Da La Stampa del 31/03/1978

Una linea ferma

di Aldo Rizzo

Ci sono pochi dubbi, o nessuno, sull'autenticità grafica, tecnica, della lettere a firma di Aldo Moro, giunta dal covo oscuro in cui le Brigate rosse lo tengono prigioniero. La grafia, dice chi la conosce bene, è incerta: ma come potrebbe non esserlo, in quelle condizioni? Semmai è una prova in più della sua autenticità. Ma è altrettanto certo che è falsa, forzata, estorta, la sostanza del messaggio. E anche qui: come potrebbe essere altrimenti? E se pure, per ipotesi, fosse spontanea, di quale spontaneità potrebbe parlarsi per un uomo sottoposto da due settimane, dopo un trauma tremendo, a chissà quali tecniche di pressione e coartazione? Del resto, l'analisi particolareggiata del drammatico documento rivela l'estraneità di Moro alla massima parte delle espressioni che vi sono contenute. Già indirizzarsi a Cossiga, ministro dell'Interno, anziché al presidente del Consiglio, appare incongruo, o frutto di un calcolo deliberato dei carcerieri (Cossiga è indicato, nel loro preambolo, come il “capo degli sbirri”). Non parliamo dell'idea che la lettera potesse essere inoltrata “in modo riservato”. O dello scrupolo formale (che suona come una sinistra irrisione alle procedure costituzionali) secondo cui delle decisioni del governo deve essere “informato ovviamente il Presidente della Repubblica”. E così via. Sul piano strettamente linguistico, sarebbe arduo e anzi impossibile ritrovare, almeno in una misura apprezzabile, i modi di esprimersi che sono tipici dello statista. Abbondano invece espressioni sommarie, come “e non si dica che lo Stato perde la faccia” o “evitando che siate impantanati in un doloroso episodio”, eccetera. Gli amici più stretti di Moro, i dirigenti dc che hanno avuto con lui la più intensa frequentazione politica e umana, negano che simili modi di dire possano essere suoi, pur tenendo conto delle circostanze drammatiche, che tuttavia evidenziano lo stile istintivo, più profondamente personale, di un uomo. Forse qualcosa sopravvive, o sembra sopravvivere, qua e là, del linguaggio di Moro: ma potrebbe esserne anche una tragica caricatura, opera di carcerieri che lo hanno “studiato” per imitarlo. Ciò che è certamente attribuibile al presidente della dc è l'assenza di “rivelazioni” concrete, specifiche, nel “processo” che i brigatisti vorrebbero diretto ad accertare le sue “trentennali possibilità”. In quella specie di nota introduttiva che precede la lettera, le Brigate rosse affermano che l'interrogatorio “prosegue con la completa collaborazione del prigioniero”. Ma non c'è traccia di “ammissioni” particolari, di segreti “scandalosi” portati, si fa per dire, alla luce del sole. I terroristi affermano che “ sul ruolo che le centrali imperialiste hanno assegnato alla dc (…) il prigioniero Aldo Moro ha cominciato a fornire le sue 'illuminanti' risposte”. Ma quali siano queste ipotetiche risposte, non viene detto. Può darsi, purtroppo, che esse vengano nel prossimo futuro. Le tecniche dell'inquisizione terroristica, che ben si conoscono nelle loro versioni fascista e stalinista, tecniche che mirano all'umiliazione e all'annientamento psicofisico, possono portare alla “confessione” di qualunque cosa. Ma, per il momento, le accuse si limitano a ripetere la teoria della cospirazione imperialistica multinazionale, di cui l'Italia, come ogni altro Paese occidentale, sarebbe parte o vittima: teoria che ricorda le cosmogonie spionistiche di Jan Fleming, con le organizzazioni misteriose e mostruose contro cui si scatenava l'agente James Bond, più che ogni ragionevole analisi politica, anche o soprattutto marxista. Da questo punto di vista, è avvertibile anzi - e può essere una considerazione centrale - un cambiamento di strategia o di tattica delle Brigate rosse. Inizialmente, quando tutti si aspettavano una richiesta di scambio tra il presidente della dc e i terroristi imprigionati, sorprendentemente esse non vi fecero alcun cenno, mostrando di preferire gli effetti destabilizzanti per il sistema democratico di un luogo “processo” al più importante statista italiano. Ora si afferma che il processo è in corso: ma, mentre non si è in grado di fornire alcuna “rivelazione” clamorosa, si affaccia per la prima volta l'ipotesi del ricatto, pur se ancora non si indica quale dovrebbe essere, precisamente, la controparte di Moro. E' il segno che il “prigioniero”, dopo due settimane di pressioni che saranno state tremende, non è crollato e conserva capacità di argomentare e di controbattere. Si è riusciti tuttavia ad umiliarlo in altro modo, costringendolo ad essere lui stesso il suggeritore del ricatto allo Stato. E del ricatto alla dc, mediante la minaccia di “parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa”; ciò che, secondo i brigatisti, sarebbe una “chiamata di correità”. La situazione è quella che è, può peggiorare ancora in qualsiasi momento; ma, fino a questo punto, si ha la sensazione che Aldo Moro abbia fornito, nella sostanza, una prova di forza e di coraggio, che forse le BR non avevano previsto. Del resto, le stesse probabilità di riuscita del ricatto sembrano essere considerate dai terroristi con qualche perplessità. E' illogico l'appello della “ragione di Stato”, quando la ragione di Stato dice semmai il contrario, e cioè che nessuna vera transizione è possibile con l'eversione. A meno di ventiquattr'ore dal ritrovamento della lettera, la risposta del governo, e prima di tutto quella delle forze politiche, si delinea lucida e ferma: l'editoriale dell'“Unità”, e più ancora quello del “Popolo”, sono un esempio di rigore, danno una replica accorata, umanamente carica di dolore, ma politicamente dura. Anche questo probabilmente i brigatisti se lo aspettavano. Ma i giorni più amari della Repubblica forse devono ancora venire.

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