Da La Repubblica del 22/03/1978
Una città divisa tra paura e reazione e c'è chi è pronto a scendere in piazza
di Giorgio Bocca
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TORINO, 21. - La paura si dice è una cattiva consigliera e la paura a Torino c'è: paura del terrorismo, ma anche di tutto ciò che al terrorismo può appendersi. La sera del rapimento di Moro, quartieri "fuorilegge" come la Falchera e le Vallette, si sono messi da soli in stato di assedio, di coprifuoco, porte e persiane chiuse, per paura di tutto e di tutti, di quelli che rubano e di quelli che scappano, paura di un prossimo infido e violento. E poi le paure più sottili diffuse in tutti i ceti sociali: di un terrorismo che colpisce anche la povera gente come il maresciallo Berardi o il cittadino qualsiasi come i cronometristi e i capetti Fiat; e la paura di essere messi all'indice come simpatizzanti del terrorismo o come diversi. Risulta impossibile dire a quale tipo di paura si legano i quindici professori che hanno rifiutato di fare i giudici popolari; o la piccola borghesia poujadista che dice anche a chi non lo vuol sentire: "Io ho tirato giù le saracinesche per quei cinque disgraziati di poliziotti. Non certo per Moro". Ma c'è un segno della paura e del conformismo anche nella raccolta delle firme contro la violenza che va bene e benissimo negli uffici pubblici diretti dai comunisti e dai socialisti, Comune e Provincia municipalizzate e male, malissimo negli uffici privati. Chi dall'estrema sinistra dice che lo sciopero del 16 marzo è riuscito parzialmente mente per la faziosità politica: lo sciopero è stato impressionante, si sono vuotate anche le piccole fabbriche, a Mirafiori, anche senza i picchetti sindacali, sarebbero entrati per il secondo turno poche centinaia di operai. C'è stata senza dubbio una mobilitazione popolare e operaia crescente: fiacchissima per l'attentato a Casalegno, notevole per il maresciallo Berardi, forte per l'attentato di Roma. Ma il primo a sapere che "la necessità di un'unità sincera non è ancora acquisita fino in fondo" è il partito comunista che domenica ha riunito sindacalisti e dirigenti di sezione o di quartiere, per dirsi l'intera e non sempre piacevole verità. Chi sono i torinesi pronti a scendere in piazza o a impegnarsi sul luogo di lavoro contro il terrorismo? Otto su dieci sono comunisti. Quanti in percentuale? Se si giudica dalle manifestazioni e dalla loro risonanza si può dire che oggi, per grande approssimazione il trenta per cento dei torinesi attivi è pronto a partecipare. Pur che si tratti di una partecipazione di massa corale unitaria. Il giorno in cui alla porta numero sette di Mirafiori si sono presentati i partigiani comunisti Comollo e Nicola con uno dei democristiani feriti, il consigliere Poddu, su duemila operai usciti i firmatari dell'appello sono stati 150. Pochi o molti? Chi conosce le cifre vere dei periodi di rischio e di paura può dire tranquillamente molti, quanti bastano a mobilitare, nelle ore decisive, il trenta per cento pronto a muoversi. Nessuno dunque si stupisca o si scandalizzi quando si dice che l'area grigia torinese, nelle fabbriche e negli uffici, copre almeno il sessanta per cento dei cittadini attivi, cioè di coloro di cui si possano osservare sui luoghi di lavoro gli atteggiamenti. Resta un dieci per cento che sta di fronte al terrorismo in una posizione ambigua e favorevole. Quanti sono i simpatizzanti attivi del terrorismo? Quelli che mettono i volantini alla Fiat Mirafiori, alla Olivetti, alla Singer o che osano distribuirli a Orbassano, mentre parla il comunista Giuliano Ferrara? Meno dell'uno per cento: o giovanissimi o anziani. Perché questo è l'aspetto più impressionante, ma non il più sorprendente della vicenda. Sono ritornati i vecchi stalinisti e rivoluzionari, gente sui sessant'anni che non ha mai rinunciato dentro di sé all'idea di una resa di conti rivoluzionari; tanto avanti negli anni da non poter più attendere i tempi lunghi di Berlinguer, posto che ci abbia mai creduto. Nel partito comunista si conoscono i loro nomi e si sa che possono ancora contare, incidere sull'antica avversione di classe verso i democristiani: Torino, si è detto nella riunione di Domenica, è pur sempre la città dove il vecchio tipo della gestione politica ha lasciato più tracce nella Dc. Altri hanno parlato di "persistente economicismo" per dire che c'è una fascia operaia che risponde alle richieste di impegno politico con frasi come: "Sì, ma la busta paga è sempre più leggera" "chi mi taglia il salario è il padrone". E addirittura: "Le Br? Non sono d'accordo. Ma da quando hanno sparato a Osella e Camaioni, alle Presse non tagliano più i tetti". C'è anche il partito della pena di morte. Interclassista e con adesioni dichiarate più nei ceti operaio-popolari che nella borghesia che in questi anni di trasformismo ha imparato a tacere i suoi veri e intimi sentimenti e a darsi una vernice di garantismo liberale. Lo si è visto anche tra gli avvocati: parecchi, notoriamente legati ai ceti dominanti, notoriamente di destra, hanno aderito alle eccezioni della Guidetti Serra. Ci sono anche segnali ambigui che bisogna decifrare: certi insegnanti e certi dirigenti Fiat si sono rifiutati di firmare l'appello della regione contro la violenza non da sinistra ma da destra, in odio ai sindacati, ai loro occhi per troppo tempo molli e conniventi con il terrorismo. Come nell'area dei cosiddetti simpatizzanti, ci sono anche quelli che senza avere alcunché in comune di politico con le Brigate rosse, delegano ad esse le loro vendette, contro il maresciallo di polizia che ti ha arrestato, o contro il dirigente intermedio di fabbrica che ti ha multato. Miserie della vita, ma la vita è fatta anche di esse.
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