Da L'Unità del 24/04/1978

Il terrorismo non è soltanto un complotto e combattere ogni forma di violenza".

di Giuliano Ferrara

Esso trova coperture ed è anche un prodotto della crisi italiana I giorni della rivolta popolare all'eccidio di via Mario Fani e al rapimento di Aldo Moro suggeriscono qualche riflessione. Visti da Torino, forse, qualche riflessione in più. Questa è la città in cui nuclei armati delle BR hanno alzato il tiro tre volte in un anno: Croce, Casalegno, Berardi. Ogni volta colpendo un obiettivo, direttamente o indirettamente collegato alla tormentata vicenda del “processo”. E' la città in cui più massiccia si è fatta, nei mesi trascorsi, la offensiva militare e ideologica diretta a esautorare la Repubblica seminando, prima di ogni altra cosa, la sfiducia, la rassegnazione, la passività operaia: propaganda nelle fabbriche, incendi nei reparti, ferimenti a catena dei capi officina di Mirafiori e Rivalta. Qui ha avuto un esito solo parziale lo sciopero di protesta indetto per l'attentato a Carlo Casalegno. Ma il 16 marzo in questa città è cambiato qualcosa. Piazza San Carlo era già quasi piena mentre le fabbriche si svuotavano ancora. E questo è accaduto nelle cento città. A Torino però, si è registrato uno scarto sensibile e significativo, un avanzamento illuminante nell'identificazione della classe operaia con le istituzioni democratiche. Lo si è visto, oltre che nella sua compattezza, nelle mille forme della mobilitazione, nella discussione minuta, nell'orientamento univoco e dei pronunciamenti. Restano zone d'ombra e settori dell'organismo sociale ancora impermeabili, nella inerzia, alla influenza delle idee forza che hanno determinato un alto grado di unificazione civile. Ma se è vero, come ha scritto “Nuovasocietà”, che la manovra dipanatasi a Torino, a ridosso del processo delle BR, è consistita nel fatto che “gruppi e classi hanno perduto (o stanno perdendo) la proprietà esclusiva dello stato si servono della diffusa estraneità al vecchio equilibrio istituzionale per impedire la nascita del nuovo”, bene, il 16 marzo ha dimostrato come questa insidia può essere schivata. Detto questo, vale la pena di osservare che la strada dell'espansione in ogni ambito della società civile organizzata di una lucida consapevolezza dei pericoli e dei caratteri di questa nuova fase dell'offensiva terroristica è ancora lunga e disseminata di indicazioni fuorvianti, per certi aspetti vere e proprie trappole. Ritengo utile segnalarne almeno due. La prima consiste nella riemersione, in forma rozzamente schematica e meccanica, di una teoria del complotto capace di spiegare ciò che accade. Si tratta di una soluzione logica. E questa “soluzione”, in verità la più facile, sembra favorita da una serie di concomitanze che hanno colpito la nostra fantasia anche al di la del loro rilievo “oggettivo”: la tecnica dell'attentato, il giorno scelto per metterlo in atto, la spavalderia che allude a condizioni di sicura impunità, lo stesso ambizioso obiettivo (l'uomo più rappresentativo, oggi, del sistema politico italiano, il centro del centro di tutti gli equilibri possibili). Forze che operano per dissestare i nuovi equilibri della democrazia Certo, quello italiano è un caso unico di debolezza dello Stato congiunta all'apertura di spazi istituzionali, sempre più larghi, entro cui sembrano “assestarsi” nuovi equilibri di potere fra le classi. Ciò che la democrazia italiana produce in termini di trasformazione, in una parola il suo segno avanzato e aperto agli esiti di un processo socialista in occidente: tutto questo incute paura e induce forze potenti, interne ed internazionali, a lavorare per “dissestare” questi nuovi equilibri. Evocarle, queste forze, non è affatto sbagliato. Ma se questa giusta considerazione delle cose dovesse condurre a una sottovalutazione del grado cui sono insieme giunti la crisi del paese, la degenerazione del tessuto sociale nei suoi punti più deboli e lo scollamento grave della sua stessa identità culturale, l'effetto sarebbe disarmante. Per troppo tempo abbiamo indugiato a considerare i gruppi terroristici che operano nel paese come una variante qualsiasi di un disegno di destabilizzazione che avrebbe potuto avere basi, consensi, diramazioni solo a destra e solo come prodotto di una “provvidenziale” astuzia reazionaria. E per questo ci siamo spesso voluti stupire di fronte alle forme più subdole di reclutamento, di propaganda, di radicamento delle formazioni terroristiche in limitatissimi emblematici segmenti di sottoproletariato, di gioventù di classe operaia. Marcare dunque, nel giudizio sul rapimento di Aldo Moro, un segno di novità, un salto brusco in avanti della strategia della provocazione non deve significare l'abbandono di un giudizio sul fenomeno terroristico in quanto tale, sulla sua storia, sulle sue radici nell'attualità sociale, politica e culturale della società italiana. D'altra parte, le stesse schizofreniche reazioni di settori di punta dell'estremismo politico, del partito armato e del movimento armato (“né con lo stato, né con le BR”, “né una lacrima, né un minuto di sciopero per Aldo Moro”) dimostrano secondo me ampiamente, che ideologia e pratica delle formazioni terroristiche mantengono, nello stesso momento in cui sono aspramente combattute e recisamente isolate dalla maggioranza del popolo, una loro indubbia quanto perversa efficacia per lo meno psicologica e si configurano, nei punti di più profonda degenerazione degli effetti di crisi, come un messaggio persuasivo. Per certi versi è incredibile, ma è così. Sottovalutare questo aspetto della questione è dare per risolto una volta per tutte (e per tutti) il problema della lotta al terrorismo come l'iniziativa di un'unica linea di iniziativa contro l'imbarbarimento della vita civile, contro le posizioni nulliste e le blaterazioni giustificazioniste, sarebbe un secondo, pericoloso errore. Il messaggio dei rapitori, sbrigativamente liquidato come semplice testimonianza di una miseria intellettuale e morale infinita (Dio solo sa se non è anche questa), appare come arbitraria semplificazione sociologica del concetto economico, politico e filosofico determinante per la nostra epoca: la lotta delle classi. Forse quel messaggio, come dice De Mauro, è tradotto dal francese, o scritto da un uomo che pensa in spagnolo, come suggerisce Arrigo Levi. Ma è vergato in italiano, sulle modulazioni di un gergo marxista impazzito, il volantino del comitato autonomo tale o tal'altro (di cui si ha diretta testimonianza in molte località) che proclama compagni i brigatisti rossi, che organizza il crumiraggio antioperaio in nome delle vittime degli omicidi bianchi. Infine sarà anche questa una semplificazione: ma non è stata derivata dal fallimento della legge Anselmi. La possibilità di un terrorismo come estrema risorsa della disperazione e dell'illusione romantica? E non si è aggiunto, più tardi, che tra la legalità illegale di uno Stato che si arroga il diritto di fare un processo e la rivoluzione garantista di una combriccola di collegiali è impossibile scegliere?

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