Da La Stampa del 25/04/1978
Il giornalismo come servizio
di Andrea Barbato
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All'improvviso, in pochi lunghissimi giorni (ma quanti anni sono passati da quel 16 marzo?), per noi che facciamo il mestiere dell'informazione, due filosofie della notizia sono diventate egualmente e simmetricamente inservibili: da una parte, l'astratta rivendicazione di un diritto liberale, cronaca a tutti i costi, quarto potere, il mito del giornalista anglosassone, l'illusione della neutralità professionale, il rifugio nella tecnica, il giornale come specchio imparziale del mondo. E dall'altra parte, l'ipotesi di una società in libertà condizionata, e di una stampa che possa essere forzata entro una grata di discipline e di regolamenti, seguendo una strategia di contratti silenzi in nome di un piano più generale. Questo povero mestiere è rimasto a nudo, per quel che è: non una scienza, ma un servizio che richiede ogni giorno, ogni minuto, l'esercizio della ragione, l'intervento della coscienza morale e sociale, la capacità di scelta. Un mestiere fatto da uomini legati ad altri uomini da un foglio o da un microfono. Ma davvero è così importante, il “caso di coscienza” dei giornalisti, mentre ci si interroga se domani vivremo ancora in una società civile? Siamo turbati come cittadini, non come giornalisti. Nel mestiere che facciamo, il “caso di coscienza”, sia pure fortunatamente in casi meno tragici, è quotidiano. Ogni giorno, e non sempre senza passi falsi, dobbiamo percorrere il sentiero strettissimo fra astratte libertà e spontanei doveri, fra ciò che sappiamo e ciò che scriviamo. E ciò non per autocensura, ma perché sappiamo che il nostro taccuino non potrà mai contenere tutta la verità. Non è tempo di orgogli corporativi. Non abbiamo altro strumento, ogni giorno, che l'attenzione critica. E' questa che ci fa distinguere, senza indurci al silenzio, fra le inefficienze e le responsabilità del potere e l'aggressione del terrorismo, senza confonderne i segnali così diversi. Nel dibattito di questi giorni, così teso ed intenso, è sembrato che il mondo politico abbia scoperto quasi con stupore la delicatezza del problema dell'informazione e il grande senso di responsabilità dei giornalisti: ma stupisce lo stupore, perché il buon giornalista, anche quando - in tempi quieti - critica o denuncia, non lavora per distruggere, ma per riformare. E la società delle piazze e delle fabbriche ha trovato motivi di solidarietà che sono stati evocati anche dai mezzi di comunicazione. Perciò il dibattito “tecnico” su cosa pubblicare e cosa tacere mi sembra opaco, laterale. Certo, ci vuole senso di responsabilità, rifiuto della propaganda involontaria e del sensazionalismo, valutazione di ogni significato, correttezza anche grafica. Con poche eccezioni, il mondo giornalistico italiano ha risposto unanime, invocando insieme la propria capacità di decisioni, la maturità del pubblico, il dovere di una democrazia di riflettere su se stessa, anche sulle proprie debolezze e sui propri errori. Ma non è sempre così? Foto e messaggi dei terroristi non sono certo un materiale neutro, eventuali nastri o verbali emergono da una fonte tanto oscura quanto segnata da un'origine infame. E questo lo sappiamo noi, lo sa la gente che legge i giornali o guarda la televisione. Dannati giorni di marzo, giorni sospesi che non si sarebbe voluto vivere, e meno che mai seduti su una sedia da dove bisogna invece addirittura raccontarli agli altri, ora per ora, con il timore di sbagliare, di non essere abbastanza lucidi e freddi, senza emozioni né impazienze. Giorni di rabbie, insonnie, convinzioni aggredite, riflessioni disordinate che faticano a diventare ragione, speranze invecchiate in pochi minuti, la voglia di vivere in una società luminosa, efficiente, dove ciascuno fa il proprio mestiere in pace con se stesso e con gli altri, per un progetto comune… E invece, l'incubo privato che si sovrappone a quello collettivo, il passaggio quotidiano di fronte a quei grigi quartieri di Monte Mario, e i soldati dietro i sacchi di sabbia sulle vie consolari: la macchina è vuota, e chi la controlla con cortese efficienza non sa che anche noi, come tutti, ci portiamo dietro, invisibile, un bagaglio di partecipazione frustrata, di impotente voglia di fare qualcosa, di capire… Cuori gonfi, e parole che non vengono. Un sentiero stretto, dicevamo. E cosa ci può guidare, se non il lume, esposto a tutti i venti, del senso critico e della ragione laica? Vorremo scrivere lettere, forse lettere private. No, non bisogna mai “staccare la spina”, vorrei dire in risposta alle sciocchezze di Marshall McLuhan, che vuole negare a tutti la capacità di sapere, di capire, di partecipare, di non subire l'oltraggio da soli, di non essere messi sotto tutela. Il mezzo non è il messaggio, e solo il silenzio è freddo, allarmante e popolato da fantasmi. No, non bisogna mai sentirsi “estranei”, vorrei scrivere a Moravia, nemmeno con dolore per questa scissione, nemmeno quando la tentazione è forte: perché allora vuol dire che si è già patito il ricatto che vuole opporre la violenza del terrorismo alle colpe del potere. E chi non le vede, quest'ultime? Chi non si accorge che viviamo all'ombra di un Palazzo inefficiente, autoindulgente, vittimistico? Ma ciò non produce estraneità. E anzi, una cultura critica che voglia modificare il potere, non è l'arma migliore contro la violenza armata di chi quel potere vuol solo distruggerlo? E vorrei scrivere a Sciascia che il silenzio non è accettabile, nemmeno quando è eloquente e raziocinante come il suo: anche lui “stacca la spina” e il buio fa grigia ogni cosa. Solo quella ostinata fiammella ci può far vedere il sentiero. Viaggiamo fra gli errori della democrazia, e nervosi rimedi più funesti degli errori. Sappiamo bene quale cultura distruttrice abbia prodotto oscene e grottesche caricature della classe dirigente, ma sappiamo quali mali verrebbero dalla fine della libertà d'espressione. Assistiamo all'uso distruttivo delle libertà, ma non possiamo smettere di batterci per esse. Le leggi appaiono inefficaci, ma non possono alterare la nostra vita istituzionale senza fare il maggior regalo ai terroristi. E dovremmo chiudere le Università di Trento e di Bologna perché vi hanno studiato Curcio o, molto diversamente, Bifo? Concordiamo con chi accusa le nefandezze di certa sottocultura d'appoggio, l'odio che è stato allevato in alcune culle antropologiche: ma possiamo smettere di consentire agli altri di avere idee diverse dalle nostre? La fabbrica, crogiolo della democrazia industriale, può diventare un luogo sotto accusa, pattugliato dalle ronde? La strada è strettissima, ma è l'unica percorribile. Per l'informazione, ai due lati del sentiero ci sono due voragini: la prima è il silenzio imposto, l'altra è il mito astratto della notizia. Efficienza e ragione non sono strumenti da tempi di emergenza, ma da ogni tempo. Il buon governo è un confine mobilissimo, che richiede menti duttili. Una chirurgia da mani leggere, che deve estirpare il male senza uccidere il malato. Cosa si è fatto contro i cortei duri, le assemblee d'odio? E perché nessun ministro ha “staccato la spina”, quella sì, di quelle radio che hanno tenuto per anni lezione di violenza? La ragione non è uno strumento d'indulgenza, ma di rigore. Non ammicca, non giustifica, non perdona, non idealizza. E nel nostro mestiere dell'informazione, messaggio di cittadini ad altri cittadini, può guarirci dal mito del giornalismo e delle libertà astratte, ma anche dalla tentazione del silenzio.
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