Da La Repubblica del 19/02/2005
Sott´accusa per non aver perquisito il covo del boss. Proteste dei politici. Fini: è uno scandalo
Riina, a processo Mori e Ultimo
di Antonio Bolzoni
Quella mattina non ci furono testimoni oculari a Palermo. Si sapeva solo che avevano catturato un uomo ricercato da 24 anni, 7 mesi, 21 giorni. Di quello che avvenne alle 8 e 27 intorno a una borgata disse sbrigativamente qualcosa il generale Mario Mori a Gian Carlo Caselli appena arrivato in Sicilia, procuratore capo da nemmeno 15 minuti. Totò Riina era già chiuso in una caserma dei carabinieri, fuori le palme sbattute dal vento sfioravano i tetti del Parlamento siciliano, dentro un mafioso di Corleone era inchiodato in fondo a una stanza sotto la parete dove campeggiava la foto di Dalla Chiesa.
L´abbiamo preso», sussurrò Mori. Il resto fu tutto un mistero. E mistero è ancora oggi, l´arresto del padrino più violento che abbia mai avuto la Cosa nostra siciliana. Nessuno lo vide mai a pancia in giù, con una coperta di lana grezza che gli graffiava la faccia e la canna di una pistola puntata alla gola. Nessuno sentì gridare, nessuno si accorse di nulla su quella strada circondata dai palazzi e attraversata a quell´ora da migliaia di automobili. Fu una cattura molto silenziosa.
E ancora più silenzio ci fu dopo, dopo 19 giorni e 19 notti, quando il procuratore Caselli scoprì che qualcuno era entrato nella villa rifugio di Totò Riina e l´aveva ripulito con un aspirapolvere, che aveva cancellato impronte digitali, che aveva divelto i sanitari del bagno e ridipinto i muri, che aveva accatastato i mobili al centro di un grande salone. E si era portato via due casseforti piene di documenti. È andata così nella villa del capo dei capi che il generale Mori e il capitano "Ultimo" dovevano sorvegliare e non hanno sorvegliato, pur assicurando «un controllo assoluto» ai magistrati.
I carabinieri del Ros che arrestarono Totò Riina abbandonarono la postazione nascondendo al procuratore Caselli che se n´erano andati, che avevano lasciato libera una squadretta di mafiosi di infilarsi là dentro e svuotare il covo del boss dei boss.
Questa è una vicenda molto italiana, Leonardo Sciascia l´avrebbe chiamata una "storia semplice", mezze verità che si mischiano a mezze menzogne, inconfessabili moventi mafiosi e forse anche istituzionali, le dinamiche della vecchia nuova mafia di Corleone applicate sul campo: far fuori un capo scomodo come Totò Riina consegnandolo ai reparti speciali dell´Arma, mettere fuori gioco il mafioso che stava portando alla rovina Cosa nostra con la sua politica terroristica e nello stesso tempo favorire l´ascesa del più «ragionevole» Bernardo Provenzano. Ma se queste restano ipotesi - anche se nei documenti dei magistrati palermitani si fa cenno a una «trattativa» tra il clan di Corleone e apparati dello Stato - quello che è sicuramente accaduto a Palermo intorno al "covo di Riina" getta ombre sulla stagione antimafia seguita alle stragi del ´92, Falcone e Borsellino, proprio i grandi nemici di Totò Riina conosciuto come "Il Corto".
Sono in fila i fatti su quella mancata perquisizione, fatti ricostruiti in un "diario" tenuto in quei primi giorni del 1993 dal procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Aliquò, allora in contatto quotidiano con il capo del Ros e con "Ultimo", il capitano che è diventato eroe delle fiction per avere preso Totò Riina.
I passi più significativi del "diario" di Aliquò. Giorno 15 gennaio 1993: «Durante un incontro con i magistrati, immediatamente dopo l´arresto di Riina, i vertici dell´Arma (presente Mario Mori) garantivano "controllo assoluto e costante"...». Giorno 27 gennaio, dodici giorni dopo la cattura: «Nel corso di una riunione con i vertici del Ros, seppur la procura sollecitasse l´effettuazione di una perquisizione nella villa di via Bernini, l´allora colonnello Mori "sembra non avere urgenza e dice che l´osservazione del complesso di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione"».
Il covo quel giorno era ancora sorvegliato, secondo Mori. Ma 72 ore dopo, il 30 gennaio, i procuratori di Palermo vengono a sapere che il controllo «assoluto e costante» si era esaurito nel primissimo pomeriggio del 15 gennaio, qualche ora dopo l´arresto del "Corto". Come si giustificò il generale? «Ci siamo capiti male», rispose dopo che Caselli inviò una lettera al comandante dell´Arma.
Da quel momento prese inizio l´"affaire della villa", si aprirono tardivamente indagini "contro ignoti", ufficiali dei carabinieri sottoposti a confronti all´americana, denunce, controdenunce, querele, manovre, sospetti. Fuori tempo massimo è arrivato il rinvio a giudizio. Fuori tempo massimo è anche quel fastidioso coro pro o contro il generale partito da personaggi che poco o nulla sanno di come vanno certe cose in Sicilia, in quella Sicilia della mafia che faceva stragi. «Tutti si disperavano nell´Italia del 1992 e tutti erano atterriti per quello che stava succedendo, ma qualcuno doveva pur mettere le mani nella merda per cercare almeno di capire», andava ripetendo il generale Mori in quella stagione terribile.
Qualcuno entrò in contatto con quel mondo di mafia e qualcun altro probabilmente si liberò di quel «terrorista» di Riina. Non sarà stato sicuramente il generale Mori. Ma una "trattativa" per la pace ci fu, in Sicilia. A meno che qualcuno voglia farci credere che tra la mafia e lo Stato italiano non vi siano mai stati patti e ricatti. Ecco perché sarebbe stato quasi meglio mettere la "ragion di Stato", su questa sporca storia del covo di Totò Riina.
L´abbiamo preso», sussurrò Mori. Il resto fu tutto un mistero. E mistero è ancora oggi, l´arresto del padrino più violento che abbia mai avuto la Cosa nostra siciliana. Nessuno lo vide mai a pancia in giù, con una coperta di lana grezza che gli graffiava la faccia e la canna di una pistola puntata alla gola. Nessuno sentì gridare, nessuno si accorse di nulla su quella strada circondata dai palazzi e attraversata a quell´ora da migliaia di automobili. Fu una cattura molto silenziosa.
E ancora più silenzio ci fu dopo, dopo 19 giorni e 19 notti, quando il procuratore Caselli scoprì che qualcuno era entrato nella villa rifugio di Totò Riina e l´aveva ripulito con un aspirapolvere, che aveva cancellato impronte digitali, che aveva divelto i sanitari del bagno e ridipinto i muri, che aveva accatastato i mobili al centro di un grande salone. E si era portato via due casseforti piene di documenti. È andata così nella villa del capo dei capi che il generale Mori e il capitano "Ultimo" dovevano sorvegliare e non hanno sorvegliato, pur assicurando «un controllo assoluto» ai magistrati.
I carabinieri del Ros che arrestarono Totò Riina abbandonarono la postazione nascondendo al procuratore Caselli che se n´erano andati, che avevano lasciato libera una squadretta di mafiosi di infilarsi là dentro e svuotare il covo del boss dei boss.
Questa è una vicenda molto italiana, Leonardo Sciascia l´avrebbe chiamata una "storia semplice", mezze verità che si mischiano a mezze menzogne, inconfessabili moventi mafiosi e forse anche istituzionali, le dinamiche della vecchia nuova mafia di Corleone applicate sul campo: far fuori un capo scomodo come Totò Riina consegnandolo ai reparti speciali dell´Arma, mettere fuori gioco il mafioso che stava portando alla rovina Cosa nostra con la sua politica terroristica e nello stesso tempo favorire l´ascesa del più «ragionevole» Bernardo Provenzano. Ma se queste restano ipotesi - anche se nei documenti dei magistrati palermitani si fa cenno a una «trattativa» tra il clan di Corleone e apparati dello Stato - quello che è sicuramente accaduto a Palermo intorno al "covo di Riina" getta ombre sulla stagione antimafia seguita alle stragi del ´92, Falcone e Borsellino, proprio i grandi nemici di Totò Riina conosciuto come "Il Corto".
Sono in fila i fatti su quella mancata perquisizione, fatti ricostruiti in un "diario" tenuto in quei primi giorni del 1993 dal procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Aliquò, allora in contatto quotidiano con il capo del Ros e con "Ultimo", il capitano che è diventato eroe delle fiction per avere preso Totò Riina.
I passi più significativi del "diario" di Aliquò. Giorno 15 gennaio 1993: «Durante un incontro con i magistrati, immediatamente dopo l´arresto di Riina, i vertici dell´Arma (presente Mario Mori) garantivano "controllo assoluto e costante"...». Giorno 27 gennaio, dodici giorni dopo la cattura: «Nel corso di una riunione con i vertici del Ros, seppur la procura sollecitasse l´effettuazione di una perquisizione nella villa di via Bernini, l´allora colonnello Mori "sembra non avere urgenza e dice che l´osservazione del complesso di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione"».
Il covo quel giorno era ancora sorvegliato, secondo Mori. Ma 72 ore dopo, il 30 gennaio, i procuratori di Palermo vengono a sapere che il controllo «assoluto e costante» si era esaurito nel primissimo pomeriggio del 15 gennaio, qualche ora dopo l´arresto del "Corto". Come si giustificò il generale? «Ci siamo capiti male», rispose dopo che Caselli inviò una lettera al comandante dell´Arma.
Da quel momento prese inizio l´"affaire della villa", si aprirono tardivamente indagini "contro ignoti", ufficiali dei carabinieri sottoposti a confronti all´americana, denunce, controdenunce, querele, manovre, sospetti. Fuori tempo massimo è arrivato il rinvio a giudizio. Fuori tempo massimo è anche quel fastidioso coro pro o contro il generale partito da personaggi che poco o nulla sanno di come vanno certe cose in Sicilia, in quella Sicilia della mafia che faceva stragi. «Tutti si disperavano nell´Italia del 1992 e tutti erano atterriti per quello che stava succedendo, ma qualcuno doveva pur mettere le mani nella merda per cercare almeno di capire», andava ripetendo il generale Mori in quella stagione terribile.
Qualcuno entrò in contatto con quel mondo di mafia e qualcun altro probabilmente si liberò di quel «terrorista» di Riina. Non sarà stato sicuramente il generale Mori. Ma una "trattativa" per la pace ci fu, in Sicilia. A meno che qualcuno voglia farci credere che tra la mafia e lo Stato italiano non vi siano mai stati patti e ricatti. Ecco perché sarebbe stato quasi meglio mettere la "ragion di Stato", su questa sporca storia del covo di Totò Riina.
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