Da Avanti! del 07/04/1978

L'ora della verità

di Virginio Levi

Le due lettere di pugno dell'on. Aldo Moro, che sono state rese di pubblica ragione, rivelano, a prescindere da ogni altra considerazione, il penosissimo stato di un'intelligenza messa in vincoli e privata della sua libertà da una forza coercitiva. L'uomo è costretto a dire cose che non pensa; o pensare cose che senza la violenta pressione di un carcere e di un processo arbitrario non avrebbe mai ospitato nel suo spirito. L'angoscia della solitudine, il martellamento psicologico, le minacce, e, Dio non voglia, ancor più pesanti condizionamenti, hanno prodotto, per il momento, e per quanto l'opinione pubblica ne ha potuto conoscere, due documenti che testimoniano di un atteggiamento di spirito assai lontano da quello consueto dello statista. Si ripete nell'on. Moro quello che in anni passati, con sgomento, il mondo ha dovuto osservare in grandissimi spiriti della vita politica o religiosa, sottoposti a processi inumani e costretti a ignominiose e false confessioni. La coscienza civile si rivolta contro questo trattamento, inaccettabile sempre, ma tanto più turpe nelle circostanze concrete: inflitto a un uomo che ha sempre operato per la libertà di tutti come supremo obiettivo della sua azione politica, col pretesto di giudicare un partito che della libertà ha fatto la sua bandiera, in un Paese che pur con tutti i suoi problemi è tra i più liberi e garantisti del mondo. Le forze oscure della decomposizione sociale hanno così indotto l'intera nazione a prendere coscienza dei pericoli che la sovrastano; l'hanno portata a riflettere con maggiore adeguatezza alla gravità di fatti violenti che si sono moltiplicati nell'ultimo decennio e che si pensava di poter considerare sporadici e tra loro indipendenti; la spingono ad armarsi moralmente in unione di forze e con comportamenti coraggiosi per fronteggiare l'oscuro avversario da cui non sembra si possa sperare una resa o un arretramento, almeno a breve scadenza. Agguerrirsi moralmente diventa così l'imperativo più urgente di quest'ora drammatica, per la difesa di quel patrimonio comune di principi e di comportamenti che trova il popolo italiano convergente e solidale, al di là di ogni divisione ideologica e politica. In questo, una parte determinante spetta agli intellettuali, a tutti gli uomini della cultura. Abbiamo l'impressione che la scossa degli avvenimenti abbia indotto non pochi a ripensamenti salutari. La cultura italiana non si può dire che abbia saputo profittare in positivo, negli ultimi decenni, delle favorevoli condizioni di libertà di cui ha goduto il Paese. Ne sarebbe dovuta nascere una circolazione di idee, di interscambio, un'osmosi, un confronto libero e rispettoso, un dibattito costruttivo e aperto ad ogni contributo, un'armonia, se si vuole, dei contrari, ma destinata a tradursi in pane di verità per il popolo, soprattutto per i giovani. Abbiamo invece assistito da una parte alla formazione dei coaguli di conformismo, spesso spregiudicato, talvolta critico fino all'eversione, comunque arroccato nell'eldorado delle “riserve” ben coperte e protette di un ideologismo di maniera e dall'altra a un'emarginazione quando non era una “ghettizzazione” di chi si rifiutasse di seguire la moda. La cultura, che dovrebbe essere almeno elemento di convergenza del pluralismo, è diventata elemento di divisione e di allontanamento, di egemonia di una parte e di spregio dell'altra, senza accorgersi che in tal modo essa si alienava dal tessuto connettivo della società nazionale, abbandonando ai succedanei della cosiddetta cultura di massa, limitata agli aspetti più accessibili e spesso manipolatori dei mass media. La cultura di un popolo non può prescindere dai maestri di pensiero, né può limitarsi ad attingere ad alcuni di essi, specialmente quando questi pochi rappresentano sempre o prevalentemente una sola parte. Né i maestri di pensiero possono esaurire la loro funzione sociale nelle diatribe che li contrappongono, conducendo tra loro dialoghi da iniziati al di sopra delle teste dei loro naturali fruitori. Di fronte agli avvenimenti drammatici ai quali assistiamo, che potrebbero anche rappresentare soltanto un inizio di quanto ci attende, è giunta l'ora della verità e delle responsabilità. Chi controlla i canali dell'informazione e della cultura ha il dovere morale di aprirli al più ampio dibattito, perché anche le voci che si rifanno a radici più lontane e pensiamo più solide di quelle assurte alla moda del momento, possano farsi ascoltare da chi sente l'urgenza di verità non provvisorie e fallaci. E gli stessi uomini di cultura non possono omettere quella verifica del loro pensiero e della loro azione che, nel controluce dei fatti nuovi, punto di arrivo di tanti discorsi vecchi e punto di partenza per nuovi discorsi, possono caricarsi di critiche salutari e di stimoli insperati. A questo proposito va considerata anche la nuova domanda religiosa che si va manifestando ogni giorno più, dopo l'ubriacatura venata di scetticismo indotta dal precario e illusorio benessere degli anni passati. La domanda, che si manifesta un po' dovunque, acquista particolare significato soprattutto nei giovani, stanchi forse di sociologismo e di permissività, nel momento in cui avvertono che la loro vitalità, le loro possenti energie non possono essere bruciate soltanto nel contingente. Chi qualifica il richiamo a Dio come una scelta della non-ragione perde un'occasione unica per comprendere ciò che si muove nel profondo dello spirito umano, sotto lo stimolo della delusione e del dolore. Chi intende dimostrare - come ha scritto ieri Testori - che “là dove l'uomo ricerca Dio e a Dio intende sottomettere (e non già dimettere) la propria ragione, regnano soltanto reazione e regressione”, segue un suo proprio giudizio preconcetto, perdendo di vista la realtà autentica dell'uomo e della società, anche se per avventura fosse un professionista dell'analisi sociale. Ma forse siamo veramente a una svolta, una svolta nonostante tutto salutare. “A chi ha sofferto tocca in sorte il comprendere”, ha lasciato scritto Eschilo in una sua tragedia. E non è chi non veda come oggi si soffra tutti, là dove sopravvive un filo di coscienza sociale e di consapevolezza della gravità dell'ora.

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