Da Famiglia cristiana del 29/11/1998

Parla Giancarlo Marrocchino, l'italiano al centro di mille sospetti

"Sono innocente. Ecco perché"

«Non ho mai trafficato in armi e rifiuti. Questi ultimi, semmai, possono essere gettati in mare, al largo, dove nessuno vede».

di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari

Dicono che sia un poco di buono. È sospettato di aver trafficato armi e rifiuti pericolosi. Pensano che sia un uomo dei servizi segreti nonostante che il Sismi, nel giugno scorso, abbia ufficialmente escluso che sia mai stato un suo confidente.

Giancarlo Marocchino ha 56 anni e la pelle cotta dal sole. Piemontese d’origine (è nato a Borgosesia, in provincia di Vercelli) ma ligure d’adozione, non ama perdersi in chiacchiere. Aveva promesso: «Venite, risponderò a tutte le domande che vorrete farmi». È stato di parola. «Giornalisti, magistrati, parlamentari mi hanno preso di mira. C’è chi, in Italia e dunque a migliaia di chilometri di distanza, trancia giudizi senza conoscere nulla della Somalia, un Paese piagato da un’esasperata frammentazione sociale e politica, una terra in cui otto anni di guerra civile hanno dettato rigide regole di sopravvivenza che si faticano a comprendere fuori da qui», dice salutandoci poco dopo il nostro fortunoso atterraggio (a Mogadiscio Nord chiamano aeroporto una lunga striscia di terra battuta circondata da dune di sabbia, dromedari, fuoristrada armati con mitragliatrici pesanti).

Lei è sospettato di trafficare in armi...
«Ancora quella storia? Il 29 settembre 1993, in piena missione Onu, gli americani mi arrestarono con quella precisa accusa. Sono stato espulso da Mogadiscio. Alla fine, lo stesso Jonathan Howe, comandante di Unosom, ha revocato il provvedimento nei miei confronti (ecco qui la lettera, datata 18 gennaio 1994) e la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l’archiviazione, concessa dal Gip il 17 luglio 1995».

Ma prima? E dopo?
«No, non ho mai trafficato in armi. La Somalia d’altronde non aveva e non ha bisogno di importare armi. Fin quando c’era uno Stato, aveva uno dei migliori eserciti dell’Africa. Allo scoppio della guerra civile gli arsenali sono stati saccheggiati dalle varie milizie. Altre armi, poi, sono circolate all’indomani del ritiro dei diversi contingenti Onu. Vuole comprare un kalashnikov o un bazooka? Solo qui a Mogadiscio lei può scegliere fra tre differenti mercati».

Ha mai trasportato o interrato rifiuti pericolosi spediti in Somalia in violazione delle leggi internazionali?
«Mai».

Lei ha camion, gestisce un porto...
«E allora? Fino alla caduta di Siad Barre vigilava una dogana ferrea. Liquefattosi lo Stato somalo, la guerra civile ha bloccato il porto di Mogadiscio e qui, a Huria Port, dove opero, non si possono scaricare container ma solo merce sfusa».

Forse in qualche container che lei ha trasportato fino al ’90-91 c’erano rifiuti tossico-nocivi...
«Che cosa ne so io? Arrivavano sigillati. Mi dicevano: porta questi a Garoe, porta questi altri a Bosaso. Eseguivo. Punto e basta».

Secondo un’ipotesi, i rifiuti sono stati interrati proprio lungo la strada Garoe-Bosaso o, in quella stessa zona, sono stati buttati dentro a pozzi non utilizzati...
«Non diciamo sciocchezze. I pozzi sono stati costruiti per pompare acqua dal sottosuolo. Hanno tubazioni di 4050 centimetri di diametro. Impossibile buttarci dentro un fusto. Per il resto, se in Somalia ti metti a scavare una buca, dopo un’ora hai cento somali che ti chiedono cosa stai facendo; se sotterri qualcosa, passa mezza giornata e mille somali si accapigliano per tirare fuori quello che hai cercato di nascondere. Non escluderei che qualcuno scarichi bidoni pieni di rifiuti in mare, al largo, non visto».

L’hanno accusata di essersi indebitamente appropriato di mezzi di alcune aziende italiane, come la Salini...
«Falso. L’8 gennaio del 1991 proprio la Salini, che aveva abbandonato la Somalia per via della guerra civile, mi ha affidato la custodia temporanea di tutti i suoi mezzi, incaricandomi di recuperare quelli "presi" da questo o quel clan. Cosa che io ho fatto, pagando di tasca mia il riscatto dei camion e degli altri automezzi. Da quel momento ho chiesto alla Salini prima, e ai diplomatici italiani poi, come dovevo comportarmi, pretendendo unicamente, questo sì, di vedermi rimborsate le spese sostenute. Aspetto ancora una risposta».

Nel 1993 Franco Oliva, un funzionario del ministero degli Esteri, ha sollevato dubbi sulla correttezza del suo operato e poi è stato gravemente ferito in un agguato a Mogadiscio...
«Mi state forse accusando di essere il mandante? Roba da pazzi. Non ho mai conosciuto Oliva. Quando è stato ferito mi trovavo a Nairobi, cacciato dagli americani. Ho appreso in seguito che il mattino del 29 ottobre 1993 il dottor Oliva si recò per motivi personali all’aeroporto internazionale di Mogadiscio, sebbene l’ambasciata italiana avesse sconsigliato di andare in quella zona, giacché erano stati segnalati scontri».

Conosce Guido Garelli?
«Sì. L’ho conosciuto a Milano, nell’ufficio di Flavio Zaramella, a capo dell’Associazione Italia-Somalia. Credo fosse il 1992, ero in Italia, evacuato in fretta e furia dalla Somalia, come tutti gli italiani allora presenti nel Paese. Garelli si presentò come ammiraglio dell’Autorità territoriale del Sahara e mi disse che aveva ingenti quantità di cibo che avrebbero alleviato le sofferenze dei somali, che erano ridotti alla fame. Io gli consigliai di contattare un’Organizzazione non governativa, Sos Kinderdorf, con sede a Nairobi. E a Nairobi rividi Garelli nel luglio-agosto 1992. Poi lui si recò per qualche giorno a Mogadiscio. So che l’accordo non si concluse, dal momento che Guido Garelli pretendeva un forte anticipo».

Dagli atti della "Commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione della politica di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo" risulta che l’archivio del Fondo aiuti italiani, che potrebbe svelare segreti inconfessabili e inconfessati, sia stato trasportato a Mogadiscio per un certo periodo. Lei sa qualcosa a questo proposito?
Giancarlo Marocchino lascia passare qualche istante di silenzio. Poi sorride: «Se mi date un milione di dollari ve lo dò». Subito dopo precisa: «Ovviamente scherzavo. L’ambasciata è stata saccheggiata. Non ho nulla, se non il dossier che mi riguarda (poche note, per lo più biografiche) che un tizio mi diede, facendomelo pagare circa cento dollari».

Ha mai lavorato per il Sismi?
«E come no? Ecco le ricevute. Al Servizio nucleo sicurezza della nostra rappresentanza diplomatica ho garantito varie forniture, soprattutto di gasolio. Talvolta ho riparato il generatore. Tutto lì».

Ha mai svolto attività di spionaggio?
«Spesso sono stato sollecitato a fornire pareri sulla travagliata situazione somala da strani "osservatori" di organizzazioni non governative di varia nazionalità: americane, francesi, e italiane, va da sé. Io a tutti rispondo nella misura dello stretto indispensabile, per buona educazione e cortesia. Certe persone si riconoscono lontano un miglio».

Il 20 marzo 1994 è stato il primo a correre sul posto dell’agguato che è costato la vita a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin. A caldo, in una dichiarazione resa a una troupe televisiva, disse: «Non è stata una rapina, si vede che sono stati in certi posti in cui non dovevano andare». È rimasto della stessa opinione?
«Ero scosso. Oggi penso che volevano rapirli o rapinarli. Il 20 febbraio di quest’anno ho trasmesso una dettagliata dichiarazione alla Digos di Roma».
Annotazioni − n. 47 (segue)

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