Da Famiglia cristiana del 04/03/1998

Inchiesta - Seconda parte

"Ma noi raccontiamo la verità"

Somalia

di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari

Maltrattamenti, stupri, esecuzioni sommarie, traffici di oro e avorio. Il tutto coperto dai responsabili (non si sa ancora a che livello) della missione in Somalia dei militari italiani. Questo è il quadro che sembra emergere dalle deposizioni dei testimoni (almeno quattro), dai documenti, dalle fotografie presentati agli inquirenti. Episodi tutti presunti, naturalmente, finché le inchieste non saranno concluse. «Il maresciallo Aloi (il sottufficiale dei carabinieri che nel luglio scorso ha presentato il famoso memoriale, ndr)ha riferito una serie imponente di casi, una parte dei quali per percezione diretta, un’altra per sentito dire», ha riferito il procuratore militare di Roma Antonino Intelisano davanti alla Commissione Difesa del Senato. Intelisano ha parlato anche di altre fonti, di altri testi, di altri memoriali.

Un’indagine che si allarga e che ha già rotto l’iniziale muro di silenzio. Dichiara lo stesso Intelisano nelle audizioni: «Ammetto che vi siano stati dei casi di copertura, di omertà». E aggiunge: «Non abbiamo mai ricevuto alcuna notizia di fatti criminosi, reati o episodi analoghi» da parte della polizia militare. Intelisano dice tuttavia «di aver ricevuto dallo stesso ministro Andreatta una serie di notizie, di veline, di informative, che furono recuperate quando scoppiò lo scandalo».

C’è di più, a livello di ipotesi investigativa. Le violenze furono frutto di episodi isolati compiuti da qualche "testa calda", o furono piuttosto azioni sistematiche e pianificate? Il sospetto è che, a partire dall’attacco subito dagli italiani al checkpoint Pasta il 2 luglio 1993 (nel quale persero la vita tre soldati italiani), si sia innescata un’escalation di violenze come forma di rappresaglia nei confronti dei somali, che avrebbe coinvolto anche i civili. Nelle testimonianze raccolte dagli inquirenti si parla di «raid punitivi» e di «rastrellamenti aggressivi». Nel Blue book n. 8, che raccoglie gli atti ufficiali dell’Onu sulla Somalia, c’è un passaggio che conferma il deterioramento della situazione dopo il 2 luglio: nel documento 88 si afferma infatti che da quel momento italiani e pachistani «pattugliano con maggiore aggressività».

Qual è il quadro delle numerose inchieste in corso? Le indagini spettano alle Procure competenti in base al luogo di residenza dei presunti responsabili. Molti dei fascicoli sono stati inviati a Livorno: l’episodio delle torture con gli elettrodi ai genitali e il caso di stupro con il razzo; il ferimento di sette somali e l’omicidio di un ragazzo di 14 anni; l’attacco contro un’auto con tre persone a bordo (tra le quali una donna incinta che ha perso il bambino); un episodio di violenza carnale di gruppo. A Milano si indaga sullo stupro e omicidio di un tredicenne da parte di un ufficiale. A Nola sull’omicidio colposo di un bambino scambiato per un cinghiale africano. È competente Roma, invece, per la "strage di Mogadiscio", ossia l’esecuzione dei 17 somali gettati a mare legati e incappucciati, e per le dichiarazioni del maresciallo Francesco Aloi sull’omicidio di Alpi e Hrovatin. Infine, alla Procura di Trapani sono state mandate quelle che riguardano la morte sospetta dell’agente del Sismi Li Causi.

Il maresciallo Aloi scende in dettagli. I traffici d’oro, avorio e opere d’arte? «I somali venivano addirittura a vendere all’interno dell’ambasciata. Era un’attività quotidiana. Il traffico riguardava soprattutto oro e avorio. Ma sono stati portati in Italia addirittura i busti e le pietre miliari del viale imperiale di Mogadiscio, che pesano diversi quintali. Come potevano essere accusati i militari di leva per l’acquisto di una zanna, quando c’era chi si portava via intere casse di roba?».

Capitolo violenze: «Trasmettevo per competenza le denunce di violenza sessuale (io ero addetto ad altre mansioni), ma dei miei rapporti non c’è traccia», afferma Aloi. «Ad alcuni episodi di violenza ho assistito. Non si trattava di prostitute, erano per lo più donne che lavoravano al campo e che subivano il ricatto di accondiscendere o essere cacciate. In ogni campo degli italiani c’era l’"angolo dello stupro", un luogo dove avvenivano le violenze. Ilaria Alpi sapeva: una sera mi ha portato a vedere un episodio di stupro. Lei ha scattato anche delle foto con una piccola macchina fotografica che avevamo comprato insieme (una piccola macchina fotografica risulta fra gli oggetti scomparsi dal bagaglio della giornalista, ndr)». Le esecuzioni sommarie: «L’episodio dei 17 buttati a mare è solo uno di quelli a conoscenza dei magistrati. E non c’è solo la mia testimonianza». Il checkpoint Pasta: «Il giorno precedente la battaglia fu violentata e uccisa una donna del clan di Aidid. Molti lo sapevano. Avevamo paura. Ma i nostri comandanti non potevano spiegare le ragioni per cui era inopportuno quel giorno compiere il rastrellamento».

Un altro dei testimoni che hanno deposto davanti a Intelisano ci ha confermato che correva voce di uno stupro avvenuto il primo luglio. E ha parlato di «rastrellamenti aggressivi» nonché di traffici che avvenivano quotidianamente. Ha chiesto, però, di mantenere l’anonimato. Quando l’abbiamo interpellato era terrorizzato. Ha raccontato della "terra bruciata" fatta attorno a lui e ad altri che, sapendo, hanno deposto. I testimoni non si sentono protetti: lo stesso Aloi ha ripetutamente denunciato una vera e propria persecuzione subìta fin dai primi tentativi di rivelare quanto a sua conoscenza.

Il fatto più grave è accaduto il 16 ottobre scorso: mentre veniva trasportato all’ospedale in seguito a un malore, è stato costretto a recarsi alla stazione dei carabinieri, dove una sua perdita di conoscenza è stata scambiata per «crisi da calunnia». Aloi è stato ricoverato in rianimazione solo due ore dopo. Il maresciallo ha denunciato i presenti a quell’interrogatorio, ovvero due magistrati di Pisa e otto carabinieri della compagnia di San Miniato (Firenze). «La mia denuncia non ha ancora avuto alcun seguito», commenta Aloi.


Due anni d’inchiesta.
Senza i documenti

Luciana e Giorgio Alpi lo hanno scoperto, casualmente, solo adesso: per due anni, e cioè fino al 27 maggio 1996, gli archivi della Marina militare italiana hanno custodito le fotografie, negativi e stampe, scattate a Ilaria e a Miran Hrovatin un’ora dopo l’omicidio, e le relazioni scritte dagli ufficiali medici della Garibaldi che avevano effettuato la ricognizione esterna dei corpi.

Nonostante l’inchiesta in corso già da due anni, quindi, nessuno aveva pensato di consegnare spontaneamente questo importante materiale ai magistrati. E solo in seguito a una richiesta del procuratore Pititto, allora titolare dell’inchiesta poi passata a Franco Ionta, la documentazione fu trasmessa il 28 maggio 1996. Non è tutto: i periti, che il 31 gennaio di quest’anno hanno consegnato i risultati del loro lavoro (per Ilaria un’esecuzione con un unico colpo alla testa, e bruciature alle mani perché lei aveva tentato di proteggersi), questo materiale non lo hanno mai avuto.

Non risulta, infine, che i due ufficiali medici, Rodolfo Vigliano e Armando Rossitto, siano mai stati interrogati dagli inquirenti, ma solo, poche settimane fa, dalla Commissione Gallo. È così che i coniugi Alpi hanno scoperto l’esistenza di questi documenti, ed è grazie alle loro immediate ricerche se la circostanza è venuta alla luce. Resta fitto, invece, il mistero sui taccuini e la macchina fotografica di Ilaria, scomparsi dalla sua borsa durante il ritorno in Italia e mai più ritrovati. «Ora basta, di troppe omissioni e bugie si sono macchiati i comandi militari italiani a Mogadiscio», commentano gli Alpi. « E troppi sono anche i testimoni non ancora ascoltati. Per esempio, Giancarlo Marocchino».
Annotazioni − n. 8 (segue)

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