Da L'Unità del 07/05/1978
Mirafiori: parliamo degli “indifferenti”...
di Pier Giorgio Betti
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TORINO- Cinquanta giorni da quel tragico 16 marzo e dalla dura, fermissima risposta operaia con lo sciopero spontaneo, i reparti vuoti, i lavoratori nelle strade. Come li ha vissuti la grande fabbrica? Cosa è accaduto “dentro”? Cosa dicono e pensano i lavoratori, ora, dopo lo stillicidio di nuovi attentati, dopo queste settimane di un'attesa angosciosa che sembra non dover più finire? Insomma, veniamo al dunque: quest'area dell'indifferenza o della “comprensione” verso le brigate rosse, di cui si parla spesso, in che dimensioni persiste ancora? Si sta davvero riducendo? E' vero che la “palude” comincia a prosciugarsi? Buttiamo la domanda sul tavolo attorno al quale sono seduti alcuni compagni delle sezioni comuniste della FIAT Mirafiori, la “grande fabbrica” per antonomasia, anzi la più grande in assoluto: una sorta di città di officine nelle quali è passata e passa tutta la storia di questo trentennio, il bene e il male, il vallettismo e la ripresa operaia, il “boom” dai piedi d'argilla e la crisi, le conquiste dell'ultimo decennio e poi le manifestazioni dell'attacco terroristico, i volantini firmati BR, gli incendi firmati BR. Il compagno della “meccanica” comincia da questo dato realistico: “Ci sono punti dove non arriviamo né come sindacato né come partito, e lì le zone di neutralità ci possono essere senz'altro. Secondo me, però, sono molto ristrette, anche perché lo sforzo di recupero a un migliore orientamento è stato efficace”. Alle assemblee con le forze politiche e sindacali che si sono svolte alla “meccanica” dopo la strage di via Fani, la partecipazione è andata da un 55-60% al 70. Più alta di quella per il contratto, e comunque non si deve pensare che gli assenti siano “neutrali”: la coscienza non ha un livello uniforme. C'è chi condanna il terrorismo ma preferisce la canna da pesca alla riunione. La discussione è stata complessivamente buona, non c'è dubbio che ha aiutato a dare consapevolezza, a “far terra bruciata” attorno ai criminali. Alle “presse” - dicono i compagni di quella sezione - la partecipazione non è mai stata inferiore al 70%, la repulsa del terrorismo nettissima, gli operai hanno detto che non ci si deve piegare al ricatto, che non si può trattare con chi ammazza la gente per strada. Problemi di orientamento, però, ne sono venuti a galla. I dibattiti hanno anche mostrato che c'è chi, pur aborrendo il terrorismo, “ha una notevole confusione in testa”. Quei lavoratori che hanno insistito nel reclamare polemicamente “l'autocritica” da parte degli esponenti democristiani intervenuti alle assemblee confermano che permane una diffusa tendenza “a guardare indietro”, senza vedere invece quel che è cambiato, senza vedere l'emergenza e il significato del fatto che “la DC era nella fabbrica”. E chi ti dice: ”Ma qui si parla solo di Moro, ci si occupa solo di Moro, i problemi nostri dove stanno?”, evidentemente non ha ancora misurato tutta la gravità del pericolo, non si rende conto che “se salta la democrazia salta tutto, le conquiste dei lavoratori e la possibilità stessa di difenderle”. I compagni vogliono chiarire bene: reazioni di questo tipo - senza dimenticare che c'è in esse anche il giusto richiamo a non subire la paralisi che il terrorismo vuole imporre - non sono segni di “neutralità”, ma di “modi errati di rispondere a un problema da cui però il lavoratore si sente coinvolto e minacciato, e sul quale ragiona, sia pure sbagliando”. Da cosa dipendono queste “risposte negative”. Chi si pone il quesito deve aver presente che la realtà della fabbrica è complessa, e va vista senza miti. La crisi e le difficoltà ci sono, pesano, in qualche momento possono prendere il sopravvento su una giusta valutazione del cammino percorso in questi anni. Gli impiegati hanno offerto alcune “sorprese” di notevole rilievo. Appena è arrivata la notizia della strage - spiega un compagno della “palazzina” di Mirafiori - una grossa parte hanno immediatamente lasciato gli uffici. Ha giocato, forse, anche una componente di paura, di timore di fronte a un avvenimento di cui non si sapevano prevedere gli sviluppi? E' possibile, ma la cosa importante è stata che gli impiegati si sono poi riuniti nelle assemblee, hanno preso la parola, “si sono pronunciati su questioni rispetto alle quali erano spesso sembrati estranei”. All'assemblea col presidente del Consiglio regionale Sanlorenzo c'erano proprio tutti, anche i dirigenti, anche i “capi” e i tecnici, un fatto mai accaduto prima. In alcuni interventi dominavano confusione, qualunquismo. Qualcuno se l'è presa coi “politici” facendo di ogni erba un fascio. Qualche altro, come era avvenuto in alcune assemblee operaie, ha dichiarato pari pari la sua neutralità. “non mi vanno le BR e nemmeno lo Stato”. Ecco, cosa dicono questi “indifferenti”? Che anche questo stato è violenza, che non c'è giustizia e non si fa giustizia, che si è rubato troppo e troppo in alto.... è, insomma, il discorso di chi parte da alcune verità per giungere ad una conclusione distorta, di chi non distingue tra Stato e modo di gestirlo, chiude gli occhi dinanzi ai mutamenti che pure ci sono stati, non vede il disegno e la minaccia incombente che sono dietro la violenza terroristica. Anche qui c'è un lavoro in profondità da fare perché il malgoverno di tanti anni ha rischiato di scavare un abisso incolmabile tra masse e stato, e “non a caso le BR puntano oggi a mettere i lavoratori in disparte, a staccarli dalla politica”. Il discorso sullo Stato torna spesso, anche tra i lavoratori che neutrali non lo sono affatto. Dicono: “Noi abbiamo scioperato contro i terroristi, siamo pronti a rifarlo se dovessero tentare ancora qualcosa. La parte nostra la facciamo, ma gli altri devono fare la loro”. E allora devi spiegare che il rinnovamento dello Stato, lo Stato che funziona, la polizia efficiente, i tribunali che fanno giustizia non sono, non possono essere obiettivi degli “altri”, ma sono obiettivi della classe operaia che vuol elevarsi a classe dirigente. “Ma su questo terreno pesa ancora un ritardo storico del nostro movimento”. Del processo di Torino alle BR si è parlato molto all'inizio, si temeva che “saltasse”, poi l'attenzione è un po' caduta. Comunque il fatto che il processo vada avanti è salutato come un segno positivo, dà “credibilità” alle istituzioni dopo tante prove negative. “Sì, ma si va per le lunghe, troppo a rilento” obiettano certi lavoratori. Dopo tanti casi che hanno fatto scalpore, si teme “la solita storia all'italiana”, e si vorrebbe arrivare subito alla conclusione, a una sentenza chiara. “Ma i nomi di chi sta dietro - chiedono altri - ce li diranno?”. L'altra settimana, quando è divampato l'incendio appiccato dagli attentatori in un magazzino della Mirafiori, gli operai stavano già uscendo, era notte, sono tornati indietro, di corsa, sono andati loro a spegnere le fiamme, sobbarcandosi un pericoloso “straordinario” senza paga. E questo Primo Maggio così grandioso, coi cortei fitti di lavoratori e di striscioni contro il terrorismo, dimostra anch'esso qualcosa. Le “isole dell'indifferenza”, dunque, si vanno restringendo, ma c'è ancora molto lavoro - come dicono i compagni - per eliminarle del tutto. E occorre, per questo, “un salto di qualità del movimento”, andare al di là della vigilanza e della risposta contingente al terrorismo “per affrontare in concreto, con obiettivi precisi, i nodi del rinnovamento dello Stato”.
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