Da Famiglia cristiana del 03/03/1998
Il figlio di Moro chiede una riflessione da parte della società e della politica
Abbandonato ancora oggi.
«Vorrei che si cercasse finalmente la verità storica sulla morte di mio padre», dice Giovanni. «Lui non fu preso per caso, ma a causa della politica che aveva condotto nei vent’anni precedenti».
di Angelo Bertani
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Delitto di abbandono. Così lo ha chiamato Carlo Bo. Certo, pensava ai terribili giorni in cui Aldo Moro fu lasciato – per incertezza, incapacità o peggio – nelle mani dei suoi rapitori e assassini. Ma pensava ancor più a quello che è accaduto poi. Abbandonata la sua linea politica, dimenticata la lezione morale e culturale, rimossa la memoria. Ci si è persino rassegnati a tenere per buona la verità raccontata dai brigatisti, benché piena di contraddizioni. Qualcuno per stanchezza, altri per cinismo o convenienza, quasi tutti hanno cercato di voltare pagina, di dichiarare chiusi gli anni di piombo. Dimenticare quella tragedia, rinunciare a sapere, a capire. Questo è il vero abbandono: dell’uomo, ma anche e soprattutto della sua eredità ideale. E difatti non è facile trovare, tra i giovani che si affacciano sul 2000, qualcuno che sappia qualcosa di Moro. Lo considerano un protagonista tra gli altri del cinquantennio democristiano, senza sospettare quanto fosse diverso, e contrastato. C’è ancora l’eco delle campagne di stampa contro di lui, con l’accusa di essere volutamente oscuro, incomprensibile. Pochi leggono i suoi scritti, che sono invece lucidi, pacati e profetici.
Qualche bagliore per capire viene rileggendo la preghiera di Paolo VI in San Giovanni, poche settimane prima di morire lui stesso, forse di crepacuore:
«Tu, o Dio della vita e della morte, non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di quest’uomo buono, mite, saggio, innocente e amico... E intanto, o Signore, fa che il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a quest’uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta nazione italiana».
Meno conosciuta è la preghiera della signora Eleonora Moro, il 16 maggio 1978, nella chiesa di Cristo Re: «Per i mandanti, gli esecutori e i fiancheggiatori di questo orribile delitto…, per quelli che per gelosia, per viltà, per paura o per stupidità hanno ratificato la condanna a morte di un innocente…, per me e per i miei figli, perché il senso di disperazione e di rabbia che ora proviamo si tramuti in lacrime di perdono...».
Vent’anni dopo, ascoltando il figlio Giovanni, si è colpiti dalla sua serenità e insieme dalla volontà di essere coerente all’eredità ricevuta. Giovanni Moro da vent’anni è impegnato nel volontariato e nella politica fatta "dalla parte dei cittadini" col Movimento federativo democratico, il Tribunale per i diritti del malato, la tutela dei diritti civili.
Perché in questa società non c’è nessuna voglia di capire la vita e la morte di suo padre? E lei, che cosa vorrebbe fosse fatto?
«Anzitutto vorrei che si cercasse una verità storica. Non è vero che sia stato scelto lui come qualsiasi altro, quasi per caso. Fu preso a causa della sua politica svolta nei vent’anni precedenti. Moro percepì per primo i grandi cambiamenti nella società, tutto il movimento prima e dopo il ’68. La società civile rivendicava la sua autonomia dai partiti, dallo Stato, voleva camminare su strade nuove. I giovani, gli operai, le donne si sentivano protagonisti della vita sociale, di un processo di liberazione. Mentre la classe politica se ne stava rintanata nel suo castello, Moro usciva a vedere; dialogava con tutti, andava ai convegni giovanili: non per parlare, ma per ascoltare. Si sedeva in ultima fila in silenzio… Quale altro ministro faceva così? E capisce così che la società, nel bene e nel male, è andata più avanti della politica, che bisogna cambiare il passo, trovare strumenti nuovi e idee capaci di interpretare e governare gli avvenimenti. Bisognava superare la democrazia bloccata, senza alternative, e aprire ai partiti che rappresentavano le masse popolari. E tuttavia non si illudeva molto sul futuro della Dc e del Pci, se non fossero cambiati nel profondo. Ma aveva capito che occorreva arrivare all’alternanza».
Le condizioni internazionali lo consentivano?
«Moro intuisce prima di tutti che la guerra fredda sta finendo. Come ministro degli Esteri ha svolto un ruolo importante in vari campi, e specialmente per la conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa culminata ad Helsinki. Un uomo che non credeva alla guerra fredda né agli equilibri politici e istituzionali imposti dalla guerra fredda, che lavorava per superarli nei fatti, era un pericolo per chi sulla guerra fredda aveva scommesso o costruito carriere, potere».
E dopo il ’78, che cosa è successo?
«Che il processo di transizione verso nuovi rapporti tra i partiti e tra la politica e la società civile si sono interrotti. Abbiamo avuto 15 anni di blocco della transizione. Invece che una riforma c’è stata una chiusura oligarchica delle classi dirigenti, che poi è sfociata in Tangentopoli. Quando i partiti, le classi dirigenti non trovano più il consenso nelle idee e nella società, lo trovano nei soldi... Passati vent’anni bisognerebbe almeno fare una riflessione seria, politica, su quello che è successo dopo il 1978».
Una poesia di Luzi per non dimenticare
Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui –
come negarlo? – quell’abbiosciato
sacco già di oscura carne
fuori da ogni possibile rispondenza
col suo passato
e con i suoi disegni, fuori atrocemente –
o ben dentro l’occhio
di una qualche silenziosa lungimiranza – quale?
non lascia tempo di avvistarla l
a superinseguita gibigianna.
Qualche bagliore per capire viene rileggendo la preghiera di Paolo VI in San Giovanni, poche settimane prima di morire lui stesso, forse di crepacuore:
«Tu, o Dio della vita e della morte, non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di quest’uomo buono, mite, saggio, innocente e amico... E intanto, o Signore, fa che il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a quest’uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta nazione italiana».
Meno conosciuta è la preghiera della signora Eleonora Moro, il 16 maggio 1978, nella chiesa di Cristo Re: «Per i mandanti, gli esecutori e i fiancheggiatori di questo orribile delitto…, per quelli che per gelosia, per viltà, per paura o per stupidità hanno ratificato la condanna a morte di un innocente…, per me e per i miei figli, perché il senso di disperazione e di rabbia che ora proviamo si tramuti in lacrime di perdono...».
Vent’anni dopo, ascoltando il figlio Giovanni, si è colpiti dalla sua serenità e insieme dalla volontà di essere coerente all’eredità ricevuta. Giovanni Moro da vent’anni è impegnato nel volontariato e nella politica fatta "dalla parte dei cittadini" col Movimento federativo democratico, il Tribunale per i diritti del malato, la tutela dei diritti civili.
Perché in questa società non c’è nessuna voglia di capire la vita e la morte di suo padre? E lei, che cosa vorrebbe fosse fatto?
«Anzitutto vorrei che si cercasse una verità storica. Non è vero che sia stato scelto lui come qualsiasi altro, quasi per caso. Fu preso a causa della sua politica svolta nei vent’anni precedenti. Moro percepì per primo i grandi cambiamenti nella società, tutto il movimento prima e dopo il ’68. La società civile rivendicava la sua autonomia dai partiti, dallo Stato, voleva camminare su strade nuove. I giovani, gli operai, le donne si sentivano protagonisti della vita sociale, di un processo di liberazione. Mentre la classe politica se ne stava rintanata nel suo castello, Moro usciva a vedere; dialogava con tutti, andava ai convegni giovanili: non per parlare, ma per ascoltare. Si sedeva in ultima fila in silenzio… Quale altro ministro faceva così? E capisce così che la società, nel bene e nel male, è andata più avanti della politica, che bisogna cambiare il passo, trovare strumenti nuovi e idee capaci di interpretare e governare gli avvenimenti. Bisognava superare la democrazia bloccata, senza alternative, e aprire ai partiti che rappresentavano le masse popolari. E tuttavia non si illudeva molto sul futuro della Dc e del Pci, se non fossero cambiati nel profondo. Ma aveva capito che occorreva arrivare all’alternanza».
Le condizioni internazionali lo consentivano?
«Moro intuisce prima di tutti che la guerra fredda sta finendo. Come ministro degli Esteri ha svolto un ruolo importante in vari campi, e specialmente per la conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa culminata ad Helsinki. Un uomo che non credeva alla guerra fredda né agli equilibri politici e istituzionali imposti dalla guerra fredda, che lavorava per superarli nei fatti, era un pericolo per chi sulla guerra fredda aveva scommesso o costruito carriere, potere».
E dopo il ’78, che cosa è successo?
«Che il processo di transizione verso nuovi rapporti tra i partiti e tra la politica e la società civile si sono interrotti. Abbiamo avuto 15 anni di blocco della transizione. Invece che una riforma c’è stata una chiusura oligarchica delle classi dirigenti, che poi è sfociata in Tangentopoli. Quando i partiti, le classi dirigenti non trovano più il consenso nelle idee e nella società, lo trovano nei soldi... Passati vent’anni bisognerebbe almeno fare una riflessione seria, politica, su quello che è successo dopo il 1978».
Una poesia di Luzi per non dimenticare
Acciambellato in quella sconcia stiva,
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è lui, il capo di cinque governi,
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sottile
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vero di essa
anche spiritualmente: lui –
come negarlo? – quell’abbiosciato
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