Da Il Manifesto del 23/04/1978
Perchè trattare
di Pietro Veronese
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Le strade per evitare il peggio, cui si riferiva ieri il manifesto, sono venute in luce. E (per quanto fino al momento in cui il giornale va in macchina è dato sapere) hanno consentito di far slittare l'ultimatum, come era nelle nostre speranze. Già ora, si può dire che hanno dato nuovi margini all'iniziativa della democrazia e delle stesse forze dell'ordine, le cui possibilità di azione sono in questi giorni del tutto considerate nulle, proprio da chi più insistentemente parla dei problemi dello stato e delle forze dell'ordine. L'appello di Paolo VI, direttamente rivolto alle BR e che nessuno per questo accusa di legittimazione delle BR, è almeno servito a guadagnar tempo. Guadagnar tempo non solo per la vita di Moro (pur così importante) ma per uno scontro di assai più vasta portata, e sul cui esito del resto la vita di Moro avrà un'influenza non secondaria. In questo emergere di vie per evitare il peggio anche gli schieramenti (pro e contro la trattativa) sono diventati più mobili e duttili. Oggi le posizioni di tutti sono in maggiore o minore misura mutate rispetto a quel che erano il 16 marzo. Ma poiché quando si parla di schieramenti si parla di politica, sugli schieramenti occorre essere chiarissimi, anche a costo di isolarsi o apparire autolesionisti nel breve periodo. Gli schieramenti di oggi, come è inevitabile in situazioni di emergenza, sono eterogenei e inquinati da equivoci. "L'Unità" di ieri dedica il suo editoriale a una disamina del "partito della trattativa" ed è cosa del tutto legittima, ma un eguale disanima avrebbe dovuto fare - e probabilmente lo farà - del "partito della non trattativa". Anche questo partito, che va dal PCI al MSI (che chiede la dichiarazione di "stato di guerra interna") eterogeneità ed equivoci si sommano. E sarebbe sciocco e deviante giudicare la posizione di chiunque sulla base dello schieramento in cui si trova: paragonare la "fermezza" de "l'Unità" alla cinica grettezza di Montanelli che preferisce pensare a Moro "come se fosse già morto" sarebbe un insulto gratuito. E tuttavia anche questa legittima, ma inutile disamina dell'Unità non ci persuade, e sul terreno politico: non su quello del generico umanitarismo, né su quello degli astratti principi. Nel cosiddetto "partito della trattativa" gli equivoci abbondano, ma la tripartizione che "l'Unità" fa tra destabilizzatori espliciti, manovratori subdoli e familiari e amici di Aldo Moro non appare politicamente feconda. Come non capire che questa semplificazione - e in uno schema di ragionamento manicheo - contribuisce a regalare al nemico ( che c'è ed è presente in entrambi i partiti) anche chi non è né destabilizzatore, né manovratore, né povero sentimentale. Come non riflettere sul fatto che, ove sul paese ricadesse il cadavere di Aldo Moro quella parte democratica della DC, che fino ad oggi ha retto oltre le nostre aspettative, rischierebbe di essere spazzata via da un violento rigurgito di anticomunismo quarantottesco? Questi sono i problemi veri e politici che abbiamo davanti e che non possiamo esorcizzare né con gli schieramenti, né parlando di criminali isolati. Ed è con questi problemi, che con difficoltà e coscienza della gravità delle scelte stiamo tentando di misurarci. Stiamo tentando di misurarci anche con la coscienza della possibilità di sbagliare, anche perché questi non ci sembrano tempi di certezze assolute. Nella edizione straordinaria del 16 marzo abbiamo segnalato subito la gravità politica del sanguinoso sequestro scrivendo: "E' quasi un colpo di stato". Nei giorni scorsi - e sempre cogliendo in questa violenta vicenda un momento del più ampio scontro politico e sociale che c'è in Italia - abbiamo scritto che "trattare non vuol dire cedere" che cioè trattare è un modo specifico di sviluppare una lotta politica. Questa nostra posizione - peraltro di continuità con gli atteggiamenti di questo giornale - ha colpito alcuni compagni del PCI, anche autorevoli, che ci hanno rivolto critiche fraterne e pertanto più spontaneamente recepibili. Non è che i loro argomenti siano di poco peso: l'eguale valore della vita di Moro e degli agenti uccisi; la necessità di impedire la dichiarazione di uno stato di guerra e quindi di uno "stato di necessità" che autorizzerebbe gli arbitri del più forte; le prevedibili reazioni delle forze dell'ordine che diventerebbero le vittime ordinarie della convivenza tra i potenti. Questi e molti altri argomenti di questi compagni pesano. Però la posizione di arroccamento statale e di purismo giuridico (come dimenticare le recentissime polemiche contro i "garantisti" e i fautori dello "stato di diritto"?) non ci convince e ci sembra pericolosa per tutti, anche per il PCI. La posizione di arroccamento, a nostro avviso, sottovaluta la portata della crisi e i problemi di potere e di trasformazione delle istituzioni che oggi sono drammaticamente aperti nel nostro paese. Non è arroccandosi sulla formula astratta e immobile dello "stato di diritto" che oggi si salvano la democrazia e le speranze di trasformazione politica e sociale che sulla democrazia esistente si fondano. La nostra posizione non intende essere genericamente umanitaria (anche se siamo persuasi che la ragion di stato genera mostri) ed è cosciente che la destabilizzazione messa in moto dalle BR sposta a destra (come ha spostato a destra, in ciascuno dei giorni che si separano dal 16 aprile) gli equilibri politici e la stessa cultura del paese. Trattativa, dunque, vuol dire, per noi, articolazione di una lotta politica più ampia e che bisogna sviluppare su tutti i terreni. Altrimenti, certo, trattare potrebbe essere la premessa di un cedimento. Ma l'esito non sarebbe diverso nel caso di quello sfondamento della "Maginot della fermezza", che inevitabilmente si avrebbe ove alle BR si consentisse di scegliere loro - nell'inerzia di tutti - se e quando buttare il cadavere di Aldo Moro su una società in equilibrio precario. L'esorcismo non serve, quella che sta davanti a noi è una lotta lunga, di cui il terrorismo è un segmento per quanto importante. E poi nel trattare c'è anche il fattore tempo: perché dobbiamo essere convinti che il tempo giochi solo a favore delle BR e dei loro alleati e che un paese come l'Italia debba continuare a ballare come un automa sulla loro musica? E' legittimo chiedere che si abbia più fiducia nelle forze della democrazia e dei lavoratori?
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