Da Famiglia cristiana del 24/09/1997
Esclusivo
"Chi ha paura della verità?"
Parlano i genitori di Ilaria Alpi
«La Commissione Gallo», dicono i genitori della giornalista uccisa a Mogadiscio nel 1994, «è stata solo un’altra speranza delusa». «L’opinione pubblica ci sostiene, ma dalle istituzioni abbiamo avuto solo indifferenza». «Perché sono spariti gli appunti e la macchina fotografica di Ilaria? Chi li ha presi?».
di Franca Zambonini
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Giorgio e Luciana Alpi stavano fermi al semaforo, una macchina li ha affiancati e il guidatore ha gridato: «Mi riconoscete? Non mollate, eh, non mollate!». Era Renato Zero. È successo pochi giorni fa, i genitori di Ilaria erano apparsi in televisione all’uscita dalla Commissione Gallo, le facce sconvolte nella ressa di giornalisti e fotografi. La Commissione, nominata per indagare sul "caso Somalia", era stata riaperta dopo le rivelazioni a sorpresa del maresciallo Francesco Aloi, e la più sconvolgente era una confidenza che gli avrebbe fatto Ilaria: «Non ho paura dei somali, ma degli italiani». L’8 settembre i commissari hanno sentito Giorgio e Luciana Alpi: i quali dall’incontro hanno ricavato solo amarezza e delusione, due sentimenti che li accompagnano, insieme al dolore, dalla morte della figlia, la giornalista del Tg3 assassinata a Mogadiscio, con l’operatore Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994.
«La Commissione Gallo? Un’altra speranza delusa. Abbiamo ricostruito la vicenda raccontandone tutte le falsità, le omissioni, i documenti scomparsi. Nessuno ha fatto un verbale, i registratori erano volutamente spenti, e alla fine sa che cosa ha dichiarato il presidente Ettore Gallo?: "Gli Alpi hanno detto cose di contorno, la loro audizione è stata un gesto di umanità e cortesia"».
La voce della signora Luciana si spezza, interviene il marito: «Cose di contorno? Gallo usa una metafora culinaria e io la completo: gli abbiamo fornito un primo piatto, altro che contorno. Potrebbe essere la conferma di quanto ha denunciato il maresciallo Aloi. Altro che "gesto di umanità e cortesia" nei nostri confronti, non l’abbiamo chiesto noi di essere ascoltati dalla Commissione. Nessuno dei commissari ha reagito alle dichiarazioni di Gallo. Non i generali Giambuzzo e Vitale, ma sono militari, si capisce. Però ha taciuto Tullia Zevi, e nessuna meglio di lei sa che cosa significa lottare per la giustizia; e anche Tina Anselmi, che pure ci aveva ascoltato sbalordita, incredula...».
Ancora un’attesa delusa. Che cosa resta? «Il sostegno dell’opinione pubblica, l’affetto di chi ci scrive di andare avanti, e i fiori o i piccoli doni che troviamo sulla tomba di Ilaria. Dalle istituzioni riceviamo solo indifferenza, per non dire vero menefreghismo».
Le voci di Luciana e Giorgio Alpi si alternano, mentre uno o l’altra tira fuori, dalle cartelle della loro imponente documentazione, una specie di grande archivio del dolore, lettere, documenti, ritagli di giornali, fotografie. Ci sono episodi recenti del "menefreghismo" di Stato: «Appena siamo venuti a sapere che un satellite americano poteva aver ripreso le fasi dell’agguato, fin dal maggio scorso abbiamo sollecitato il sottosegretario agli Esteri Rino Serri perché ottenesse dagli americani due cose: il filmato fatto dal satellite quel maledetto 20 marzo del 1994; il referto stilato dal medico della ditta Brown e Root di Houston, nelle cui celle frigorifere furono messi i corpi di Ilaria e Hrovatin. Serri non ci rispose. Si convinse a riceverci solo a fine luglio, dopo alcune lettere furiose che mandammo al ministro degli Esteri Dini. E che cosa ci ha detto Serri, dopo un silenzio di due mesi? Che sì, una lettera delle Nazioni Unite era arrivata al ministero già dal 20 maggio scorso, diceva che il satellite era stato in funzione, però le immagini risultavano poco chiare. E Serri ce lo comunica con due mesi di ritardo? Potevamo farle decrittare noi, le immagini, ci sono fior di esperti per questo, visto che il ministero se ne lava le mani».
E la seconda richiesta, il certificato di morte del medico americano? «Ah, un’altra storia edificante. Il certificato non esiste più, e la scusa è che la ditta americana ha chiuso... Ma a che serve indignarsi?». Così esclama amaramente la signora Luciana, ma subito un’altra cosa la indigna: «Una delle ipotesi sulla morte di nostra figlia è quella di un attacco dei fondamentalisti islamici. Il colonnello del Sismi Bruno Raiola, oggi generale, è stato a Mogadiscio prima, durante e dopo la permanenza delle nostre truppe. Questo signore riesce a mettere insieme una sola idea: gli attentatori erano fondamentalisti islamici. Senza elementi, senza riscontri. Ma perché il Governo, perché Prodi, da cui dipendono i servizi di sicurezza, non gli impone di saperne di più, non lo mette di fronte alle sue responsabilità? I tre bloc-notes di Ilaria scomparsi nel tratto Mogadiscio-Ciampino, dopo che le due salme erano state prese in consegna dagli italiani, chi li ha presi? I fondamentalisti islamici? Ilaria parlava l’arabo come l’italiano ed era in buoni rapporti con i fondamentalisti, aveva organizzato incontri con loro. E proprio i fondamentalisti l’avrebbero uccisa?».
Le domande si accavallano, e non c’è risposta. Questa è l’angoscia dei genitori di Ilaria: «La nostra paura è che il mistero della morte di nostra figlia e di Miran finisca nel limbo dei casi irrisolti, come Ustica, come Piazza Fontana». Gli chiediamo come hanno reagito quando è stato reso pubblico il memoriale del maresciallo Aloi, soprattutto davanti a quella tremenda confidenza che Ilaria gli avrebbe fatto: «Non ho paura dei somali, ma degli italiani».
«Subito c’è stato da parte nostra un rifiuto. Ci terrorizzava l’idea che Ilaria e Miran avessero pagato per le colpe dei nostri connazionali. Era una terza ipotesi, incredibile, dopo le prime due: la mala cooperazione e il traffico di armi su cui Ilaria stava facendo un’inchiesta, e un agguato degli integralisti islamici. Ma questa terza ipotesi-bomba, che Ilaria sia stata uccisa perché si apprestava a rivelare atti di violenza compiuti dai soldati italiani su uomini e donne somali, ci è apparsa meno incredibile quando abbiamo avuto due riscontri. Ilaria è stata a Mogadiscio sette volte, abbiamo controllato le date, e per 40 giorni la sua presenza ha coinciso con quella del maresciallo Aloi.
Quindi l’ha conosciuto, perché lei conosceva tutti quelli del contingente. Il secondo riscontro sta in due foto che riprendono Ilaria mentre scatta fotografie con la sua piccola automatica, scomparsa anche quella, come tanti altri oggetti e carte che le appartenevano. Ti vengono i cattivi pensieri, forse ha fotografato cose che non doveva vedere e che coinvolgevano soldati italiani. Le rivelazioni di Aloi ci hanno messo in testa un tarlo: se fossero vere spiegherebbero molti comportamenti. Adesso fanno di tutto per denigrare Aloi, eppure è un maresciallo dei Carabinieri, figlio di un maresciallo dei Carabinieri e con altri due fratelli arruolati nell’Arma».
Ilaria era una giornalista scrupolosa, tutto il suo lavoro al Tg3 lo dice. Perché non avrebbe mandato subito dei servizi sui presunti episodi di violenza? «Ci abbiamo pensato e la nostra conclusione è che aspettava di tornare da Mogadiscio per scrivere un libro, richiestole dalla Eri, l’editrice della Rai, sulla missione italiana in Somalia. Per il Tg3 raccontava con le immagini, e certo sulle presunte violenze immagini non ce n’erano, quel che poteva aver saputo sulle malefatte del nostro contingente forse l’aveva appreso di seconda mano. Nel libro avrebbe potuto scrivere tutto, dopo averlo verificato. Non aveva paura di dire la verità, Ilaria. Si scandalizzava per il razzismo dei nostri soldati, che trattavano i somali con disprezzo. Non sopportava di vederli fare il saluto romano e cantare "Faccetta nera" quando passavano davanti ai cippi o alle targhe dell’epoca fascista.
Questo l’ha scritto anche sul suo diario, una delle poche cose che ci sono state restituite insieme al velo bianco che portava sempre con sé per coprirsi quando incontrava gruppi di musulmani o entrava in una moschea. Voleva fermarsi in Somalia anche dopo il rientro del nostro contingente, che avvenne quel 20 marzo, giorno della sua morte. Ci aveva telefonato due ore prima: "Se posso resto ancora, vorrei vedere le reazioni dei somali dopo la partenza degli italiani". Ma è rimasta intrappolata nell’agguato».
L’agguato dei sette somali, mille domande senza risposta: «Perché ha deciso di uscire dal suo albergo dopo esservi appena rientrata, stanca, sporca, senza mangiare, alle 14.30 di un pomeriggio caldissimo? Perché la sua guardia del corpo proprio quel giorno stava male e lei dovette prenderne una che non conosceva? Perché è morta per un colpo in testa, come un’esecuzione, ed è morto anche Miran, mentre l’autista e l’uomo di scorta sono usciti illesi? Perché i militari italiani, subito informati, non hanno mandato sul posto un’ambulanza e un medico?...».
Una lettera del generale
Perché, perché, perché...« Ah, c’è da tirarne fuori un romanzo dell’orrore». La signora Luciana scuote la testa, elenca una serie sconcertante di omertà, di menzogne: «Due mesi dopo la morte di Ilaria, abbiamo ricevuto una lettera del generale Carmine Fiore, ultimo comandante del contingente. Era una lettera piena di bugie, e quando l’ho detto in pubblico, Fiore mi ha denunciata per calunnia. Sono stata assolta in fase istruttoria, da tredici mesi aspetto l’appello e sto perdendo la pazienza: voglio che infine si dica se sono io a mentire o se invece mente il generale Fiore».
Com’è la vostra vita, signora Luciana? «Viviamo solo per cercare la verità. Mio marito ha lasciato il suo lavoro di primario urologo, io passo l’intera giornata a rigirarmi in testa questa orrenda storia». E se arriverete alla verità, poi che cosa farete? «Il sacrificio di Ilaria e Miran non sarà stato inutile. Andremo al cimitero più tranquilli».
Questa risposta viene dal professor Alpi, che salutandoci racconta una coincidenza sinistra. Il suo nonno materno, Filippo Quirighetti, fu ucciso a Lafolè, vicino a Mogadiscio, nel 1896. Come funzionario delle Finanze partecipava alla spedizione Cecchi, mandata dal governo per controllare il primo insediamento italiano in Somalia. Rimase vittima di un agguato, insieme ad altri tredici italiani, tra militari e civili. Ad essi è stato dedicato un cippo. Ilaria andò a vedere questo cippo e poi telefonò ai genitori: "Non vi preoccupate per me, noi alla Somalia abbiamo già dato", disse. Giorgio Alpi scuote la testa e mormora: «Si vede che non avevamo dato abbastanza».
«La Commissione Gallo? Un’altra speranza delusa. Abbiamo ricostruito la vicenda raccontandone tutte le falsità, le omissioni, i documenti scomparsi. Nessuno ha fatto un verbale, i registratori erano volutamente spenti, e alla fine sa che cosa ha dichiarato il presidente Ettore Gallo?: "Gli Alpi hanno detto cose di contorno, la loro audizione è stata un gesto di umanità e cortesia"».
La voce della signora Luciana si spezza, interviene il marito: «Cose di contorno? Gallo usa una metafora culinaria e io la completo: gli abbiamo fornito un primo piatto, altro che contorno. Potrebbe essere la conferma di quanto ha denunciato il maresciallo Aloi. Altro che "gesto di umanità e cortesia" nei nostri confronti, non l’abbiamo chiesto noi di essere ascoltati dalla Commissione. Nessuno dei commissari ha reagito alle dichiarazioni di Gallo. Non i generali Giambuzzo e Vitale, ma sono militari, si capisce. Però ha taciuto Tullia Zevi, e nessuna meglio di lei sa che cosa significa lottare per la giustizia; e anche Tina Anselmi, che pure ci aveva ascoltato sbalordita, incredula...».
Ancora un’attesa delusa. Che cosa resta? «Il sostegno dell’opinione pubblica, l’affetto di chi ci scrive di andare avanti, e i fiori o i piccoli doni che troviamo sulla tomba di Ilaria. Dalle istituzioni riceviamo solo indifferenza, per non dire vero menefreghismo».
Le voci di Luciana e Giorgio Alpi si alternano, mentre uno o l’altra tira fuori, dalle cartelle della loro imponente documentazione, una specie di grande archivio del dolore, lettere, documenti, ritagli di giornali, fotografie. Ci sono episodi recenti del "menefreghismo" di Stato: «Appena siamo venuti a sapere che un satellite americano poteva aver ripreso le fasi dell’agguato, fin dal maggio scorso abbiamo sollecitato il sottosegretario agli Esteri Rino Serri perché ottenesse dagli americani due cose: il filmato fatto dal satellite quel maledetto 20 marzo del 1994; il referto stilato dal medico della ditta Brown e Root di Houston, nelle cui celle frigorifere furono messi i corpi di Ilaria e Hrovatin. Serri non ci rispose. Si convinse a riceverci solo a fine luglio, dopo alcune lettere furiose che mandammo al ministro degli Esteri Dini. E che cosa ci ha detto Serri, dopo un silenzio di due mesi? Che sì, una lettera delle Nazioni Unite era arrivata al ministero già dal 20 maggio scorso, diceva che il satellite era stato in funzione, però le immagini risultavano poco chiare. E Serri ce lo comunica con due mesi di ritardo? Potevamo farle decrittare noi, le immagini, ci sono fior di esperti per questo, visto che il ministero se ne lava le mani».
E la seconda richiesta, il certificato di morte del medico americano? «Ah, un’altra storia edificante. Il certificato non esiste più, e la scusa è che la ditta americana ha chiuso... Ma a che serve indignarsi?». Così esclama amaramente la signora Luciana, ma subito un’altra cosa la indigna: «Una delle ipotesi sulla morte di nostra figlia è quella di un attacco dei fondamentalisti islamici. Il colonnello del Sismi Bruno Raiola, oggi generale, è stato a Mogadiscio prima, durante e dopo la permanenza delle nostre truppe. Questo signore riesce a mettere insieme una sola idea: gli attentatori erano fondamentalisti islamici. Senza elementi, senza riscontri. Ma perché il Governo, perché Prodi, da cui dipendono i servizi di sicurezza, non gli impone di saperne di più, non lo mette di fronte alle sue responsabilità? I tre bloc-notes di Ilaria scomparsi nel tratto Mogadiscio-Ciampino, dopo che le due salme erano state prese in consegna dagli italiani, chi li ha presi? I fondamentalisti islamici? Ilaria parlava l’arabo come l’italiano ed era in buoni rapporti con i fondamentalisti, aveva organizzato incontri con loro. E proprio i fondamentalisti l’avrebbero uccisa?».
Le domande si accavallano, e non c’è risposta. Questa è l’angoscia dei genitori di Ilaria: «La nostra paura è che il mistero della morte di nostra figlia e di Miran finisca nel limbo dei casi irrisolti, come Ustica, come Piazza Fontana». Gli chiediamo come hanno reagito quando è stato reso pubblico il memoriale del maresciallo Aloi, soprattutto davanti a quella tremenda confidenza che Ilaria gli avrebbe fatto: «Non ho paura dei somali, ma degli italiani».
«Subito c’è stato da parte nostra un rifiuto. Ci terrorizzava l’idea che Ilaria e Miran avessero pagato per le colpe dei nostri connazionali. Era una terza ipotesi, incredibile, dopo le prime due: la mala cooperazione e il traffico di armi su cui Ilaria stava facendo un’inchiesta, e un agguato degli integralisti islamici. Ma questa terza ipotesi-bomba, che Ilaria sia stata uccisa perché si apprestava a rivelare atti di violenza compiuti dai soldati italiani su uomini e donne somali, ci è apparsa meno incredibile quando abbiamo avuto due riscontri. Ilaria è stata a Mogadiscio sette volte, abbiamo controllato le date, e per 40 giorni la sua presenza ha coinciso con quella del maresciallo Aloi.
Quindi l’ha conosciuto, perché lei conosceva tutti quelli del contingente. Il secondo riscontro sta in due foto che riprendono Ilaria mentre scatta fotografie con la sua piccola automatica, scomparsa anche quella, come tanti altri oggetti e carte che le appartenevano. Ti vengono i cattivi pensieri, forse ha fotografato cose che non doveva vedere e che coinvolgevano soldati italiani. Le rivelazioni di Aloi ci hanno messo in testa un tarlo: se fossero vere spiegherebbero molti comportamenti. Adesso fanno di tutto per denigrare Aloi, eppure è un maresciallo dei Carabinieri, figlio di un maresciallo dei Carabinieri e con altri due fratelli arruolati nell’Arma».
Ilaria era una giornalista scrupolosa, tutto il suo lavoro al Tg3 lo dice. Perché non avrebbe mandato subito dei servizi sui presunti episodi di violenza? «Ci abbiamo pensato e la nostra conclusione è che aspettava di tornare da Mogadiscio per scrivere un libro, richiestole dalla Eri, l’editrice della Rai, sulla missione italiana in Somalia. Per il Tg3 raccontava con le immagini, e certo sulle presunte violenze immagini non ce n’erano, quel che poteva aver saputo sulle malefatte del nostro contingente forse l’aveva appreso di seconda mano. Nel libro avrebbe potuto scrivere tutto, dopo averlo verificato. Non aveva paura di dire la verità, Ilaria. Si scandalizzava per il razzismo dei nostri soldati, che trattavano i somali con disprezzo. Non sopportava di vederli fare il saluto romano e cantare "Faccetta nera" quando passavano davanti ai cippi o alle targhe dell’epoca fascista.
Questo l’ha scritto anche sul suo diario, una delle poche cose che ci sono state restituite insieme al velo bianco che portava sempre con sé per coprirsi quando incontrava gruppi di musulmani o entrava in una moschea. Voleva fermarsi in Somalia anche dopo il rientro del nostro contingente, che avvenne quel 20 marzo, giorno della sua morte. Ci aveva telefonato due ore prima: "Se posso resto ancora, vorrei vedere le reazioni dei somali dopo la partenza degli italiani". Ma è rimasta intrappolata nell’agguato».
L’agguato dei sette somali, mille domande senza risposta: «Perché ha deciso di uscire dal suo albergo dopo esservi appena rientrata, stanca, sporca, senza mangiare, alle 14.30 di un pomeriggio caldissimo? Perché la sua guardia del corpo proprio quel giorno stava male e lei dovette prenderne una che non conosceva? Perché è morta per un colpo in testa, come un’esecuzione, ed è morto anche Miran, mentre l’autista e l’uomo di scorta sono usciti illesi? Perché i militari italiani, subito informati, non hanno mandato sul posto un’ambulanza e un medico?...».
Una lettera del generale
Perché, perché, perché...« Ah, c’è da tirarne fuori un romanzo dell’orrore». La signora Luciana scuote la testa, elenca una serie sconcertante di omertà, di menzogne: «Due mesi dopo la morte di Ilaria, abbiamo ricevuto una lettera del generale Carmine Fiore, ultimo comandante del contingente. Era una lettera piena di bugie, e quando l’ho detto in pubblico, Fiore mi ha denunciata per calunnia. Sono stata assolta in fase istruttoria, da tredici mesi aspetto l’appello e sto perdendo la pazienza: voglio che infine si dica se sono io a mentire o se invece mente il generale Fiore».
Com’è la vostra vita, signora Luciana? «Viviamo solo per cercare la verità. Mio marito ha lasciato il suo lavoro di primario urologo, io passo l’intera giornata a rigirarmi in testa questa orrenda storia». E se arriverete alla verità, poi che cosa farete? «Il sacrificio di Ilaria e Miran non sarà stato inutile. Andremo al cimitero più tranquilli».
Questa risposta viene dal professor Alpi, che salutandoci racconta una coincidenza sinistra. Il suo nonno materno, Filippo Quirighetti, fu ucciso a Lafolè, vicino a Mogadiscio, nel 1896. Come funzionario delle Finanze partecipava alla spedizione Cecchi, mandata dal governo per controllare il primo insediamento italiano in Somalia. Rimase vittima di un agguato, insieme ad altri tredici italiani, tra militari e civili. Ad essi è stato dedicato un cippo. Ilaria andò a vedere questo cippo e poi telefonò ai genitori: "Non vi preoccupate per me, noi alla Somalia abbiamo già dato", disse. Giorgio Alpi scuote la testa e mormora: «Si vede che non avevamo dato abbastanza».
Annotazioni − n. 38
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