Da Nigrizia del 04/02/2005

Il caso Alpi, la Commissione Parlamentare e il "Sismigate"

di Gianni Ballarini

Dall’assassinio della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin non emergono solo depistaggi e veleni. Ma anche un forte conflitto tra i nostri 007 nella gestione del caso. Tuttavia, Taormina, presidente della commissione, punta tutto su Bin Laden e sui fondamentalisti islamici. Mille verità per nessuna verità? Il generale non ha dubbi: «Siamo di fronte a un immenso gioco a scacchi». Non si spinge oltre, nemmeno a vedere pubblicato il suo nome. Ma è ottimista: «La partita si chiuderà». Appartiene a quella ristretta cerchia di persone che non ha ancora messo in garage la speranza di veder risolto il giallo dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la giornalista del Tg3 e il suo operatore uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994.

Una storia allagata da punti di domanda

Il caso è riesploso tra la fine del 2004 e l’inizio 2005, con un cantilenante sgranar di nuove piste, scoop, veleni, depistaggi, denunce alla Procura e consulenti cacciati. Una storia adulterata. Sfinita. Ma non finita. Perché qualche frammento di verità continua a riemergere dalla burrasca che ha travolto le vite dei due italiani.

Recenti inchieste giornalistiche, spolverando vecchie e nuove indagini sul traffico di rifiuti radioattivi e sul commercio delle armi, hanno aggiunto nuovi tasselli al puzzle di una Somalia anni ’80-’90, devastata dalla guerra civile e dal malaffare della cooperazione italiana.

Ma è dentro le stanze di palazzo San Macuto e in quelle di Forte Braschi che sta accadendo qualcosa di interessante. Le prime ospitano la commissione d’inchiesta sul caso Alpi. Le seconde, le carte e i segreti dei nostri servizi di intelligence. Il ruolo delle “barbe finte” Perché tra le novità che stanno crepando il muro di omertà, alzato in questi undici anni, ci sono soprattutto i borbottii di una guerra tutta interna al Sismi, il servizio segreto militare, nella “gestione” dell’affaire Alpi.

Lo rivela una fonte autorevole, Luca Rajola Pescarini, ex capo della seconda divisione del Sismi, meglio nota col vecchio nome di ufficio “R”, da cui dipendono i nostri 007 all’estero. Sentito in commissione il 12 gennaio scorso, l’ex colonnello rivela come, all’alba degli anni ’90, a Mogadiscio, c’era la presenza, indesiderata e ingombrante per lui, di uomini dell’VIII divisione del Sismi.

La divisione che si occupa di “affari”, in particolare dei contratti e delle forniture di armi all’estero.

A guidarla era l’ammiraglio Giuseppe Grignolo, uomo di fiducia del contrammiraglio Fulvio Martini, che ricoprì quell’incarico dal 1984 al 1997. Le rivelazioni di Rajola Pescarini aprono squarci nuovi. Una conferma indiretta alle sue parole potrebbe essere l’intervista rilasciata a Famiglia Cristiana, nel 1999, da Giancarlo Marocchino, il discusso imprenditore che viveva e vive in Somalia. In merito ai suoi presunti rapporti con Rajola Pescarini, disse: «L’ho visto 2-3 volte a Mogadiscio. Con lui c’era quell’ammiraglio…». Si riferiva, forse, a Grignolo?

Qualche commissario si è spinto in là, parlando, in modo improprio, di un Sismi parallelo che operava in Somalia. Le timide ammissioni di Rajola Pescarini sono la conferma, comunque, di come le nostre barbe finte si siano mosse con molta disinvoltura in quel paese. A Forte Braschi ricordano ancora quando, nel 1990, gli uffici furono invasi da giganteschi caschi di banane somale. Era il ringraziamento di Siad Barre per la fornitura di computer e programmi operativi del valore di un miliardo, che il Sismi aveva regalato ai somali su incarico di Craxi.

Certo, fa sorridere allora la posizione di chi, in questi anni, ha pensato a un ruolo marginale, nella vicenda Alpi, dei nostri 007. Il vertice del Sismi ha scritto documenti ufficiali in cui ribadiva di non essere in possesso di alcun elemento utile alla scoperta dei mandanti. Lo stesso Rajola Pescarini, in più occasioni, ha ribadito che «noi non interveniamo dopo che sono avvenuti i fatti, interveniamo prima».

La realtà è diversa: sui tavoli della commissione sono arrivate alcune informative dei servizi, nelle quali si invitava l’allora ambasciatore in Somalia, Mario Scialoja, a non esporsi con ipotesi sull’omicidio Alpi-Hrovatin. E che, comunque, sarebbe stata accreditata la tesi dell’Unosom (la forza multinazionale dell’Onu), in base alla quale il duplice assassinio sarebbe stato scaturito casualmente nell’ambito di una lotta tra bande locali. Insomma, i servizi soffiavano in quella direzione. Altro che disinteresse!

Il falso dossier

E anche tra i veleni, sparsi a piene mani in questa storia, si possono spurgare collegamenti curiosi. Fausto Bulli, faccendiere cinquantasettenne, è iscritto dal 4 gennaio scorso nel registro degli indagati della Procura di Roma. È accusato di tentata truffa ai danni della commissione Alpi. Presentato a San Macuto da un magistrato consulente della commissione stessa, Afro Maisto, Bulli millantava un dossier con verità esplosive sul Sismi. Peccato che volesse farsi pagare 5 milioni di euro per quelle rivelazioni.

Ma in quel dossier c’erano alcuni nomi interessanti. Uno in particolare: Mario Ferraro, il colonnello del Sismi, deceduto il 16 luglio 1995 nel bagno di casa, impiccato con una corda a un portasciugamano, posizionato a un metro e mezzo da terra. Un suicidio che ha lasciato perplessi molti. Il suo non è un nome qualsiasi. Tra il 1986 e il 1988, con gli uomini dell’Ufficio sicurezza, Ferraro condusse un’indagine interna al Sismi su una decina di alti ufficiali corrotti. Li incastrò intercettando (illegalmente) le telefonate in cui parlavano di forniture gonfiate e tangenti in lingotti d’oro.

L’inchiesta fu soffocata tra le mura di Forte Braschi.

In una lettera, trovata dopo la sua morte, il colonnello descrive la guerra intestina al servizio. Fa i nomi di tre «mafiosi» all’interno della struttura. Uno di questi è Rajola Pescarini. L’aspetto curioso è che, secondo Bulli, sarebbe stato proprio Ferraro a fornire informazioni alla Alpi per smascherare i nostri 007, trafficanti d’armi e di quant’altro. Tutte bufale? Solo depistaggio, il suo? Sono stati effettuati tutti i riscontri del caso?

Il giudice Maisto, che per questa vicenda ha dato le dimissioni dalla commissione, continua a ritenere che «alcune affermazioni di Bulli meritassero la prosecuzione degli accertamenti». Accertamenti che fanno affiorare un altro elemento da maneggiare con cautela: il lavoro della commissione d’inchiesta Alpi. Si sta muovendo sui binari giusti?

Roberto Di Nunzio, direttore della rivista online Reporter Associati, è stato fino al 12 gennaio consulente della commissione. Poi gli è stato chiesto di dimettersi, perché anche il suo nome era finito, per singolari percorsi giudiziari, nel faldone Bulli sul depistaggio. Il suo è un giudizio netto: «È una commissione normalizzatrice. Orientata sul nulla. Quando presentai in aula le inchieste giornalistiche dell’Espresso sul filo che lega Reggio Calabria a Mogadiscio sui traffici di rifiuti radioattivi, mi risposero che era “una cosa vecchia e senza importanza”.

"La verità è che non si vuole indagare a fondo. A gestire e a orientare i lavori è una ristretta cerchia di consulenti di serie A: solo loro possono accedere al livello più segreto delle informazioni».

La commissione monocamerale è composta da venti esponenti politici e da una ventina di consulenti. Già cinque di questi sono stati allontanati o si sono dimessi dall’insediamento, avvenuto il 21 gennaio 2004. A presiederla è stato chiamato l’avvocato Carlo Taormina, che ha voluto accanto a sé, come coordinatore, il generale Carlo Blandini. Del resto, Taormina ha sempre avuto un rapporto professionale privilegiato con le stellette. Ha difeso i militari accusati per Ustica, in particolare Stelio Nardini, capo di stato maggiore dell’aeronautica, e il generale Bruno Bompiezzi.

Suo cliente, durante Tangentopoli, anche il generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello. Niccolò Pollari, attuale responsabile del Sismi, è suo amico da vecchia data.

“Tao”, come è chiamato dagli amici il presidente, apprezza il loro lavoro. Ciò che altri, invece, non apprezzano è stato il suo tentativo di allargare troppo i cordoni della commissione. Troppi testimoni. E, soprattutto, molti atti inutili. Come, ad esempio, la richiesta al procuratore di Genova, Francesco Lalla, del fascicolo su Donato Bilancia: che legami ci siano tra il killer seriale della Liguria e l’omicidio di Mogadiscio rimane un mistero.

Il timore, espresso in modo sommesso anche dalla famiglia di Ilaria, è che, aprendo tanti fronti, spargendo responsabilità come il sale sulla pasta, alla fine Taormina sfilacci l’esile filo della verità.

La pista islamica

Ma lui è l’uomo delle svolte. Non ama le strade battute da altri. Nel caso Alpi-Hrovatin si butta a capofitto sull’ipotesi del fondamentalismo islamico. L’11 ottobre 2004 rilascia un’intervista a Il Giornale di Sardegna, nella quale afferma che Ilaria è la prima vittima del terrorismo verde. Racconta di campi di addestramento (quattro) di Bin Laden dalle parti di Bosaso e della presenza, già nel 1993, dello sceicco del terrore nel nord della Somalia. Fatti, per la verità, accertati. Bin Laden finanziò con 3 milioni di dollari l’arrivo di combattenti di al Qaeda in Somalia, provenienti dall’Afghanistan, per sostenere le battaglie dell’organizzazione al-Ittihad al-Islam.

Per Taormina lo sceicco del terrore, all’epoca, fu aiutato economicamente dagli Usa, desiderosi di costruire una classe di mujaheddin moderati da utilizzare in Afghanistan, nella campagna antirussa, e in Iran. Ma questo scenario cosa c’entra con il delitto Alpi-Hrovatin? Per l’avvocato romano, il sultano di Bosaso, Bogor, e uno dei signori della guerra, Ali Mahdi, sarebbero stati i referenti di Bin Laden. E Ilaria li aveva conosciuti. «E poi era noto l’attivismo della giornalista nel denunciare la situazione di degrado delle donne somale».

Motivi sufficienti per l’aggressione? Per Taormina sì. Poco importa che Ali Awale, alto funzionario del ministro delle comunicazioni ai tempi di Barre e amico d’infanzia di Ali Mahdi, si metta a ridere quando sente attribuire a quest’ultimo la paternità di seguace di Bin Laden: «È come sostenere che io sono bianco». Ma per l’avvocato romano quella è la strada da battere. Non senza incontrare ostacoli all’interno della sua stessa commissione.

Per Mauro Bulgarelli, capogruppo dei Verdi, «al Qaeda è una delle piste, che non esclude quella dei rifiuti e delle armi. Nessuna ipotesi è privilegiata. La verità è che non c’è ancora un’idea chiara sulle responsabilità. Di certo, se dovessi accorgermi che si vuole condurre la commissione verso tesi precostituite, ne uscirei e denuncerei il fatto». Per capirlo ha tempo fino al 30 luglio 2005, data di scadenza della commissione.

Anche se Taormina ha già fatto capire che è molto probabile una proroga fino al termine della legislatura. Solo allora sapremo se ha evitato di trasformarla in un altro cimitero delle verità.

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