmiarli da un massacro che aveva impilato 504 cadaveri. Sarebbero stati testimoni chiave nel processo di corte marziale che ha consegnato My Lai alla storia.
Sono passati 36 anni. E le foto di Abu Ghraib, hanno riaperto le ferite e le emozioni di questi due ragazzi che ragazzi più non sono. Colburn ha 54 anni. Vive in un paesino del sud degli Stati Uniti, Canton, Georgia. Thompson, che di anni ne ha 61, lavora a Lafayette, Louisiana. Rintracciati telefonicamente in una pigra domenica mattina, accettano entrambi di raccontarsi e raccontare. «Abu Ghraib... My Lai... È come se i morti avessero preso ad afferrare i vivi. Come se non ci fosse scampo alla nostra, alla mia maledizione». Colburn scandisce le parole, tira un profondo respiro, chiede qualche istante per allontanarsi con il telefono dal prato della sua backyard che sta tagliando insieme al figlio di dodici anni. «Preferisco che non senta. Lui non sa chi sono davvero. Non sa che suo papà è quello di My Lai. Non voglio che lo sappia né oggi, né domani. Deciderò io quando dirglielo. Preferisco che per il momento sappia quello che è successo al suo papà dopo il 16 marzo 1968». Quando Colburn decide di fuggire l´ossessione di quella risaia del Vietnam del Sud a bordo di un peschereccio che incrocia nelle acque gelide dell´Alaska a tirar su gamberi e granchi. «Lì c´era silenzio e pace. Neve e ghiaccio. Lì sono riuscito a non impazzire, a rimettere insieme quel poco che era rimasto della mia anima. Sì, mi ha salvato la neve dell´Alaska e quella dell´Oregon, dove sono finito per un po´ a lavorare come uomo di fatica agli skilift e dove ho incontrato la donna che mi ha dato mio figlio. Che mi ha convinto che potevo tornare nel mondo dei vivi. Quello che avevo lasciato per sempre quando con Thompson sedemmo per testimoniare alla corte marziale contro gli assassini della compagnia Charlie. Gli infami eravamo diventati noi. "Canarini"... Sì così ci chiamavano e così hanno continuato a insultarci per anni. I due "canarini", gli infami. Anzi, la prego. Quando sente Thompson non la pronunci neppure questa parola».
Non ce n´è bisogno. Perché Thompson l´offesa l´ha incisa nella carne. «So che cosa molti non ci hanno perdonato. Che quella mattina, siamo stati io e Larry a decidere cosa era giusto fare. Che non esiste ordine illegale a cui si debba ubbidire. Che se un ordine è illegale, non basta tacere. Bisogna opporsi subito e poi denunciare i responsabili, chiunque siano». La rabbia rende nitido il ricordo. «Eravamo in volo radente quando vidi montagne di corpi, capanne che bruciavano, soldati impazziti che facevano fuoco su cadaveri ammucchiati. Cominciai a chiedere via radio se era necessario scendere per prestare soccorso ai feriti, ma non ebbi risposta. Feci altri due o tre cerchi e cominciai a chiedere chi fossero quei fottuti pazzi con le nostre uniformi. Farfugliarono che stavano rispondendo a una minaccia vietcong. Cazzate! Dissi a Larry di armare la mitraglia e prepararsi a mandare all´altro mondo un po´ di quegli assassini...E Larry lo fece. Senza pensarci un attimo. Purtroppo era tardi. Ne trovammo vivi solo dieci. Ma forse è servito. Forse».
Da due settimane, in casa Colburn, Abu Ghraib è un´ossessione. Racconta Larry: «Quando sono arrivate le prime immagini mi sono sentito morire. Mi sono detto: Cristo, ci risiamo. Ci risiamo con questo schifo...Ho ricominciato a sentirmi spesso con Hugh (Thompson ndr.). Perché? Perché?, continuavo a ripetermi. Poi, con il passare dei giorni ho cominciato a ringraziare il Padre Eterno di essere vivo. Di essere sopravvissuto a My Lai, perché evidentemente, finché sarò vivo, potrò continuare a dire ciò che penso da quella mattina del 16 marzo. Che non può che finire in un fottuto schifo quando pretendi di portare la democrazia in un Paese lontano di cui non sai nulla. Di cui non conosci nulla. Di cui non ti importa nulla... È la lezione del Vietnam che qualcuno non ha ancora imparato».
Anche se è una lezione che viene recitata da allora in ogni accademia militare. «Spesso in questi anni - dice Thompson - sono stato chiamato a tenere lezioni a West Point. Non c´è cadetto che non annuisca convinto, sentendomi ripetere che la Convenzione di Ginevra non è un´opzione, ma un dovere. Certo, se poi un giorno qualcuno si alza e dice che la Convenzione di Ginevra ad alcuni si applica e ad altri no, non è difficile che qualche ragazzo di diciotto anni faccia confusione. Che Abu Ghraib diventi quel che è diventata».
«Ma certo! - esplode Colburn - A chi la vogliono far bere questa storiella dei sei soldati pervertiti che si facevano le foto con l´autoscatto da mandare agli amici o da vedersi la sera in camerata? No, io sono convinto che qualcuno ha ordinato quel tipo di umiliazione. Perché lo scopo era piegare i prigionieri, farli sentire sporchi, luridi, violati. Si chiama guerra psicologica. Ed è antica quanto la guerra combattuta con i cannoni». Anche in Vietnam, andò così. «Nel ´68, non esistevano i campi di internamento. Né, ho mai assistito all´interrogatorio di prigionieri da parte della nostra intelligence militare. Ma una cosa la so bene, perché ricordo di aver chiesto ogni volta "perché?". Nel nostro squadrone, si chiamavano missioni "snatch", "afferra". Erano sequestri di persona. Piombavamo con gli elicotteri nei villaggi, dove gli ufficiali dell´intelligence individuavano contadini che per età o fisico apparivano abili all´arruolamento. Venivano caricati a bordo e incappucciati con sacchi di juta, perché allora, forse, ci si preoccupava ancora che i prigionieri potessero respirare. Quindi, scaricavamo quei disgraziati nei centri di interrogatorio perché dessero notizie sui movimenti dei vietcong. Ne ho visti tanti di quei prigionieri e, oggi, guardano le foto di Abu Ghraib, ho ricominciato a pensare a cosa è stato di loro».
Nel ´98, Colburn e Thompson hanno ricevuto la medaglia d´oro per aver fatto, il 16 marzo 1968, «la cosa giusta». Un riconoscimento arrivato con 30 anni di ritardo. «Le decorazioni scaldano il cuore - dice oggi Thompson - Ma io aspetto di vedere dell´altro. A My Lai, i generali e i papaveri di Washington se la cavarono. Ad Abu Ghraib non deve accadere».
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