Da La Nuova Ecologia del 11/03/2004
Originale su http://www.lanuovaecologia.it/speciale/inchieste/2958.php
SOMALIA|Dieci anni fa l'omicidio della giornalista e del suo operatore
Verità cercasi
Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin venivano assassinati. Un caso ancora aperto. Con troppi interrogativi. Un articolo di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari
di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari
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Non era una sprovveduta, Ilaria Alpi, quando fu uccisa a Mogadiscio in un agguato, insieme all’operatore Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994. Era una giornalista del Tg3, al suo settimo viaggio in Somalia per documentare gli orrori della guerra civile e l’operazione di pace dell’Onu Restore Hope. Sono passati già dieci anni da quel giorno e il caso è aperto. Da poche settimane è al lavoro un’apposita Commissione d’inchiesta della Camera dei Deputati, mentre da qualche mese anche la Commissione parlamentare sui rifiuti e le ecomafie sta cercando di approfondire il movente. Ma dalle aule dei palazzi di giustizia, fino ad ora, sono emersi soltanto brandelli di verità e molti interrogativi.
TELECAMERA SPENTA
C’è un colpevole, un giovane somalo, Hashi Omar Hassan, condannato definitivamente a 26 anni di reclusione in quanto membro del commando di sette persone che tesero l’agguato, anche se (è ormai accertato) lui non sparò. Ma chi fece fuoco? Mandato da chi? E per quale motivo? Sei anni di inchieste giornalistiche (siamo andati in Somalia, Kenya, Yemen, Inghilterra, Francia, Spagna, Svizzera nonché in tante città italiane), ci fanno ritenere che Ilaria e Miran furono uccisi per quanto avevano scoperto. Ma anche alcuni giudici se ne sono convinti. Le sentenze di primo e secondo grado riguardanti il processo contro Hashi Omar Hassan, ad esempio, hanno fatto proprio questo convincimento. Troppe tracce portano al lavoro di Ilaria e di Miran. A cominciare da quell’ultimo viaggio a Bosaso, la città affacciata sul Golfo di Aden. Là, Ilaria e Miran hanno operato dal 16 al 20 marzo 1994. E non a caso, come alcuni hanno tentato di sostenere.
Che cosa videro e con chi parlarono i due giornalisti a Bosaso? Dal materiale ritrovato (almeno tre taccuini sono spariti durante il viaggio di ritorno in Italia), è certo che nella cittadina somala la Alpi intervistò il sultano Abdullahy Moussa Bogor a proposito della flotta di pescherecci Shifco, del sequestro di una di queste navi e dei traffici tra l’Italia e la Somalia. La telecamera, spenta, venne riaccesa da Hrovatin in tempo per registrare la frase più delicata dell’intervista: «…venivano da Roma, da Brescia, da Torino, dal Regno sabaudo, a maggioranza», dice il Bogor. E la Alpi, di rimando: «Invece non crede che si sapesse che c’è questa…». Il sultano, a questo punto, accortosi che la telecamera era di nuovo in funzione, fece spegnere. Di cosa stavano parlando? Difficile credere che si trattasse del pescato: non era un argomento così delicato da interrompere la ripresa. Allora, che cos’altro? Armi? Rifiuti?
SULLA VIA DI BOSASO
A Bosaso, Ilaria intervistò anche il direttore del porto, il capo dei servizi sanitari, l’ambasciatore Dardo Scilovich (rappresentante di Unosom in città) e un esponente dell’Ong Italia Africa 70. Ma tra il materiale girato da Hrovatin in quei giorni ci fu anche un lungo filmato della strada che unisce Bosaso a Garoe: una zona, quella della Garoe-Bosaso, indicata da molti come possibile sito di interramento di rifiuti pericolosi. E proprio di recente, in un’intervista concessa al nostro giornale l’ingegner Vittorio Brofferio (capo dei lavori di costruzione di un troncone della strada Garoe-Bosaso per conto del consorzio guidato dalla Lodigiani, dal giugno '87 al dicembre '88) ha rivelato un episodio importante: un trasportatore italiano, Giancarlo Marocchino, che riforniva le imprese dei materiali necessari ai lavori, gli chiese se fosse disposto ad interrare in uno degli scavi del cantiere dei container, purché restassero sigillati. L’ingegnere rifiutò e la faccenda finì lì.
La richiesta veniva proprio da Giancarlo Marocchino, l’uomo che per primo giunse sul luogo del delitto e portò i corpi di Ilaria e Miran al Porto vecchio. Ma di tracce di un interessamento di Giancarlo Marocchino al traffico di rifiuti tossici, sono piene le carte di varie Procure della Repubblica. Prima fra tutte quella di Asti, che aveva aperto un’inchiesta, da poco conclusa con un’archiviazione. Di Bosaso ci ha parlato anche Guido Garelli, un freelance dell’intelligence, vicino – probabilmente – ai servizi segreti inglesi e americani. Ebbene, in una lettera scritta a Famiglia Cristiana dal carcere in cui si trova, Garelli ha raccontato che il 4 maggio 1994 si trovava a Nicosia, nell’isola di Cipro. Qui incontrò Ilija Fashoda, «un cittadino somalo, in possesso di passaporto yugoslavo», con il quale parlò del delitto. L’uomo gli disse: «Ero al Nord della Somalia mentre quella giornalista ficcava il naso negli affari di Bogor, il sultano di Bosaso, e immaginavo che l’avrebbero minacciata di non andare più in là di tanto. Quello che di sicuro le ha creato dei problemi è il fatto di aver “grattato” le questioni della cooperazione. Ho saputo con certezza – avrebbe continuato Fashoda – che la giornalista aveva ripreso delle scene nel Nord della Somalia, con delle lunghe carrellate sulle casse di materiale in mano alle “bande” di Bosaso: tu sai che origine avevano quelle armi, no?».
CONTAINER INSABBIATI
Altri indizi si trovano nell’articolata inchiesta della Procura di Torre Annunziata. Gli inquirenti campani ritengono che Ilaria e Miran possano esser stati uccisi per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai paesi dell’Europa orientale (ex Patto di Varsavia). Traffico d’armi, insomma, dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo. Così nel '92, nel ‘93 e anche nel ‘94, sotto gli occhi della missione Onu. Ma non solo. «Posso dire con sicurezza che in Somalia sono arrivati rifiuti tossico-nocivi di tipo industriale; tutti i riferimenti fanno capo a Bosaso», dichiarò nel 1999 un testimone attendibile agli investigatori di Asti.
E, ancora, interrogato a Torre Annunziata nel 1997, Marco Zaganelli, un veterinario che lavorava all’Università di Mogadiscio, disse: «Tra il 1987 e il 1989 ricordo che mi chiamò un amico prospettandomi un grosso affare perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellamare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenente rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un’area desertica della Somalia».
Non solo. Nelle mappe consegnateci da una fonte etiope, il tratto di mare di fronte a Bosaso è indicato come luogo di scarico di «fanghi nucleari provenienti dalla Russia»; un secondo sito di smaltimento viene individuato a Est della città somala. Infine, un inquietante appunto, a margine di quelle stesse mappe: «In nessun caso si desidera che giornalisti italiani raggiungano Bosaso. Se in questo territorio dovesse essere individuato un qualsiasi giornalista italiano gli sarebbe inflitta una pena severa».
TESTIMONI A RISCHIO
Che Ilaria Alpi stesse indagando anche su traffici di rifiuti pericolosi, durante il processo di primo grado ad Hashi, lo ha detto e ripetuto Faduma Mohamed Mamud, figlia di un ex sindaco di Mogadiscio: «Mi aveva confidato che seguiva questa pista». Lo conferma il colonnello Franco Carlini, in un’intervista concessa a Famiglia Cristiana. Carlini, che comandava il distaccamento italiano presso l’ex ambasciata di Mogadiscio, ci disse che nel loro primo colloquio, nell’estate del 1993, Ilaria Alpi gli chiese «se avevo mai sentito voci strane riguardo a traffici d’armi e di rifiuti tossici. Le risposi prendendola in giro: "Forse tu guardi troppi film". Ma lei insistette. E aggiunse: "Sei sicuro che sotto sotto la missione non nasconda qualcosa di diverso?". Insistette sui rifiuti, che antepose addirittura al traffico d’armi».
Infine, il diario del maresciallo dei Carabinieri Francesco Aloi. «Pare che (Ilaria, ndr) abbia scoperto essere in atto traffici di armi che dall’Est, passando per l’Italia attraverso un corrispondente, giungono al Nord della Somalia, distribuendosi capillarmente in tutto il Paese. Ilaria probabilmente ha scoperto uno dei canali che vengono utilizzati per il traffico delle armi e che è lo stesso che serve a società di vari paesi – tra cui l’Italia – allo smaltimento di scorie radioattive. Andando lungo la strada dei pozzi, dice, passa per i porti di Bosaso e Merka. Ilaria dice di averne le prove».
Più passa il tempo, da quel 20 marzo ’94, più è difficile arrivare alla verità. Anche perché testimoni-chiave rischiano di tacere per sempre. È già accaduto all’autista di Ilaria, Il 13 settembre 2002: Sid Ali Abdi è morto in Somalia in circostanze ancora tutte da chiarire. Oltre che testimone oculare dell’agguato, era il principale teste d’accusa contro Hashi Omar Hassan. La sua morte è l’ennesimo mistero all’interno di una vicenda quanto mai inquietante.
I tre giornalisti lavorano per Famiglia Cristiana, l'articolo pubblicato è tratto da La Nuova Ecologia di marzo
TELECAMERA SPENTA
C’è un colpevole, un giovane somalo, Hashi Omar Hassan, condannato definitivamente a 26 anni di reclusione in quanto membro del commando di sette persone che tesero l’agguato, anche se (è ormai accertato) lui non sparò. Ma chi fece fuoco? Mandato da chi? E per quale motivo? Sei anni di inchieste giornalistiche (siamo andati in Somalia, Kenya, Yemen, Inghilterra, Francia, Spagna, Svizzera nonché in tante città italiane), ci fanno ritenere che Ilaria e Miran furono uccisi per quanto avevano scoperto. Ma anche alcuni giudici se ne sono convinti. Le sentenze di primo e secondo grado riguardanti il processo contro Hashi Omar Hassan, ad esempio, hanno fatto proprio questo convincimento. Troppe tracce portano al lavoro di Ilaria e di Miran. A cominciare da quell’ultimo viaggio a Bosaso, la città affacciata sul Golfo di Aden. Là, Ilaria e Miran hanno operato dal 16 al 20 marzo 1994. E non a caso, come alcuni hanno tentato di sostenere.
Che cosa videro e con chi parlarono i due giornalisti a Bosaso? Dal materiale ritrovato (almeno tre taccuini sono spariti durante il viaggio di ritorno in Italia), è certo che nella cittadina somala la Alpi intervistò il sultano Abdullahy Moussa Bogor a proposito della flotta di pescherecci Shifco, del sequestro di una di queste navi e dei traffici tra l’Italia e la Somalia. La telecamera, spenta, venne riaccesa da Hrovatin in tempo per registrare la frase più delicata dell’intervista: «…venivano da Roma, da Brescia, da Torino, dal Regno sabaudo, a maggioranza», dice il Bogor. E la Alpi, di rimando: «Invece non crede che si sapesse che c’è questa…». Il sultano, a questo punto, accortosi che la telecamera era di nuovo in funzione, fece spegnere. Di cosa stavano parlando? Difficile credere che si trattasse del pescato: non era un argomento così delicato da interrompere la ripresa. Allora, che cos’altro? Armi? Rifiuti?
SULLA VIA DI BOSASO
A Bosaso, Ilaria intervistò anche il direttore del porto, il capo dei servizi sanitari, l’ambasciatore Dardo Scilovich (rappresentante di Unosom in città) e un esponente dell’Ong Italia Africa 70. Ma tra il materiale girato da Hrovatin in quei giorni ci fu anche un lungo filmato della strada che unisce Bosaso a Garoe: una zona, quella della Garoe-Bosaso, indicata da molti come possibile sito di interramento di rifiuti pericolosi. E proprio di recente, in un’intervista concessa al nostro giornale l’ingegner Vittorio Brofferio (capo dei lavori di costruzione di un troncone della strada Garoe-Bosaso per conto del consorzio guidato dalla Lodigiani, dal giugno '87 al dicembre '88) ha rivelato un episodio importante: un trasportatore italiano, Giancarlo Marocchino, che riforniva le imprese dei materiali necessari ai lavori, gli chiese se fosse disposto ad interrare in uno degli scavi del cantiere dei container, purché restassero sigillati. L’ingegnere rifiutò e la faccenda finì lì.
La richiesta veniva proprio da Giancarlo Marocchino, l’uomo che per primo giunse sul luogo del delitto e portò i corpi di Ilaria e Miran al Porto vecchio. Ma di tracce di un interessamento di Giancarlo Marocchino al traffico di rifiuti tossici, sono piene le carte di varie Procure della Repubblica. Prima fra tutte quella di Asti, che aveva aperto un’inchiesta, da poco conclusa con un’archiviazione. Di Bosaso ci ha parlato anche Guido Garelli, un freelance dell’intelligence, vicino – probabilmente – ai servizi segreti inglesi e americani. Ebbene, in una lettera scritta a Famiglia Cristiana dal carcere in cui si trova, Garelli ha raccontato che il 4 maggio 1994 si trovava a Nicosia, nell’isola di Cipro. Qui incontrò Ilija Fashoda, «un cittadino somalo, in possesso di passaporto yugoslavo», con il quale parlò del delitto. L’uomo gli disse: «Ero al Nord della Somalia mentre quella giornalista ficcava il naso negli affari di Bogor, il sultano di Bosaso, e immaginavo che l’avrebbero minacciata di non andare più in là di tanto. Quello che di sicuro le ha creato dei problemi è il fatto di aver “grattato” le questioni della cooperazione. Ho saputo con certezza – avrebbe continuato Fashoda – che la giornalista aveva ripreso delle scene nel Nord della Somalia, con delle lunghe carrellate sulle casse di materiale in mano alle “bande” di Bosaso: tu sai che origine avevano quelle armi, no?».
CONTAINER INSABBIATI
Altri indizi si trovano nell’articolata inchiesta della Procura di Torre Annunziata. Gli inquirenti campani ritengono che Ilaria e Miran possano esser stati uccisi per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai paesi dell’Europa orientale (ex Patto di Varsavia). Traffico d’armi, insomma, dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo. Così nel '92, nel ‘93 e anche nel ‘94, sotto gli occhi della missione Onu. Ma non solo. «Posso dire con sicurezza che in Somalia sono arrivati rifiuti tossico-nocivi di tipo industriale; tutti i riferimenti fanno capo a Bosaso», dichiarò nel 1999 un testimone attendibile agli investigatori di Asti.
E, ancora, interrogato a Torre Annunziata nel 1997, Marco Zaganelli, un veterinario che lavorava all’Università di Mogadiscio, disse: «Tra il 1987 e il 1989 ricordo che mi chiamò un amico prospettandomi un grosso affare perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellamare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenente rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un’area desertica della Somalia».
Non solo. Nelle mappe consegnateci da una fonte etiope, il tratto di mare di fronte a Bosaso è indicato come luogo di scarico di «fanghi nucleari provenienti dalla Russia»; un secondo sito di smaltimento viene individuato a Est della città somala. Infine, un inquietante appunto, a margine di quelle stesse mappe: «In nessun caso si desidera che giornalisti italiani raggiungano Bosaso. Se in questo territorio dovesse essere individuato un qualsiasi giornalista italiano gli sarebbe inflitta una pena severa».
TESTIMONI A RISCHIO
Che Ilaria Alpi stesse indagando anche su traffici di rifiuti pericolosi, durante il processo di primo grado ad Hashi, lo ha detto e ripetuto Faduma Mohamed Mamud, figlia di un ex sindaco di Mogadiscio: «Mi aveva confidato che seguiva questa pista». Lo conferma il colonnello Franco Carlini, in un’intervista concessa a Famiglia Cristiana. Carlini, che comandava il distaccamento italiano presso l’ex ambasciata di Mogadiscio, ci disse che nel loro primo colloquio, nell’estate del 1993, Ilaria Alpi gli chiese «se avevo mai sentito voci strane riguardo a traffici d’armi e di rifiuti tossici. Le risposi prendendola in giro: "Forse tu guardi troppi film". Ma lei insistette. E aggiunse: "Sei sicuro che sotto sotto la missione non nasconda qualcosa di diverso?". Insistette sui rifiuti, che antepose addirittura al traffico d’armi».
Infine, il diario del maresciallo dei Carabinieri Francesco Aloi. «Pare che (Ilaria, ndr) abbia scoperto essere in atto traffici di armi che dall’Est, passando per l’Italia attraverso un corrispondente, giungono al Nord della Somalia, distribuendosi capillarmente in tutto il Paese. Ilaria probabilmente ha scoperto uno dei canali che vengono utilizzati per il traffico delle armi e che è lo stesso che serve a società di vari paesi – tra cui l’Italia – allo smaltimento di scorie radioattive. Andando lungo la strada dei pozzi, dice, passa per i porti di Bosaso e Merka. Ilaria dice di averne le prove».
Più passa il tempo, da quel 20 marzo ’94, più è difficile arrivare alla verità. Anche perché testimoni-chiave rischiano di tacere per sempre. È già accaduto all’autista di Ilaria, Il 13 settembre 2002: Sid Ali Abdi è morto in Somalia in circostanze ancora tutte da chiarire. Oltre che testimone oculare dell’agguato, era il principale teste d’accusa contro Hashi Omar Hassan. La sua morte è l’ennesimo mistero all’interno di una vicenda quanto mai inquietante.
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