Da Corriere della Sera del 19/02/2005
La ricostruzione
Il trionfo, poi i sospetti
Quelle due settimane di luci e ombre
di Giovanni Bianconi
ROMA - Doveva essere un giorno trionfale, quello di 12 anni fa, 15 gennaio 1993. E trionfale fu. Totò Riina, il «capo dei capi» di Cosa Nostra in manette dopo trent’anni di latitanza; il riscatto dello Stato sei mesi dopo le stragi del ’92, nel giorno in cui il nuovo procuratore Gian Carlo Caselli prendeva servizio a Palermo: allora nessuno aveva nulla da dire sul suo conto, le polemiche sarebbero cominciate dopo; lo svelamento di un nuovo pentito di mafia, Balduccio Di Maggio, che aveva riconosciuto il boss permettendo l’arresto e prometteva nuove rivelazioni: anche su di lui non c’erano i veleni che presero corpo in seguito; e poi la vittoria dell’Arma, il mito del capitano Ultimo che sarebbe diventato addirittura un film e la conferma dell’abilità di un comandante, il colonnello Mario Mori, cresciuto alla scuola del generale Dalla Chiesa.
Ci fu un pranzo alla caserma dei carabinieri, per celebrare la festa seppure nella frugalità di una mensa militare. E lì cominciarono i misteri. Perché uno dei presenti, il procuratore aggiunto Aliquò, scriverà nei suoi appunti che «durante il pranzo Ultimo dice che contava di vedere chi sarebbe venuto a prelevare i familiari di Riina. Intervento di Mori (...) Garanzia di controllo assoluto e costante». Fu per questo, dissero poi i magistrati, che si decise di non perquisire la casa di via Bernini dalla quale il boss era uscito quella mattina. Perché si voleva controllarla a distanza, far credere che non era stata individuata e vedere chi entrava e chi usciva. Buona idea, dissero tutti.
Due settimane dopo, gli stessi magistrati scoprirono che lo stesso 15 gennaio gli uomini di Ultimo avevano «smontato la guardia». Cominciò un fitto carteggio tra l’imbarazzato e l’inquieto, che chiarì poco o nulla. «Un grosso equivoco nato dalla concitazione di quei giorni», dirà poi Ultimo, giacché lui non aveva alcuna intenzione di sorvegliare il covo; a lui interessava seguire un altro filo della trama mafiosa, quello della famiglia Sansone, anche perché nella casa dove il boss viveva con moglie e figli non immaginava di trovare niente di interessante per le indagini. Ad alimentare il mistero, arrivarono le dichiarazioni dei pentiti, alcuni dei quali raccontarono di essere andati non solo a prelevare la famiglia Riina per riportarla a Corleone, ma anche di aver «ripulito» l’appartamento premurandosi perfino di tinteggiare le pareti per evitare il prelievo delle impronte digitali. E poiché nel frattempo altri pentiti raccontarono di «trattative» tra Riina e lo Stato dopo le bombe del ’92, e si venne a sapere degli incontri riservati del colonnello Mori con l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino, proprio per venire a capo della latitanza del boss, misteri e sospetti sull’abbandono della casa di via Bernini continuarono a proliferare. Ne venne fuori un’inchiesta giudiziaria, e quando Mori e Ultimo vennero chiamati a testimoniare ribadirono la versione dell’equivoco. «Tutt’al più una dimenticanza, non certo un’omissione da parte nostra», specificò Mori. Con l’ovvia esclusione di «trattative» con Cosa Nostra per arrivare alla cattura di Riina.
I misteri veri e presunti entrarono anche in un libro di due giornalisti, Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, denunciati da Mori e Ultimo che consideravano diffamatori i sospetti avanzati sul loro operato. Un giudice sentì parecchi testimoni, e alla fine assolse i giornalisti scrivendo nella sentenza che gli accertamenti svolti avevano svelato «gravi anomalie che in quanto tali legittimano l’opinione critica in ordine al serio dubbio che la versione ufficiale della cattura di Riina rappresenti solo una parte della verità». A quel punto, e siamo ad oltre un decennio dai fatti, anche l’inchiesta palermitana trova due indagati per favoreggiamento, Mori e Ultimo, ma senza riuscire ad andare oltre. Nessuna certezza su quel che accadde il 15 gennaio ’93 e nei giorni seguenti, ma nemmeno sul quello che - in ipotesi - avrebbero dovuto coprire i due carabinieri inquisiti. I quali restano fermi sulla loro versione, specificando infine che le telecamere piazzate a sorvegliare il residence dove viveva Riina inquadravano solo il passo carraio del residence, non l’abitazione. Un motivo in più per non dare peso all’interruzione della sorveglianza, che però non ha convinto i magistrati. Ma ugualmente, e per due volte, la Procura - non più guidata da Caselli ma dal procuratore Grasso, che sottoscrive gli atti - chiede al giudice di archiviare l’indagine. Perché non ritiene di poter contestare l’aggravante dell’aiuto a Cosa Nostra a chi organizzò e condusse in porto l’arresto del suo capo. Non è bastato.
Durante la causa per diffamazione un magistrato chiese a Caselli se, al di là dei carteggi formali, ci fu mai un discorso di chiarezza su come andarono le cose. L’ex procuratore rispose che no, s’era rimasti fermi all’equivoco. E poi «rammarico da parte nostra e rammarico anche da parte dei carabinieri». Ora quel rammarico diventa oggetto di un processo al capo del servizio segreto civile e a uno degli ufficiali più celebrati dell’Arma. Che una mattina di dodici anni fa celebravano un trionfo dell’antimafia e oggi si ritrovano imputati di favoreggiamento alla mafia.
Ci fu un pranzo alla caserma dei carabinieri, per celebrare la festa seppure nella frugalità di una mensa militare. E lì cominciarono i misteri. Perché uno dei presenti, il procuratore aggiunto Aliquò, scriverà nei suoi appunti che «durante il pranzo Ultimo dice che contava di vedere chi sarebbe venuto a prelevare i familiari di Riina. Intervento di Mori (...) Garanzia di controllo assoluto e costante». Fu per questo, dissero poi i magistrati, che si decise di non perquisire la casa di via Bernini dalla quale il boss era uscito quella mattina. Perché si voleva controllarla a distanza, far credere che non era stata individuata e vedere chi entrava e chi usciva. Buona idea, dissero tutti.
Due settimane dopo, gli stessi magistrati scoprirono che lo stesso 15 gennaio gli uomini di Ultimo avevano «smontato la guardia». Cominciò un fitto carteggio tra l’imbarazzato e l’inquieto, che chiarì poco o nulla. «Un grosso equivoco nato dalla concitazione di quei giorni», dirà poi Ultimo, giacché lui non aveva alcuna intenzione di sorvegliare il covo; a lui interessava seguire un altro filo della trama mafiosa, quello della famiglia Sansone, anche perché nella casa dove il boss viveva con moglie e figli non immaginava di trovare niente di interessante per le indagini. Ad alimentare il mistero, arrivarono le dichiarazioni dei pentiti, alcuni dei quali raccontarono di essere andati non solo a prelevare la famiglia Riina per riportarla a Corleone, ma anche di aver «ripulito» l’appartamento premurandosi perfino di tinteggiare le pareti per evitare il prelievo delle impronte digitali. E poiché nel frattempo altri pentiti raccontarono di «trattative» tra Riina e lo Stato dopo le bombe del ’92, e si venne a sapere degli incontri riservati del colonnello Mori con l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino, proprio per venire a capo della latitanza del boss, misteri e sospetti sull’abbandono della casa di via Bernini continuarono a proliferare. Ne venne fuori un’inchiesta giudiziaria, e quando Mori e Ultimo vennero chiamati a testimoniare ribadirono la versione dell’equivoco. «Tutt’al più una dimenticanza, non certo un’omissione da parte nostra», specificò Mori. Con l’ovvia esclusione di «trattative» con Cosa Nostra per arrivare alla cattura di Riina.
I misteri veri e presunti entrarono anche in un libro di due giornalisti, Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, denunciati da Mori e Ultimo che consideravano diffamatori i sospetti avanzati sul loro operato. Un giudice sentì parecchi testimoni, e alla fine assolse i giornalisti scrivendo nella sentenza che gli accertamenti svolti avevano svelato «gravi anomalie che in quanto tali legittimano l’opinione critica in ordine al serio dubbio che la versione ufficiale della cattura di Riina rappresenti solo una parte della verità». A quel punto, e siamo ad oltre un decennio dai fatti, anche l’inchiesta palermitana trova due indagati per favoreggiamento, Mori e Ultimo, ma senza riuscire ad andare oltre. Nessuna certezza su quel che accadde il 15 gennaio ’93 e nei giorni seguenti, ma nemmeno sul quello che - in ipotesi - avrebbero dovuto coprire i due carabinieri inquisiti. I quali restano fermi sulla loro versione, specificando infine che le telecamere piazzate a sorvegliare il residence dove viveva Riina inquadravano solo il passo carraio del residence, non l’abitazione. Un motivo in più per non dare peso all’interruzione della sorveglianza, che però non ha convinto i magistrati. Ma ugualmente, e per due volte, la Procura - non più guidata da Caselli ma dal procuratore Grasso, che sottoscrive gli atti - chiede al giudice di archiviare l’indagine. Perché non ritiene di poter contestare l’aggravante dell’aiuto a Cosa Nostra a chi organizzò e condusse in porto l’arresto del suo capo. Non è bastato.
Durante la causa per diffamazione un magistrato chiese a Caselli se, al di là dei carteggi formali, ci fu mai un discorso di chiarezza su come andarono le cose. L’ex procuratore rispose che no, s’era rimasti fermi all’equivoco. E poi «rammarico da parte nostra e rammarico anche da parte dei carabinieri». Ora quel rammarico diventa oggetto di un processo al capo del servizio segreto civile e a uno degli ufficiali più celebrati dell’Arma. Che una mattina di dodici anni fa celebravano un trionfo dell’antimafia e oggi si ritrovano imputati di favoreggiamento alla mafia.
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