Da La Repubblica del 12/04/1978
Intervista a Scalzone, uno dei leader della linea dura del movimento.
Che cosa vuole autonomia
di Stefano Jesurum, Carlo Rivolta
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Non vi sembra, voi dell'Autonomia, di avere fini e obiettivi concomitanti con quelli dei terroristi? Non vi ritenete dei fiancheggiatori? "Se per obiettivo intendiamo i fini generali, cioè quello che è dichiarato nel manifesto dei comunisti, “sovvertire violentemente l'ordine sociale esistente”, se cioè parliamo in senso generale e ideologico della finalità rivoluzionaria, indubbiamente sì. Ma il problema di fondo è che la sinistra si è sempre divisa sui mezzi, sul tipo di percorso, sull'analisi, sul tipo di valutazione della fase politica... Ma se accettate il mezzo "violenza", è aperta la possibilità di avvitarsi in una spirale senza fine. Che differenza c'è tra chi spara in piazza, durante una manifestazione, e provoca la morte di un agente di polizia, e chi ha massacrato la scorta di Moro? "Nei confronti della lotta armata abbiamo un giudizio che deriva da tutto quello della tradizione del marxismo rivoluzionario: siamo cioè assolutamente consapevoli della necessità dell'uso della violenza e della lotta armata come possibilità di aprire gli spazi a un processo di liberazione comunista. Si tratta in pratica di spezzare la macchina dello Stato. Questo però non vuol dire ideologia della violenza. Noi pensiamo che l'ideologia sia sempre un fatto negativo di organizzazione. Quindi, quando la violenza diventa comportamento indiscriminato, o appunto ideologia, perde i connotati dell'intelligenza. Non è più strumento di una intelligenza progettuale, teorica, messa al servizio di un processo di emancipazione proletaria. Pensiamo che il concetto di lotta armata vada nel senso che la lotta armata può significare la guerra civile dispiegata, oppure può essere l'inserimento, all'interno dello sviluppo della lotta di classe, di una serie di iniziative che accelerino ed esasperino la situazione. Evidentemente la calibratura è estremamente diversa da fase a fase". Come si fa a protestare contro la violenza dello Stato e al tempo stesso utilizzare la violenza come mezzo per distruggerlo? Come si può difendere con la morte il diritto alla vita? "Questa obiezione è già stata sollevata ad esempio da Bernard Levy, ma, anche se non si tratta di una posizione da liquidare come riedizione del legalitarismo tradizionale, non la condivido. A me viene subito in mente un'affermazione un po' rozza, forse da comizio, ma efficace. Pensate, per esempio, ad un proletario che si metta a ragionare sui 600 mila morti della guerra del '15-'18. Quale insurrezione, quale guerra civile, anche delle più sanguinose avrebbe provocato il dissanguamento del proletariato in Italia paragonabile a quel periodo storico? Per non parlare delle statistiche sugli incidenti mortali sul lavoro. In Italia ogni giorno muoiono 8-9 proletari in 'incidenti sul lavoro'. Francamente mi sento molto più diminuito e comunque colpito, e lo dico senza demagogia, dall'operaio anonimo che cade nella vasca dell'acido solforico che non, al limite, dallo stesso compagno che cade nelle piazze". Gli incidenti sul lavoro sono certamente gravi e deprecabili e ogni sforzo per rendere il lavoro più sicuro va fatto. Ma l'argomento che lei porta non ha molto peso. Con la stessa logica si potrebbe deprecare e attribuire al sistema il fatto che gli incidenti stradali o qualunque altro tipo di incidenti colpiscono di più le classi più numerose e proletarie della popolazione. Che senso politico può avere un ragionamento di questo genere? Comunque, secondo lei, a secondo di come si muore, la vita ha un valore diverso? "In un certo senso sì, anche se andremmo, parlando di questo, a sconfinare in termini filosofici. La violenza - anche nella forma preordinata militare - esercitata dai proletari per abbattere la forma sociale capitalistica ha un contenuto diverso da quella opposta, ha un contenuto di liberazione". C'è un problema su cui voi non vi misurate onestamente. A prescindere da qualunque giudizio politico è evidente che l'ingresso del Pci nell'area del governo garantisce allo Stato, quale esso è oggi, un consenso certamente più vasto di quello che aveva prima. Questo proletario, a cui vi riferite, nella sua maggioranza, si riconosce nel Partito comunista. Non credete quindi che il consenso intorno alle istituzioni democratiche v'imponga di abbandonare la linea della violenza per porvi il problema di come erodere questo consenso e coagularlo intorno a voi? "Ora che il campo sembra essere sgombro dagli esorcismi sulla Cia o il Kgb, ci si comincia a rendere conto che il terrorismo (chiamiamolo pure così, fuor d'ideologia) c'è, è un fenomeno organico alle società più diverse, dai simbionesi americani ai palestinesi. E' un fenomeno endogeno, quindi si tratta di passare ad un altro discorso. Il problema che io ponevo in assemblea a Roma, in termini molto spregiudicati era come, dal punto di vista dei rivoluzionari, sia possibile, dicevo provocatoriamente, un uso del terrorismo". Ma scusi, torniamo alla questione del consenso. "In pratica tu sostieni che, se c'è l'impressione dello sfascio di alcuni apparati, in prospettiva c'è una forza ristabilizzante. Indubbiamente oggi il Pci si presenta come unica forza in grado di legittimare questo Stato, e questo lo capiscono anche i liberali tradizionali. Ora il problema è capire se noi possiamo riuscire (e questo vuol dire abbandonare alcuni schemi estremisti) a inserirci in questo quadro della situazione in modo da impedire che il Pci funzioni per legittimare lo Stato nuovo del capitale". Molotov, revolverate, vetrine sfasciate nelle strade. Non credete che la paura faccia arretrare la democrazia e quindi anche lo sviluppo dell'opposizione al regime democristiano che vi proponete di creare? "C'è al fondo di questo problema la questione dell'ineliminabilità d'un atteggiamento antagonistico di classe che a volte si presenta in modo contraddittorio. Secondo me oggi convivono nelle stessa persona, addirittura nello stesso operaio, contemporaneamente un impianto ideologico favorevole al mantenimento del compromesso democratico, e un atteggiamento per cui si vede di buon occhio la pratica del terrorismo. Non perché molti operai condividano la pratica delle Brigate rosse coscientemente, ma perché a molti va bene che la gerarchia di fabbrica sia sotto tiro. E' il caso di larghi strati operai torinesi, rivelato anche da Pansa. Insomma, sono in molti a vedere queste cose non come una strategia rivoluzionaria, ma come il cacciavite dentro la macchina, come il sabotaggio delle macchine che ferma la produzione. Il problema è che gli occhiali estremisti che spesso portiamo, ci impediscono di lavorare su questa contraddizione. Io non me la sento di regalare all'avversario le masse che hanno partecipato alle manifestazioni del 16 marzo. Cioè la motivazione di sostegno delle istituzioni non era maggioritaria in queste mobilitazioni, ma la gente ha reagito ai più disparati impulsi. Che so? La paura del golpe e altro". L'autonomia intensificherà, visto che non ha respinto al mittente il messaggio delle Br, come hanno fatto altri settori del movimento, le sue mobilitazioni e la sua azione politica nei prossimi mesi? "Per quanto è possibile i nostri ritmi saranno indipendenti dai fatti recenti. Io credo che noi dobbiamo continuare a sviluppare la tematica del contropotere, che non deve assolutamente subire arresti. Dobbiamo far crescere il contrapotere, addirittura la controsocietà, non nel senso di una cosa separata che vive negli anfratti della società capitalistica, ma nel senso di uno sviluppo dell'antagonismo sociale. Quindi il senso non è quello di dire: c'è questa crisi, diamo una spallata e facciamola precipitare, ma interveniamoci sopra, utilizziamola, approfondiamola, rendendo irreversibile questa ingovernabilità".
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