Da La Repubblica del 30/03/1978
Parole scritte sotto la tortura
di Fausto De Luca
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TORINO - Le impressioni e i giudizi si accavallano in modo tumultuoso tra gli inquirenti di fronte all'ultimo messaggio delle Brigate rosse. Non sembrano esserci dubbi sull'autenticità della grafia della lettera indirizzata al ministro dell'Interno Francesco Cossiga: la scrittura è quasi certamente quella di Moro. Lo stile suscita invece diverse perplessità: ci sono cadenze e passaggi che sembrano tipici del modo di pensare e di esprimersi del presidente della Dc, ma altri brani e altre espressioni suscitano un'impressione diversa. Sembra difficile immaginare in bocca a Moro un'espressione come “perdere la faccia”. Analizzando la lettera sotto questo profilo, si è indotti ad immaginare, con raccapriccio, le impressionanti pressioni psicologiche esercitate su Moro per indurlo a scrivere una lettera in termini a lui non congeniali e che più agevolmente può pensare siano stati a lui imposti e dettati. E veniamo ai contenuti che colpiscono in almeno due passi. Il primo è quello in cui si stabilisce una distinzione fra i normali rapimenti o sequestri di persona, fatti cioè a scopo venale, e i rapimenti politici, che mirano a coinvolgere lo Stato. E' poco verosimile che Moro abbia potuto pensare e scrivere di sua volontà che “il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile".In altri termini, Moro proporrebbe lo scambio di se stesso con altre persone, non si sa ancora quali, anche se la fantasia non deve correre troppo lontano. A fil di logica, si potrebbe anche pensare che le Brigate, dopo aver dato un'impressione del tutto diversa, di voler cioè soprattutto trarre profitto da una confessione circostanziata di responsabilità politiche, ripiegano oggi, non potendo ottenere risultati in questa direzione, sulla classica proposta di scambio. Questa impressione è rafforzata dalle parti che sono di pugno originale delle brigate e nelle quali, dove si parla delle cose che Moro avrebbe confessato, è facile vedere un semplice ribaltamento di linguaggio. Dove si dice che Moro è consapevole di essere il maggiore responsabile di misfatti e crimini nel senso di voler creare, come dicono le brigate, lo stato delle multinazionali, si può leggere semplicemente che Moro ha ammesso, questo è lapalissiano, di essere una personalità eminente e una guida politica di prima grandezza. Così quando le brigate scrivono che Moro ha chiamato in causa tutta la classe dirigente del suo partito, si può leggere semplicemente che Moro ha richiamato i suoi “giudici” alla realtà delle vicende della democrazia, in cui multiformi sono gli apporti, infinite le mediazioni, diffusa ed articolata la responsabilità delle decisioni. Il secondo passaggio della lettera di Moro che suscita perplessità è quello in cui si suggerisce un coinvolgimento del Vaticano, insomma del papa ("un preventivo passo della Santa Sede potrebbe essere utile"), mirando ad allargare ulteriormente la rilevanza e lo scandalo in tutta la comunità internazionale e a creare un precedente che metterebbe il vertice della Chiesa in gravi difficoltà in tutte le successive imprese terroristiche, da chiunque compiute. Nulla in assoluto, ovviamente, si può escludere, ma ancora una volta l'enormità delle cose induce a immaginare una condizione del prigioniero che non si può che definire allucinante: di sottile tortura fisica e mentale, di coartazione della volontà e dell'intelligenza.
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