Da L'Unità del 03/05/1978
Editoriale
Interrogativi sulle indagini
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I giorni trascorrono, sempre più lenti e più lunghi, quel terribile 16 marzo si allontana nel tempo, siamo già a maggio, ci avviamo verso il compimento del secondo mese dal rapimento dell'on. Moro e dal massacro della sua scorta. E l'opinione pubblica comincia ad avvertire che la vicenda, così grave, così tragica, sta assumendo aspetti sempre più inquietanti. Convince sempre meno l'idea che ci troviamo di fronte soltanto a una banda di terroristi. Ci sono i “fiancheggiatori”, l'area magmatica dell'eversione e della violenza, e questo si sapeva. Ma ormai si deve pensare che c'è anche altro: collegamenti, complicità, ispiratori in zone ben più “rispettabili” e “rispettate” della realtà italiana. Perché le indagini non fanno un passo avanti? Perché invece di discutere tanto su ipotesi impraticabili che dovrebbero indurre - chissà perché - i terroristi a rilasciare Moro, al prezzo di un rovinoso cedimento dello Stato, non si comincia a mettere le mani su qualcuno? Sono domande che non si possono più ignorare. Tutti si dichiarano per la lotta contro il terrorismo. E, nonostante le oscillazioni dei socialisti, una imponente maggioranza è schierata, intorno al governo, sulla linea della fermezza. Come mai, allora, coloro che tale fermezza dovrebbero concretare con l'azione pratica sembrano come paralizzati, o quasi? E' un fatto che le indagini ristagnano. Un “covo”, è vero, è stato scoperto, ma per caso, a Roma. Altri sono emersi dalle nebbie del mistero in periferie più o meno lontane. Qualche mandato di cattura, qualche fermo o arresto. E un solo “brigatista” caduto nelle mani della polizia, e ciò perché la sua vittima ha avuto il tempo di ferirlo, prima di morire. Ma, sulla sostanza, sulla pista principale, non un solo passo avanti. Nel frattempo, però, le BR hanno continuato a sparare e ad uccidere. Hanno continuato (continuano) a lanciare bombe. Soprattutto hanno intensificato la diffusione di comunicati e lettere, infine di sole lettere a firma Aldo Moro, “con una puntualità e un'immediatezza - ha scritto con sarcasmo un commentatore - di cui da tempo i nostri servizi pubblici sono incapaci”. In questura si dice che queste lettere siano ormai parecchie decine. Non solo. Il cittadino legge nei giornali che la famiglia Moro “presumibilmente” è anche l'ultima mittente conosciuta (mittente, non destinataria) di tutte queste missive. Legge che la famiglia “ha evidentemente trovato un canale di contatto con i rapitori senza che la polizia lo scopra”. Legge, rilegge, si sente ripetere dalla radio e dalla TV i nomi degli “intimi collaboratori” del presidente della DC, a cui i cronisti, quasi con naturalezza, e pur senza dirlo, attribuiscono il ruolo di “postini”. Scopre l'esistenza di “un avvocato vestito in modo dimesso” che secondo alcuni sarebbe il “canale” di cui si servono i terroristi per inoltrare le lettere personali di Moro. E, pur nel rispetto per il dramma della famiglia del rapito, il cittadino è indotto a confrontare questo caso ad altri analoghi, non così rilevanti, certo, sul piano politico, ma non meno dolorosi, sul piano umano, come i due ultimi, quello di Giovanna Amati e di Marta Beni-Raddi. Qui, la polizia e la magistratura non sono rimaste paralizzate. Hanno anzi agito e hanno messo le mani sui delinquenti che telefonavano o che tenevano contatti per altre vie. O forse il ragionamento va rovesciato? Forse si deve concludere che, appunto perché carico di implicazioni politiche, il caso Moro rende l'arma delle indagini “scarica e inutile”, per citare le parole di un giornale che le BR hanno usato volentieri per diffondere gli scritti loro e del loro prigioniero? Noi abbiamo anche seri dubbi che per queste vie tortuose sarebbe possibile proteggere meglio la vita di Aldo Moro.
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