Da Corriere della Sera del 06/04/1978

Ma quale processo?

di Leo Valiani

L'angoscia che la nuova lettera di Moro esprime è più che comprensibile. I paragoni con gli imputati politici che sfidarono impavidamente i loro giudici, non reggono. Checché ne dicano i brigatisti rossi, Moro è prigioniero non d'uno Stato, e neppure d'una vera e propria opposizione politica, bensì di una banda di assassini, anche se generata da fanatismo ideologico. Contrapporre ai loro confusi ideali altri ideali, quelli in cui Moro crede, nelle condizioni in cui egli si trova sarebbe mera perdita di tempo. Chi cade nelle mani di delinquenti, è umano che pensi anzitutto a liberarsi o ad essere liberato. Per di più, è verosimile che queste lettere siano state estorte a Moro con pressioni fisiche o psicologiche, forse anche con droghe. E' inconcepibile che Moro, che in parlamento respinse in modo tassativo, alcuni mesi or sono, l'ipotesi che la democrazia cristiana potesse essere processata, ammetta sul serio la legittimità d'un processo politico intentato a lui e al suo partito da un pugno di fuorilegge, colpevoli, fra l'altro, del massacro della sua scorta, composta da fedeli servitori della Repubblica. Del resto, Moro sa meglio di chiunque che l'eventuale liberazione dei complici dei criminali che lo tengono prigioniero, non potrebbe essere decisa dai dirigenti del partito democristiano ai quali la sua ultima missiva si rivolge nominativamente. Solo la magistratura potrebbe prendere una decisione in tal senso, sempre che le leggi vigenti fossero emendate in modo da consentire lo scambio di detenuti che i brigatisti rossi desiderano. Se l'avesse scritta spontaneamente, la lettera di Moro sarebbe stata indirizzata al ministro della giustizia e, se mai, al capo dello Stato, in quanto presidente del Consiglio superiore della Magistratura e in quanto tutore della legalità repubblicana, cui spetta la prerogativa di rivolgere messaggi al parlamento. I brigatisti potrebbero costringere Moro a seguire siffatta procedura. Ciò, però, non avrebbe più alcun valore. Del resto, non ne avrebbe avuto neppure in precedenza. E' un ragionamento che abbiamo fatto soltanto per riaffermare che la volontà di Moro è coartata dai suoi torturatori, anche se egli si sforza di restare lucido. Chi sono questi assassini, che si tingono di rosso, perché oggi questo è il colore alla moda, così come in altri tempi avrebbero indossato camicie nere o brune? Sulla base delle loro dichiarazioni, sono stati definiti leninisti o stalinisti. Certo, di requisitorie contro l'imperialismo e i monopoli (non ancora le multinazionali) in Lenin e in Stalin se ne trovano a iosa. Contro le demoplutocrazie se ne trovano abbondantemente in Mussolini e in Hitler. L'idea del partito armato, per fini ultimi opposti, ma per l'obiettivo immediato di distruggere la democrazia, è presente sia nei leninisti o staliniani, sia nei fascisti e nei nazisti. Si trattava, peraltro, comunque li si giudichi, di autentici movimenti di massa, con prospettive politiche reali. Questo vale anche per quei gruppi socialrivoluzionari o nazionalrivoluzionari che, a differenza del marxista Lenin, fermo e costante oppositore degli attentati, ricorrevano e ricorrono all'arma del terrorismo. I sedicenti brigatisti rossi devono, invece, polemizzare, nel loro comunicato, contro la "mobilitazione reazionaria delle masse". Non diciamo affatto con ciò che i brigatisti sono isolati. Periodicamente, sulle frazioni esaltate della gioventù, e sugli emarginati, la violenza sfrenata esercita un'attrazione, specie se colpisce i suoi bersagli e rimane impunita. Il mito del buon brigante, vendicatore dei torti subiti dal popolo povero, corre attraverso i secoli e risorge tutte le volte che uno Stato dà prova di corruttela d'impotenza. Legittimo o illegittimo che sia il richiamo dei brigatisti rossi a Lenin, una democrazia che governa alla maniera del velleitario ed oscillante Kerenski rischia la disgregazione. Di tutti i sistemi di governo, quello democratico è il più difficile, finché non può contare su una lunga e salda tradizione. In situazioni di crisi l'esercizio della libertà esige poi d'essere sostenuto dall'autorità; s'intende da un'autorità convalidata dal consenso popolare. Nell'Italia odierna, la democrazia repubblicana ha solo poco più d'un trentennio di vita. Il consenso del popolo non le manca. Il pericolo ch'essa corre è di rinunciare alla durezza nel difendersi, per malintesi libertarismi e garantismi, attualmente del tutto fuori luogo, mentre erano sacrosanti contro regimi dittatoriali o reazionari. Con gravissimo ritardo sono stati decretati dei provvedimenti di difesa della Repubblica. A mio personale avviso sono ancora insufficienti e già si levano, da sinistra, delle voci volte ad abrogarli o evitarli. Per adesso nessun dittatore è alle porte. Il partito comunista italiano fa parte dell'arco costituzionale. Alla estrema destra, il neo-fascismo è in declino. Un sistema politico può dissolversi, tuttavia, prima che i suoi becchini abbiano preso forma consistente. La paralisi dello Stato fomenta il pullulare della violenza privata. Le Brigate rosse ne costituiscono una manifestazione esemplare. Viviamo in un'epoca di mutamento di valori: il vecchio tramonta e il nuovo non s'è ancora precisato. Nel vuoto s'inseriscono i violenti e si fanno strada quelli d'essi che non rifuggono dall'omicidio in serie e lo praticano metodicamente. E' un fenomeno internazionale. Altrove viene fronteggiato risolutamente. Se saranno fronteggiate risolutamente, anche le Brigate rosse nostrane verranno sradicate. In caso diverso, benché al potere non andranno mai, potrebbero causare nuovi lutti e altre sventure.

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