Da Corriere della Sera del 11/02/2005
Trentanni nell'ombra, ora le accuse
Primavalle: l'alibi, la smentita e il processo
I nomi dei tre tirati in ballo da Lollo compaiono già nell'inchiesta come testi. Due furono «giudicati» dal gruppo dopo aver ritrattato la difesa dei compagni
di Giovanni Bianconi
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ROMA - L’intreccio delle deposizioni raccolte nei fogli ingialliti di vecchie sentenze avvenne nel giro di pochi giorni, ai primi di maggio. La «strage di Primavalle» s’era consumata da un paio di settimane, vittime i fratelli Virgilio e Stefano Mattei. Achille Lollo era in carcere, Manlio Grillo e Marino Clavo latitanti, Potere Operaio sotto accusa. Dal rifugio segreto Clavo dettò il suo alibi al settimanale L’Espresso , facendo entrare nell’indagine Diana Perrone, Paolo Gaeta e Elisabetta Lecco, gli altri tre militanti di Potop chiamati oggi in causa da Lollo, 32 anni dopo la notte del fuoco assassino, quella tra il 15 e il 16 aprile 1973.
Clavo disse che la sera del 15 era rientrato a casa intorno a mezzanotte, insieme a Paolo e Diana, con i quali divideva l’appartamento di via Segneri, vicino alla stazione Trastevere: «Tornai in macchina con loro, e questo è il mio alibi». Letto l’articolo, i magistrati chiamarono a deporre i testimoni indicati dal ricercato, e il 3 maggio Diana Perrone confermò la versione di Clavo. Tre giorni dopo, però, si presentò spontaneamente davanti al giudice istruttore e cambiò versione: «Verso la mezzanotte tornammo a casa solo io e Paolo». E Gaeta aggiunse: «Chiedemmo a Marino se voleva rincasare con noi... Rispose che sarebbe venuto a casa più tardi».
Alibi di Clavo saltato, dunque. Ma non del tutto. Perché a quel punto entrò in scena la quarta inquilina dell’appartamento «condiviso amichevolmente, e si potrebbe dire fraternamente», come scrissero i giudici nella sentenza di condanna: Elisabetta Lecco, la fidanzata dell’epoca del latitante Clavo. La quale l’8 maggio dichiarò al magistrato che Paolo e Diana erano sì rientrati da soli, ma poco dopo era tornato anche Marino: «Citofonò e Gaeta gli aprì il portone». Gaeta smentì Elisabetta al pari di Diana Perrone, che fu messa a confronto con la Lecco. Ma anche di fronte all’amica, la figlia dell’allora editore del Messaggero restò sulle sue posizioni.
E di quanto affermato dalla Lecco rivelò al giudice: «È assolutamente falso. È falso come l’alibi che io dovevo fornire alla Signoria Vostra. In proposito voglio far presente alla S.V. che ero stata invitata a fornire un alibi falso. Fu Clavo ad invitarmi a fornire una versione non veritiera dei fatti. Ciò accadde lunedì sera», cioè ventiquattro ore dopo il rogo di Primavalle. E prima che la testimonianza di un netturbino di Primavalle indirizzasse le indagini verso di lui e Lollo.
Quel netturbino si chiamava Aldo Speranza, raccontò delle «inchieste» di Lollo sulla casa dei Mattei, e disse che la sera dell’incendio tre persone si presentarono a casa sua: «Ho rivisto Achille, Marino e un altro giovane domenica verso le dieci (cioè le 22, cinque ore prima dell’attentato, ndr ). Sono venuti in casa mia senza alcun motivo, hanno preso il caffè e se ne sono andati. Uno di loro, all’uscita, ha esclamato: "Non si può parlare!". Mi sono affacciato alla finestra e ho visto che i tre si allontanavano a bordo di una 500 color bianco... L’indomani, lunedì, alle ore 6,15, mentre uscivo di casa sono venuto a conoscenza di quanto accaduto alla famiglia Mattei. Ho pensato subito che gli autori del misfatto potessero essere i tre che il giorno prima erano venuti a casa mia... Sono capoccione ma a queste cose ci arrivo!».
Per i giudici che condannarono i tre di Potere Operaio questa testimonianza portò al giudizio di colpevolezza insieme a diversi altri indizi, fra i quali i falsi alibi svelati da Gaeta e dalla Perrone. Ma questa è una storia di tanti anni dopo, di una sentenza del 1986. Prima - molto prima, all’epoca dei fatti - Potere Operaio aveva già emesso il suo verdetto: innocenti i tre imputati e colpevoli di «tradimento» i due compagni che avevano ritrattato, o quanto meno «affievolito», l’alibi di Clavo. Persone che oggi vengono tirate in ballo da Lollo con tutt’altro ruolo, rispetto a quello descritto allora.
Una vera e propria «chiamata in correità», dopo 32 anni di silenzio e una sorta di processo subìto dal gruppo di appartenenza. «Non ho mai sentito legare quei tre nomi alla partecipazione diretta all’attentato - ricorda oggi Oreste Scalzone, che di Potere Operaio era uno dei leader più attivi, dopo aver letto le nuove rivelazioni brasiliane di Achille Lollo -. Mi pare di aver sentito al più che erano anche loro tra quanti immaginavano di uscire da Potere Operaio per formare un gruppo autonomo. Certo, per costume che allora era perfino banale non andavo investigando sulle responsabilità penali dei compagni; ebbi solo il riflesso condizionato di piombare da Milano a Roma e chiedere chi dovevamo aiutare a scappare, colpevoli o innocenti che fossero».
Quando ci fu la ritrattazione dell’alibi da parte di Gaeta e Perrone, però, si pose il problema della «incompatibilità» col gruppo. «Conoscevo bene Paolo Gaeta - dice Scalzone -, fratello minore di Raffaele, uno dei miei primi e più cari compagni nel Comitato di base di Lettere, figlio di un noto avvocato; Diana Perrone, figlia dell’editore del Messaggero , l’avevo in testa come una delle fanciulle in fiore di Potere Operaio romano. Si diceva che s’erano offerti spontaneamente come testimoni a difesa, ma in pochi giorni tutto cambiò. E il gruppo visse lo scandalo di un ridimensionamento dell’alibi offerto, che fu usato come una ritrattazione, e questa come indizio psicologico di falsità.
Il ripensamento era stato provocato dalla pressione molto forte da parte di una famiglia potente, i Perrone appunto, subita da questi ragazzi; terrorismo psicologico, si diceva. Con la conseguenza di permettere di rovesciare una testimonianza a difesa ritirata in elemento d’accusa». Fu allora che dentro Potere Operaio scattò il «processo»: «Piuttosto uno psicodramma. Se non vuoi immischiarti non dire niente, ma se fornisci un alibi, vero o costruito che sia, non puoi cambiare versione. Ci sembrava un’etica minima, rinunciarvi era incompatibile con la militanza nel gruppo».
A sancire l’espulsione, «anche se quel termine non fu mai usato», fu un’assemblea che si svolse presso la sede della sezione di Centocelle del gruppo. «Ricordo una sorta di appassionatissima arringa difensiva svolta da Ottavio Gaeta, fratello di Paolo, che ne descrisse l’abnegazione e il coraggio di compagno sempre impegnato nei picchetti, il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene, quello in prima fila negli scontri. E ricordo la faccia triste di Luigi Rosati (un altro dei leader dell’epoca, poi rifugiatosi in Francia, ndr ), cugino dei Gaeta, che nonostante l’affetto votò a favore dell’allontanamento di Paolo e della Perrone. E ricordo le mie parole di conclusione, e la sofferenza nel dire che non potevamo fare altrimenti. Perché chi si schierava con il padrone, in quel caso il padrone del Messaggero che nella nostra ricostruzione aveva esercitato le pressioni sui due, era responsabile di un cedimento non compatibile con la militanza in Potere Operaio». Da Parigi, rivela Scalzone, nei lunghi anni di latitanza sono passati un po’ tutti, Clavo, Grillo e Lollo, «ma nessuno ha mai accennato al coinvolgimento loro e men che mai degli altri tre compagni. Ho letto con turbamento la memorialistica di Lollo. Non so se le sue parole rispondano a verità, ma se le cose dovessero essere andate come lui le racconta si sarebbe applicato perfino da parte nostra un doppiopesismo classista tra borgatari e borghesi tale da averne vergogna».
Clavo disse che la sera del 15 era rientrato a casa intorno a mezzanotte, insieme a Paolo e Diana, con i quali divideva l’appartamento di via Segneri, vicino alla stazione Trastevere: «Tornai in macchina con loro, e questo è il mio alibi». Letto l’articolo, i magistrati chiamarono a deporre i testimoni indicati dal ricercato, e il 3 maggio Diana Perrone confermò la versione di Clavo. Tre giorni dopo, però, si presentò spontaneamente davanti al giudice istruttore e cambiò versione: «Verso la mezzanotte tornammo a casa solo io e Paolo». E Gaeta aggiunse: «Chiedemmo a Marino se voleva rincasare con noi... Rispose che sarebbe venuto a casa più tardi».
Alibi di Clavo saltato, dunque. Ma non del tutto. Perché a quel punto entrò in scena la quarta inquilina dell’appartamento «condiviso amichevolmente, e si potrebbe dire fraternamente», come scrissero i giudici nella sentenza di condanna: Elisabetta Lecco, la fidanzata dell’epoca del latitante Clavo. La quale l’8 maggio dichiarò al magistrato che Paolo e Diana erano sì rientrati da soli, ma poco dopo era tornato anche Marino: «Citofonò e Gaeta gli aprì il portone». Gaeta smentì Elisabetta al pari di Diana Perrone, che fu messa a confronto con la Lecco. Ma anche di fronte all’amica, la figlia dell’allora editore del Messaggero restò sulle sue posizioni.
E di quanto affermato dalla Lecco rivelò al giudice: «È assolutamente falso. È falso come l’alibi che io dovevo fornire alla Signoria Vostra. In proposito voglio far presente alla S.V. che ero stata invitata a fornire un alibi falso. Fu Clavo ad invitarmi a fornire una versione non veritiera dei fatti. Ciò accadde lunedì sera», cioè ventiquattro ore dopo il rogo di Primavalle. E prima che la testimonianza di un netturbino di Primavalle indirizzasse le indagini verso di lui e Lollo.
Quel netturbino si chiamava Aldo Speranza, raccontò delle «inchieste» di Lollo sulla casa dei Mattei, e disse che la sera dell’incendio tre persone si presentarono a casa sua: «Ho rivisto Achille, Marino e un altro giovane domenica verso le dieci (cioè le 22, cinque ore prima dell’attentato, ndr ). Sono venuti in casa mia senza alcun motivo, hanno preso il caffè e se ne sono andati. Uno di loro, all’uscita, ha esclamato: "Non si può parlare!". Mi sono affacciato alla finestra e ho visto che i tre si allontanavano a bordo di una 500 color bianco... L’indomani, lunedì, alle ore 6,15, mentre uscivo di casa sono venuto a conoscenza di quanto accaduto alla famiglia Mattei. Ho pensato subito che gli autori del misfatto potessero essere i tre che il giorno prima erano venuti a casa mia... Sono capoccione ma a queste cose ci arrivo!».
Per i giudici che condannarono i tre di Potere Operaio questa testimonianza portò al giudizio di colpevolezza insieme a diversi altri indizi, fra i quali i falsi alibi svelati da Gaeta e dalla Perrone. Ma questa è una storia di tanti anni dopo, di una sentenza del 1986. Prima - molto prima, all’epoca dei fatti - Potere Operaio aveva già emesso il suo verdetto: innocenti i tre imputati e colpevoli di «tradimento» i due compagni che avevano ritrattato, o quanto meno «affievolito», l’alibi di Clavo. Persone che oggi vengono tirate in ballo da Lollo con tutt’altro ruolo, rispetto a quello descritto allora.
Una vera e propria «chiamata in correità», dopo 32 anni di silenzio e una sorta di processo subìto dal gruppo di appartenenza. «Non ho mai sentito legare quei tre nomi alla partecipazione diretta all’attentato - ricorda oggi Oreste Scalzone, che di Potere Operaio era uno dei leader più attivi, dopo aver letto le nuove rivelazioni brasiliane di Achille Lollo -. Mi pare di aver sentito al più che erano anche loro tra quanti immaginavano di uscire da Potere Operaio per formare un gruppo autonomo. Certo, per costume che allora era perfino banale non andavo investigando sulle responsabilità penali dei compagni; ebbi solo il riflesso condizionato di piombare da Milano a Roma e chiedere chi dovevamo aiutare a scappare, colpevoli o innocenti che fossero».
Quando ci fu la ritrattazione dell’alibi da parte di Gaeta e Perrone, però, si pose il problema della «incompatibilità» col gruppo. «Conoscevo bene Paolo Gaeta - dice Scalzone -, fratello minore di Raffaele, uno dei miei primi e più cari compagni nel Comitato di base di Lettere, figlio di un noto avvocato; Diana Perrone, figlia dell’editore del Messaggero , l’avevo in testa come una delle fanciulle in fiore di Potere Operaio romano. Si diceva che s’erano offerti spontaneamente come testimoni a difesa, ma in pochi giorni tutto cambiò. E il gruppo visse lo scandalo di un ridimensionamento dell’alibi offerto, che fu usato come una ritrattazione, e questa come indizio psicologico di falsità.
Il ripensamento era stato provocato dalla pressione molto forte da parte di una famiglia potente, i Perrone appunto, subita da questi ragazzi; terrorismo psicologico, si diceva. Con la conseguenza di permettere di rovesciare una testimonianza a difesa ritirata in elemento d’accusa». Fu allora che dentro Potere Operaio scattò il «processo»: «Piuttosto uno psicodramma. Se non vuoi immischiarti non dire niente, ma se fornisci un alibi, vero o costruito che sia, non puoi cambiare versione. Ci sembrava un’etica minima, rinunciarvi era incompatibile con la militanza nel gruppo».
A sancire l’espulsione, «anche se quel termine non fu mai usato», fu un’assemblea che si svolse presso la sede della sezione di Centocelle del gruppo. «Ricordo una sorta di appassionatissima arringa difensiva svolta da Ottavio Gaeta, fratello di Paolo, che ne descrisse l’abnegazione e il coraggio di compagno sempre impegnato nei picchetti, il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene, quello in prima fila negli scontri. E ricordo la faccia triste di Luigi Rosati (un altro dei leader dell’epoca, poi rifugiatosi in Francia, ndr ), cugino dei Gaeta, che nonostante l’affetto votò a favore dell’allontanamento di Paolo e della Perrone. E ricordo le mie parole di conclusione, e la sofferenza nel dire che non potevamo fare altrimenti. Perché chi si schierava con il padrone, in quel caso il padrone del Messaggero che nella nostra ricostruzione aveva esercitato le pressioni sui due, era responsabile di un cedimento non compatibile con la militanza in Potere Operaio». Da Parigi, rivela Scalzone, nei lunghi anni di latitanza sono passati un po’ tutti, Clavo, Grillo e Lollo, «ma nessuno ha mai accennato al coinvolgimento loro e men che mai degli altri tre compagni. Ho letto con turbamento la memorialistica di Lollo. Non so se le sue parole rispondano a verità, ma se le cose dovessero essere andate come lui le racconta si sarebbe applicato perfino da parte nostra un doppiopesismo classista tra borgatari e borghesi tale da averne vergogna».
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