Da Famiglia cristiana del 03/03/2004
Il 16 marzo 1978 veniva rapito lo statista democristiano
Aldo Moro. Un delitto annunciato
A vent’anni dalla tragedia le ombre sono più delle luci. «Molte carte sono sparite», dice il fratello Alfredo Carlo. «È chiaro che i brigatisti vogliono nascondere qualcuno. E non uno di loro».
di Angelo Bertani
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Il 16 marzo del 1978 fu rapito Aldo Moro e uccisa la sua scorta. Ma dopo tanto tempo, cinque processi, un’infinità di centellinate rivelazioni, confessioni e memoriali, la "verità ufficiale" non convince. Chi c’era dietro le Brigate rosse?
«Sulla tragedia avvenuta vent’anni fa ci sono molte più ombre che luci», dice Alfredo Carlo Moro, per anni presidente del Tribunale dei minori di Roma, che fu molto vicino al fratello condividendone l’impegno religioso e civile. Ha sempre parlato poco, pesando le parole. Adesso rompe il silenzio, con un libro che apparirà a fine mese in edicola e libreria: Storia di un delitto annunciato. Le ombre sul caso Moro (Editori Riuniti). È una ricostruzione accurata di fatti, documenti, idee. Un invito a ricordare, a capire; e un contributo importante per riscoprire la figura dello statista, che Italo Mancini definì: «Il più pio e il più laico degli uomini politici».
Quali misteri rimangono intorno alla tragedia di vent’anni fa?
«Le ombre sono molte più delle luci. Il racconto dei brigatisti fa acqua e contrasta con i riscontri obiettivi di cui disponiamo. La ricostruzione dell’organizzazione del rapimento, del trasporto, il luogo della prigionia, le modalità dell’uccisione, l’uso dei testi di Moro, tutto è pieno di incongruenze e appare illogico».
A quali "testi" di Moro si riferisce?
«Sia alle lettere che al cosiddetto memoriale. Non c’è nessuna pagina originale, tutte solo fotocopie. Molte lettere non furono mai recapitate. Altri testi sono stati distrutti, comprese pagine del memoriale di via Montenevoso. E ho motivo di credere che siano sparite lettere anche indirizzate a me e mai pervenute. Dove sono gli originali? Qualcuno decideva che cosa fare di questi scritti, quali e in che modo censurare. I brigatisti avevano promesso di rendere pubblici tutti i testi e gli interrogatori, come sempre, ma in questo caso non è avvenuto. E troppe cose sono scomparse».
Mi par di capire che secondo lei c’è qualcuno dietro o sopra i brigatisti?
«È evidente che essi nascondono qualcosa, qualcuno. E non uno di loro perché non hanno esitato a fare il nome di Maccari, di sacrificarlo, per evitare ulteriori indagini sul quarto uomo. Anche la sparizione delle carte di Moro, contenute nelle cinque borse che aveva con sé, si spiega solo se sono finite in mano ad "altri" diversi dai brigatisti».
Ci sono però il memoriale di Morucci e le dichiarazioni di vari brigatisti, che sostengono di non essere stati eterodiretti...
«Sono fonti sospette. E poi il memoriale di Morucci matura in un modo strano. Dichiara di esser stato scritto nel 1986, ma è inviato al presidente Cossiga da un intermediario solo nel 1990. Morucci è sibillino, dice: "Posso dire che alcune parti possono essere state redatte da me, ma non ricordo di aver steso l’intero elaborato". Questo testo fa da linea guida per le successive ricostruzioni di tutti i brigatisti! Ed è strano che quando decide di parlare, Morucci non lo fa con i giudici, ma con un memoriale al presidente della Repubblica, che era stato ministro degli Interni, tramite persone "estranee" che lo frequentavano in carcere. Non per caso il brigatista Franceschini nel 1991 si domanda: "Di chi abbiamo fatto il gioco? I miei dubbi sono cominciati quando alcuni settori della Dc hanno cominciato a venire da noi brigatisti nelle carceri. Pensavamo che venissero per cercare tutti insieme di fare chiarezza. Invece no: mi rendevo conto che venivano da noi per conquistare silenzi"».
La verità offerta dai brigatisti è dunque stata inquinata o costruita a tavolino per distrarre le indagini da qualcos’altro?
«Può essere. Anche il "processo" a Moro sembra una messa in scena. Le domande sono banali, le risposte insignificanti. Né sono state usate dai brigatisti le affermazioni che potevano essere destabilizzanti, per esempio quelle sull’organizzazione Gladio o su Andreotti, allora capo del Governo. Vengono invece enfatizzate quelle su Taviani, che era fuori dai giochi».
Qual era dunque il vero obiettivo del rapimento, se la trattativa nascondeva un’altra strategia?
«Io ho sempre sperato nella trattativa, ma razionalmente pensavo che non ci fosse spazio perché lo scopo di chi ha guidato davvero tutta l’operazione era di uccidere Moro. Infatti il tema dello scambio dei prigionieri viene fuori più tardi, non immediatamente dopo il 16 marzo. E, poi, il giorno in cui si riuniva la direzione della Dc per aprire uno spiraglio Moro fu ucciso. Tuttavia penso anche che non vi fosse nulla di ignobile nel cercare una trattativa, tanto più da parte di Aldo, perché era nella sua filosofia politica la priorità della difesa della persona in ogni modo, e aveva scritto anche poco tempo prima un articolo sulla legittima difesa e lo stato di necessità».
Perché il libro si intitola Un delitto annunciato?
«Già dieci anni prima di via Fani, il 19 novembre 1967, su Il Nuovo mondo d’oggi, un settimanale di cui era editore Mino Pecorelli, legatissimo ai servizi segreti, era apparso un articolo dal titolo, "Dovevo uccidere Moro". Vi si racconta che nel 1964, all’epoca del primo Governo con i socialisti, il tenente colonnello Roberto Podestà sarebbe stato prescelto, dopo un colloquio con un ex ministro della Difesa che agiva d’accordo con altre personalità politiche, per comandare un reparto di ranger che avrebbe dovuto mettere fuori combattimento la guardia del corpo di Moro, allora presidente del Consiglio; che Moro sarebbe stato fatto prigioniero e trasferito in una località sconosciuta; che il piano prevedeva l’eliminazione del presidente Moro e una manovra per far sì che la colpa ricadesse sulla sinistra. Una coincidenza straordinaria! Nei giorni precedenti il 16 marzo Pecorelli alluse molte volte, sul suo giornale OP, alla imminente cattura e morte di Moro. Durante il sequestro lanciò vari segnali e scrisse che "il cervello direttivo che ha organizzato la cattura di Moro non ha niente a che vedere con le Brigate rosse tradizionali". Nel gennaio 1979 Pecorelli preannunciò rivelazioni. Due mesi dopo fu ucciso».
Dall’analisi degli scritti di suo fratello durante la prigionia le sembra che avesse capito la situazione in cui si trovava?
«Aveva intuito qualcosa e cercava di far filtrare dei messaggi, per quanto gli consentiva la censura dei carcerieri. Aveva notizie incerte e anche sbagliate; pensava, ad esempio, che i prigionieri fossero più d’uno. Risulta dagli scritti che nei confronti di Aldo non fu solo usata la minaccia di ucciderlo, ma anche di colpire il nipotino Luca. Leggendo i testi si capisce lo stato terribile della prigionia, ma si vede anche la grande serenità e forza d’animo di Moro, ammirata dai suoi stessi carcerieri. Dalle lettere alla famiglia (quelle che i brigatisti non vollero trasmettere) appare un uomo sereno, pieno di amore, che non chiede vendetta, che va incontro alla morte con una straordinaria forza d’animo. "Per quanto mi riguarda", scrive, "non ho previsioni né progetti ma fido in Dio che, in vicende tanto difficili, non mi ha mai abbandonato… Ho tentato tutto e ora sia fatta la volontà di Dio". E ancora: "Ho capito in questi giorni che vuol dire aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo… Mi è stato promesso che restituiranno il corpo e alcuni ricordi, speriamo che si possa. Voi state forti e pregate per me. Vorrei capire, con i miei occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo"».
Da varie parti si dice: chiudiamo con gli anni di piombo, liberiamo i terroristi. Che cosa ne pensa?
«Non sono pregiudizialmente ostile a un’amnistia perché non credo che la prigione ai colpevoli lenisca la sofferenza delle vittime o ridia ordine allo Stato. Se si vuole fare un’amnistia generale, si faccia; per tutti i reati, tutti i prigionieri che rientrano in determinate condizioni. Ma finché non sappiamo la verità non si può dire: "Il caso è chiuso, quella stagione è superata". Qualcuno lo dice per voglia di rimozione, ma non si può escludere che sia il prezzo per un silenzio, un alibi, qualcosa legato alla verità che non sappiamo».
«Sulla tragedia avvenuta vent’anni fa ci sono molte più ombre che luci», dice Alfredo Carlo Moro, per anni presidente del Tribunale dei minori di Roma, che fu molto vicino al fratello condividendone l’impegno religioso e civile. Ha sempre parlato poco, pesando le parole. Adesso rompe il silenzio, con un libro che apparirà a fine mese in edicola e libreria: Storia di un delitto annunciato. Le ombre sul caso Moro (Editori Riuniti). È una ricostruzione accurata di fatti, documenti, idee. Un invito a ricordare, a capire; e un contributo importante per riscoprire la figura dello statista, che Italo Mancini definì: «Il più pio e il più laico degli uomini politici».
Quali misteri rimangono intorno alla tragedia di vent’anni fa?
«Le ombre sono molte più delle luci. Il racconto dei brigatisti fa acqua e contrasta con i riscontri obiettivi di cui disponiamo. La ricostruzione dell’organizzazione del rapimento, del trasporto, il luogo della prigionia, le modalità dell’uccisione, l’uso dei testi di Moro, tutto è pieno di incongruenze e appare illogico».
A quali "testi" di Moro si riferisce?
«Sia alle lettere che al cosiddetto memoriale. Non c’è nessuna pagina originale, tutte solo fotocopie. Molte lettere non furono mai recapitate. Altri testi sono stati distrutti, comprese pagine del memoriale di via Montenevoso. E ho motivo di credere che siano sparite lettere anche indirizzate a me e mai pervenute. Dove sono gli originali? Qualcuno decideva che cosa fare di questi scritti, quali e in che modo censurare. I brigatisti avevano promesso di rendere pubblici tutti i testi e gli interrogatori, come sempre, ma in questo caso non è avvenuto. E troppe cose sono scomparse».
Mi par di capire che secondo lei c’è qualcuno dietro o sopra i brigatisti?
«È evidente che essi nascondono qualcosa, qualcuno. E non uno di loro perché non hanno esitato a fare il nome di Maccari, di sacrificarlo, per evitare ulteriori indagini sul quarto uomo. Anche la sparizione delle carte di Moro, contenute nelle cinque borse che aveva con sé, si spiega solo se sono finite in mano ad "altri" diversi dai brigatisti».
Ci sono però il memoriale di Morucci e le dichiarazioni di vari brigatisti, che sostengono di non essere stati eterodiretti...
«Sono fonti sospette. E poi il memoriale di Morucci matura in un modo strano. Dichiara di esser stato scritto nel 1986, ma è inviato al presidente Cossiga da un intermediario solo nel 1990. Morucci è sibillino, dice: "Posso dire che alcune parti possono essere state redatte da me, ma non ricordo di aver steso l’intero elaborato". Questo testo fa da linea guida per le successive ricostruzioni di tutti i brigatisti! Ed è strano che quando decide di parlare, Morucci non lo fa con i giudici, ma con un memoriale al presidente della Repubblica, che era stato ministro degli Interni, tramite persone "estranee" che lo frequentavano in carcere. Non per caso il brigatista Franceschini nel 1991 si domanda: "Di chi abbiamo fatto il gioco? I miei dubbi sono cominciati quando alcuni settori della Dc hanno cominciato a venire da noi brigatisti nelle carceri. Pensavamo che venissero per cercare tutti insieme di fare chiarezza. Invece no: mi rendevo conto che venivano da noi per conquistare silenzi"».
La verità offerta dai brigatisti è dunque stata inquinata o costruita a tavolino per distrarre le indagini da qualcos’altro?
«Può essere. Anche il "processo" a Moro sembra una messa in scena. Le domande sono banali, le risposte insignificanti. Né sono state usate dai brigatisti le affermazioni che potevano essere destabilizzanti, per esempio quelle sull’organizzazione Gladio o su Andreotti, allora capo del Governo. Vengono invece enfatizzate quelle su Taviani, che era fuori dai giochi».
Qual era dunque il vero obiettivo del rapimento, se la trattativa nascondeva un’altra strategia?
«Io ho sempre sperato nella trattativa, ma razionalmente pensavo che non ci fosse spazio perché lo scopo di chi ha guidato davvero tutta l’operazione era di uccidere Moro. Infatti il tema dello scambio dei prigionieri viene fuori più tardi, non immediatamente dopo il 16 marzo. E, poi, il giorno in cui si riuniva la direzione della Dc per aprire uno spiraglio Moro fu ucciso. Tuttavia penso anche che non vi fosse nulla di ignobile nel cercare una trattativa, tanto più da parte di Aldo, perché era nella sua filosofia politica la priorità della difesa della persona in ogni modo, e aveva scritto anche poco tempo prima un articolo sulla legittima difesa e lo stato di necessità».
Perché il libro si intitola Un delitto annunciato?
«Già dieci anni prima di via Fani, il 19 novembre 1967, su Il Nuovo mondo d’oggi, un settimanale di cui era editore Mino Pecorelli, legatissimo ai servizi segreti, era apparso un articolo dal titolo, "Dovevo uccidere Moro". Vi si racconta che nel 1964, all’epoca del primo Governo con i socialisti, il tenente colonnello Roberto Podestà sarebbe stato prescelto, dopo un colloquio con un ex ministro della Difesa che agiva d’accordo con altre personalità politiche, per comandare un reparto di ranger che avrebbe dovuto mettere fuori combattimento la guardia del corpo di Moro, allora presidente del Consiglio; che Moro sarebbe stato fatto prigioniero e trasferito in una località sconosciuta; che il piano prevedeva l’eliminazione del presidente Moro e una manovra per far sì che la colpa ricadesse sulla sinistra. Una coincidenza straordinaria! Nei giorni precedenti il 16 marzo Pecorelli alluse molte volte, sul suo giornale OP, alla imminente cattura e morte di Moro. Durante il sequestro lanciò vari segnali e scrisse che "il cervello direttivo che ha organizzato la cattura di Moro non ha niente a che vedere con le Brigate rosse tradizionali". Nel gennaio 1979 Pecorelli preannunciò rivelazioni. Due mesi dopo fu ucciso».
Dall’analisi degli scritti di suo fratello durante la prigionia le sembra che avesse capito la situazione in cui si trovava?
«Aveva intuito qualcosa e cercava di far filtrare dei messaggi, per quanto gli consentiva la censura dei carcerieri. Aveva notizie incerte e anche sbagliate; pensava, ad esempio, che i prigionieri fossero più d’uno. Risulta dagli scritti che nei confronti di Aldo non fu solo usata la minaccia di ucciderlo, ma anche di colpire il nipotino Luca. Leggendo i testi si capisce lo stato terribile della prigionia, ma si vede anche la grande serenità e forza d’animo di Moro, ammirata dai suoi stessi carcerieri. Dalle lettere alla famiglia (quelle che i brigatisti non vollero trasmettere) appare un uomo sereno, pieno di amore, che non chiede vendetta, che va incontro alla morte con una straordinaria forza d’animo. "Per quanto mi riguarda", scrive, "non ho previsioni né progetti ma fido in Dio che, in vicende tanto difficili, non mi ha mai abbandonato… Ho tentato tutto e ora sia fatta la volontà di Dio". E ancora: "Ho capito in questi giorni che vuol dire aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo… Mi è stato promesso che restituiranno il corpo e alcuni ricordi, speriamo che si possa. Voi state forti e pregate per me. Vorrei capire, con i miei occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo"».
Da varie parti si dice: chiudiamo con gli anni di piombo, liberiamo i terroristi. Che cosa ne pensa?
«Non sono pregiudizialmente ostile a un’amnistia perché non credo che la prigione ai colpevoli lenisca la sofferenza delle vittime o ridia ordine allo Stato. Se si vuole fare un’amnistia generale, si faccia; per tutti i reati, tutti i prigionieri che rientrano in determinate condizioni. Ma finché non sappiamo la verità non si può dire: "Il caso è chiuso, quella stagione è superata". Qualcuno lo dice per voglia di rimozione, ma non si può escludere che sia il prezzo per un silenzio, un alibi, qualcosa legato alla verità che non sappiamo».
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