Da La Repubblica del 30/03/1978
Editoriale
Quelle parole non sono le sue
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Se la lettera a Cossiga, diffusa dai brigatisti, è stata veramente scritta da Aldo Moro, come ritengono gli inquirenti, essa acuisce ancora i sentimenti di angoscia e preoccupazione sulla sorte del presidente della Dc. Se il fatto di aver scritto la lettera testimonia che Moro è vivo, lo stile e il contenuto del messaggio fanno ritenere che Aldo Moro sia soggetto a pressioni di natura tale che la parola tortura, sia pure intesa come condizionamento psicologico ossessivo e coartante, non è esagerata o lontana dalla verità delle cose. Il lungo ciclostilato di pugno delle brigate lascia capire che la pretesa cultura dei “giudici” di Moro non è riuscita ad andare oltre una traduzione, in termini tipici del delirio brigatista, di discorsi e descrizioni che Moro può aver fatto secondo una logica del tutto ordinaria e congeniale rispetto al corretto rapporto che si instaura tra forze politiche in un regime democratico. In altri termini, il processo politico delle brigate ad Aldo Moro sembra fallito, se si proponeva in origine l'obiettivo di arrivare a rivelazioni su clausole segrete e misteriose fra le potenze dell'alleanza atlantica o su passaggi difficili e pericolosi della vita interna italiana. Su questo fallimento si innesta adesso la più semplice, e in apparenza redditizia, proposta dello scambio, fatta suggerire da Moro in termini che dovrebbero segnare, se accettati, la sua fine politica attraverso il discredito di fronte all'opinione pubblica. Moro insomma, in cambio della sua salvezza fisica, sottoscriverebbe, con una distinzione inaccettabile tra rapiti dalla criminalità comune e rapiti dalla criminalità politica, il proprio suicidio politico e di statista. Ed è proprio questo che ci ripugna di accettare o anche solo di ritenere verosimile. La lotta con le Brigate si fa insomma ancora più aspra e dura e richiede al paese e soprattutto alle forze politiche e al governo un'estrema lucidità di giudizio.
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