Da Diario del 15/02/2002
L'inchiesta vecchio stile
Mani pulite, anno zero
Perché cominciò, perché non si fermò. Dieci anni dopo, i segreti di un’inchiesta che doveva cambiare l’Italia. Mentre Tangentopoli è già ricominciata c’è un nuovo «mariuolo» a Torino, centinaia di politici inquisiti, un presidente del Consiglio sotto processo
di Gianni Barbacetto
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MILANO.
Questo testo. Mani pulite è l’inchiesta giudiziaria avviata a Milano da Antonio Di Pietro con l’arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992. Esattamente dieci anni fa. Che cosa è rimasto di quell’indagine? I materiali presentati in queste pagine sono ricavati dal libro «Mani pulite», di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio, edito da Feltrinelli, che sarà in libreria a fine mese.
Arrestato in flagrante, mentre incassava una tangente, un funzionario nel settore sanità; controllava un consistente pacchetto di tessere, messe a disposizione dei leader locali di un partito di governo: comincia così la storia di Mario Chiesa, socialista, collettore di voti per Bobo Craxi, presidente a Milano del Pio Albergo Trivulzio e imputato numero uno di Mani pulite, finito in manette il 17 febbraio 1992 per una tangente di 7 milioni. Ma comincia così, esattamente così, anche la storia di Luigi Odasso, di Forza Italia, presidente dell’ospedale torinese delle Molinette, portato in carcere il 19 dicembre 2001 per aver incassato una tangente di 15 milioni. Sono passati dieci anni dall’inizio dell’indagine giudiziaria che doveva cambiare tutto, ma accadono storie che si possono raccontare oggi con le stesse, identiche parole.
Se poi ci si guarda attorno, si trovano altre vicende, maledettamente simili a quelle che i giornali raccontavano – senza enfasi, per carità, niente titoloni in prima – tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Decine di amministratori sono sotto accusa per la gestione delle forniture sanitarie in Piemonte, Lombardia, Toscana, Campania, Calabria, Sicilia. Centinaia di sindaci, assessori e imprenditori in tutta Italia sono sotto inchiesta per come hanno trattato l’eterno business edilizio. Politici e dirigenti degli enti pubblici preposti al controllo del volo, intercettati dopo la sciagura di Linate, hanno svelato oggi le nuove spartizioni politiche e gli accordi d’affari.
E che dire della ripresa della spesa pubblica nelle grandi opere? Le due leggi per far ripartire la costruzione di strade, ponti, trafori, acquedotti, ferrovie (la legge-delega sulle infrastrutture e il provvedimento sulle grandi opere collegato alla Finanziaria 2002) permettono che progettazione, finanziamento, esecuzione e perfino gestione delle opere siano di fatto affidate – come avviene nei Paesi del Terzo mondo – a un’unica impresa (il «general contractor»): così è appiattita la dinamica di mercato, persa la trasparenza e il controllo dei costi, così sono poste le basi strutturali per un nuovo sistema di spartizione e corruzione. In un mercato come quello italiano, ancora molto protetto, quasi chiuso alla concorrenza internazionale e povero di operatori (le imprese in grado di fungere da «general contractor» sono due o tre), è prevedibile che questi, in accordo con la politica, azzerino la concorrenza, si spartiscano il mercato e creino a cascata un sistema di appalti e subappalti precostituito e lottizzato. È la promessa di una nuova Tangentopoli. E questa volta con una magistratura priva della tranquillità ambientale e degli strumenti processuali necessari per far partire una nuova Mani pulite.
Raccontare quell’inchiesta, oggi, dieci anni dopo, diventa allora qualcosa di più che un appuntamento imposto dal calendario. Siamo tornati alla situazione degli anni Ottanta: con nuovi patti sotterranei tra la politica e gli affari; e nuove condizioni strutturali che potrebbero nutrire una nuova Tangentopoli. Ci sarà una reazione della società, uno scatto morale della politica, un effetto benefico dell’Europa? O ci vorrà, di nuovo, un intervento traumatico della magistratura? Ci sarà un nuovo Di Pietro? E i giudici riuscirebbero, questa volta, a ottenere risultati, a dimostrare che la legge è davvero uguale per tutti?
Quando cadde il Muro di Bettino
In attesa di trovare risposte alle domande sul futuro, si può tentare di rispondere almeno a quelle sul passato. Come è nata Mani pulite? L’arresto di Mario Chiesa, d’accordo: un amministratore colto con le mani nella marmellata, quel 17 febbraio 1992. Ma poi? Poi ci sono voluti altri ingredienti. Una certa preparazione del magistrato che aveva avviato l’indagine: Antonio Di Pietro, snobbato dai colleghi per il suo linguaggio senza congiuntivi e i suoi modi da poliziotto, conosceva già bene il sistema della corruzione, per aver fatto altre inchieste (sulle patenti facili, sulle «carceri d’oro», su Lombardia informatica, sulle tangenti Atm...). Lo aveva addirittura descritto, il sistema, un anno prima di pizzicare Mario Chiesa: nel numero del maggio 1991 di un piccolo mensile milanese, Società civile, aveva firmato un articolo in cui lanciava una formula destinata ad avere successo: «dazione ambientale». Ricordava la distinzione, imposta dal codice penale, tra corrotto (il pubblico ufficiale che accetta la bustarella dall’imprenditore) e concussore (l’amministratore che la bustarella invece la pretende). Sosteneva però che questa distinzione è superata nei fatti: «Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua».
Un altro ingrediente: Di Pietro, quando arresta Chiesa, sa già tutto sul personaggio. Conosce i suoi metodi, i suoi amici, i suoi conti in banca... Aveva infatti indagato, nel corso di un procedimento per diffamazione, su un personaggio molto vicino a Chiesa, Mario Sciannameo, impresario di pompe funebri che, guarda caso, aveva l’esclusiva dei funerali dei poveri vecchietti che morivano al Pio Albergo Trivulzio. Poi, per spiegare il successo di Di Pietro, bisogna tenere presente la sua abilità di zanzone (vedi) e la sua capacità di bluff (vedi). Ma tutto ciò, naturalmente, non basta. Bisogna considerare altre cosucce che si muovevano nell’aria, in quell’ormai lontano 1992. La crisi della politica, che già da qualche anno faceva allontanare i cittadini dai partiti tradizionali e crescere l’astensionismo o il voto per nuovi gruppi (dalla Lega di Umberto Bossi alla Rete di Leoluca Orlando). E la spesa pubblica fuori controllo, che stava portando l’Italia verso la bancarotta. «Il Paese viveva in una situazione di capitalismo senza mercato, secondo la formula che piaceva tanto a Gianni De Michelis», spiega il giurista Guido Rossi. Lo Stato, insomma, non solo controllava una larga fetta dell’economia, ma spendeva, spendeva, perché ai partiti che lo avevano letteralmente occupato interessava – più che l’utilità delle opere realizzate e l’efficienza dei servizi prestati – mantenere il consenso e portare a casa le «provvigioni» (alias tangenti) che permettevano di pagare «i costi della politica» (e dei politici). Dall’altra parte, gli imprenditori grandi e piccoli si erano organizzati per vincere gli appalti spartendosi il mercato tra loro e pagando robuste mazzette ai partiti, evitando così i noiosi impicci della concorrenza e del libero mercato.
Eccola qua, allora, Tangentopoli: non è solo il sistema delle tangenti (peraltro pesanti: 10 mila miliardi di lire l’anno, secondo i calcoli realizzati nel 1992 dall’economista Mario Deaglio); è, per le imprese, un sistema di accordi di cartello; e, per i partiti, un sistema di sperpero sistematico dei soldi pubblici. Risultato: il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel ’92 arriva al 118 per cento (per entrare in Europa l’Italia doveva stare sotto il 60). Insomma: il crac. Eravamo a un passo da una situazione argentina. Non poteva durare. E infatti quando un magistrato più abile e fortunato di altri dà la prima spallata, il castello di carte crolla. Cedono, uno dopo l’altro, gli amministratori, gli imprenditori, i politici. Come le tessere di un grande domino. Anche perché, nel frattempo, il mondo era cambiato: imploso il blocco sovietico, perdono forza i partiti che anche in Italia erano legittimati dall’uno o dall’altro dei due schieramenti. Saltano quelle reti di protezione (politiche, ma anche giudiziarie: avocazioni, porti delle nebbie e ammazzasentenze) che rendevano improcessabili i potenti.
E implode anche quella variante di capitalismo di Stato che era in mano ai boiardi del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). Cade il Muro di Berlino, ma anche il Muro di Bettino. Tutto ciò, per le vie insondabili della Storia, diventa diffusa insofferenza verso i partiti, voglia di cambiamento, tifo per i giudici, perfino giustizialismo (vedi): insomma, Mani pulite.
Quando la Cia aiutò Mani pulite
«Vede, Tangentopoli ha due protagonisti, Gustavo Dandolo e Godevo Prendendolo...». Così l’avvocato Giovanni Maria Flick, avvocato di tanti illustri imputati di Mani pulite e poi, nel 1996, ministro della Giustizia nel governo Prodi, spiega il rapporto che si era creato tra imprenditori e politici. È proprio spezzando il sodalizio e l’omertà tra i due soggetti della corruzione che Di Pietro e colleghi fanno decollare la loro inchiesta.
Il primo a crollare è stato un politico: Mario Chiesa. Che altro poteva fare? Era in cella da più di un mese. Attraversava un momento particolarmente difficile della sua vita personale. Di Pietro gli aveva individuato e sequestrato una dozzina di miliardi. Gli imprenditori che lo avevano foraggiato cominciavano a tradirlo. E perfino il suo partito, al quale aveva portato per anni voti e soldi, lo aveva abbandonato: lui, che sperava di diventare sindaco di Milano, era stato definito da Bettino Craxi un «mariuolo». Così, il 23 marzo 1992, l’aspirante sindaco comincia a confessare le sue tangenti.
Il 22 aprile vengono arrestati otto imprenditori, i primi di una lunga serie: hanno lavorato per il Trivulzio, hanno pagato tangenti a Chiesa. Confessano quasi subito. Sono sollevati, alla fine, si sono liberati da un peso: non solo morale, ma anche economico. Mani pulite esplode. Tanti altri imprenditori corrono a raccontare le loro tangenti. Denunciano i cassieri segreti dei partiti, quelli che facevano il giro a raccogliere mazzette. Tra questi, il democristiano Maurizio Prada, presidente dell’Atm (l’azienda milanese dei trasporti), che fa compiere all’indagine una svolta: ma come, noi politici siamo diventati i cattivi, la gente applaude al nostro arresto; e loro, gli imprenditori, che fino a ieri ci correvano dietro per pagarci e vincere gli appalti senza fatica, ora fanno i concussi, i santerellini obbligati a pagare dai partiti malvagi? Ora li aggiusto io, avrà pensato. E ha cominciato a raccontare le tangenti gentilmente offerte da una azienda che, grande com’è, se avesse voluto, avrebbe certamente potuto non pagare: la Fiat.
Racconta, Prada, prima le mazzette pagate dai pesci piccoli. Poi quelle di Enso Papi, il numero uno della numero uno tra le imprese edili italiane, la Cogefar (gruppo Fiat). Infine, nel febbraio 1993, racconta una cordiale colazione di lavoro in una saletta appartata del ristorante milanese Club 44, avvenuta nel maggio 1988: con lui, due altissimi dirigenti della Fiat, Antonio Mosconi (già vicepresidente della Cogefar e da due mesi amministratore delegato della Toro Assicurazioni) e Francesco Paolo Mattioli (presidente della Cogefar e direttore centrale finanziario della Fiat: sopra Mattioli c’è direttamente Cesare Romiti). «Sapevano perfettamente delle tangenti», rivela Prada.
I giovani della Confindustria, riuniti a Santa Margherita, il 5 giugno 1992 avevano accolto e applaudito Di Pietro come una star: era l’uomo che li stava liberando di politici e amministratori corrotti ed esosi. Gianni Agnelli in quegli stessi giorni aveva detto dei magistrati: «Stanno lavorando. È bene che lo facciano serenamente e tranquillamente. Gli scandali, quando ci sono, è sempre bene che vengano a galla. Si faccia piena luce e si accertino i fatti. Non credo alla mezze misure, in certe situazioni è determinante la chiarezza totale». Poi le inchieste proseguono e arrivano fino a Romiti, a De Benedetti, a Gardini, a Berlusconi... E dagli applausi si passa alle campagne di stampa contro i giudici.
In Italia i complotti piacciono. Non c’è da stupirsene, viste le «manine» e «manone» che hanno mosso la nostra storia recente. Anche Mani pulite è stata ed è interpretata – spesso e da sponde opposte – come il risultato di un complotto. Di «toghe rosse» all’opera per portare al potere i «comunisti». Del «capitalismo» e della «finanza» per realizzare le privatizzazioni a basso costo. Dei servizi segreti, per guidare il cambiamento del sistema politico. A questo proposito, si può raccontare una storia accaduta tra il 1992 e il 1993 e che sembra dimostrare come Di Pietro e colleghi, più che essere aiutati e diretti dai servizi segreti, siano stati controllati e ostacolati.
Nel luglio 1992, un avvocato, Franco Sotgiu, si presenta nell’ufficio di Piercamillo Davigo dicendogli che un suo cliente, l’architetto Bruno De Mico (già coinvolto nell’inchiesta sulle «carceri d’oro»), ha importanti comunicazioni da fargli. Il magistrato si aspetta dichiarazioni a verbale su episodi di tangenti. Ma, dopo un appuntamento andato a vuoto, l’avvocato Sotgiu gli propone un luogo d’incontro alternativo, un appartamento: Davigo, prudente, lo esclude; non accetta alcun incontro sull’inchiesta fuori dai luoghi deputati, il palazzo di Giustizia, le caserme. Viene infine concordato un appuntamento presso la caserma dei carabinieri di via Moscova. De Mico finalmente arriva, ma rifiuta che le sue dichiarazioni siano messe a verbale: non riguardano l’inchiesta, dice, ma la sicurezza dei magistrati. E racconta. Prende spunto dall’arresto di Salvatore Ligresti, appena avvenuto, per mettere in guardia gli uomini del pool: Ligresti, costruttore siciliano potentissimo a Milano, è un personaggio di grande spessore e di altissima pericolosità, dice De Mico, ha rapporti segreti con ambienti criminali italoamericani. Ma proprio per questo, prosegue, vi sono altri «ambienti americani» che sono disponibili a dare una mano al pool, per garantire la sicurezza dei magistrati e per aiutare a riportare in Italia i latitanti di Mani pulite (in quel momento, il cassiere segreto di Craxi Silvano Larini). Quegli «ambienti americani», continua De Mico, sarebbero entrati in azione dopo un segnale che provenisse dal pool: la partecipazione di un magistrato, preferibilmente Di Pietro, a Sixty Minutes, un noto programma trasmesso dal network televisivo statunitense Cbs.
Davigo è perplesso, sente odore di bruciato in questa storia in cui sono evocate la mafia e la Cia: sa che la magistratura italiana non può avere rapporti con i servizi segreti. Sospetta un «trappolone»: che cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a dimostrare che Mani pulite accetta di avvalersi di collaborazioni illegittime, vere o immaginarie, magari di 007 made in Usa?
Stende un rapporto per il procuratore Francesco Saverio Borrelli e poi apre un’indagine a carico di De Mico e di ignoti per il reato ipotizzato dall’articolo 246 del codice penale: spionaggio per conto di Stati stranieri. Le perplessità aumentano quando l’avvocato Sotgiu telefona a Davigo chiedendo un incontro immediato: «Le devo parlare, vengo a casa sua». Il magistrato rifiuta e rilancia: «Se vuole, ci vediamo nel suo studio». Anche questa volta Sotgiu rifiuta la verbalizzazione: Davigo allora se ne va, lasciando sul posto un capitano dei carabinieri, che come ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di fonti confidenziali. In questo e in un ulteriore incontro con l’ufficiale, Sotgiu ribadisce per conto di De Mico la disponibilità di non meglio specificati «ambienti americani», che sarebbero pronti a consegnare Larini al pool, purché non sia loro chiesto come Larini sia fatto arrivare in Italia: la proposta, par di capire, è quella di un rapimento stile 007. L’ufficiale, opportunamente istruito, non solo non offre garanzie d’impunità, ma anzi diffida apertamente dal compiere reati. Con questo, i rapporti si interrompono.
Nelle settimane seguenti, Borrelli, accompagnato dal procuratore generale Giulio Catelani, si reca al Quirinale, per informare della vicenda il presidente Oscar Luigi Scalfaro. È accolto con estrema cortesia e grande cordialità. Ma quando comincia a capire il motivo della visita, il presidente smorza progressivamente il suo sorriso e diventa via via più freddo, più distaccato; quasi brusco, al congedo: lascia intendere che la questione non è di sua competenza e che non ne vuole sapere. A un decennio di distanza, i magistrati del pool non hanno ancora maturato certezze su questa vicenda. Reale intromissione di agenzie straniere? Iniziativa personale di De Mico? O «trappolone», come lo chiama Davigo, tentativo di far compiere qualche passo falso ai magistrati?
Circa un anno dopo, nell’autunno 1993, la vicenda De Mico-Cia ha una seconda puntata. Protagonista, il giudice Guido Salvini, impegnato in quegli anni nella complessa indagine sull’eversione di destra che porterà a individuare e mandare sotto processo alcuni responsabili della strage di piazza Fontana. Il braccio destro di Salvini in quell’inchiesta, Massimo Giraudo, capitano del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, raccoglie le dichiarazioni di un personaggio dell’ambiente criminale ed eversivo, Biagio Pitarresi, il quale racconta di essere in contatto con un uomo della Cia in Italia, Carlo Rocchi, che gli ha chiesto di passargli informazioni sulle indagini di Salvini e Giraudo. I due verificano le affermazioni di Pitarresi: Rocchi lavora davvero per gli americani. Intercettano un suo rapporto sulle indagini inviato via fax a un ufficio dell’ambasciata Usa a Roma. Negli anni precedenti ha svolto missioni anche all’estero, in America Latina e in Corea, e tra l’altro è stato l’ultimo a vedere vivo il banchiere Michele Sindona, in carcere, prima della sua misteriosa morte per avvelenamento avvenuta il 22 marzo 1986. Rocchi, del resto, ha stretti contatti anche con il capocentro di Milano del Sisde (il servizio segreto civile italiano), tale «dottor Rinaldi».
Ma Pitarresi riferisce anche altro: Rocchi gli ha chiesto di attivarsi pure su Mani pulite. «L’ultimo favore richiestogli», riporta un rapporto del Ros datato 17 dicembre 1993, «era stato quello di rintracciare il Larini prima che lo trovassero le forze di polizia italiane (...). In relazione a tale sollecitazione giunta al Pitarresi, si rappresenta che lo stesso, nel corso dell’ultimo colloquio, faceva presente che tra qualche mese sarebbe stata effettuata un’operazione di screditamento del dottor Di Pietro, basata su un servizio da esso prestato presso la polizia di Stato».
Dalle telefonate intercettate, risulta che Rocchi è in contatto con l’architetto De Mico, che qualche mese prima aveva tentato di «agganciare» Davigo promettendogli, appunto, di «rintracciare» Larini. E proprio la fotocopia del passaporto di De Mico viene trovata durante una perquisizione degli uffici di Rocchi effettuata dagli uomini di Giraudo. Pitarresi racconta che Rocchi gli ha chiesto addirittura di organizzare un attentato a Gerardo D’Ambrosio. In seguito, un tentativo di azione contro il coordinatore del pool comunque ci sarà: il 14 aprile 1995 la scorta di D’Ambrosio metterà in fuga un misterioso personaggio appostato, con in mano un fucile, nel giardino di una scuola davanti all’abitazione del magistrato.
Quando Zaffra «tradì» l’amico Bettino
Loris Zaffra era l’uomo che doveva succedere a Mario Chiesa. Ex sindacalista, socialista emergente, capogruppo del Psi al Comune di Milano, entra nel ristretto gruppo dei fedelissimi di Craxi e diventa il possibile candidato, dopo la caduta di Mario Chiesa, a diventare sindaco di Milano. Ma è anch’egli arrestato per tangenti, il 30 luglio 1992. Craxi e i dirigenti socialisti difendono strenuamente il loro compagno e rilasciano alla stampa dichiarazioni di fuoco contro i magistrati della Procura milanese: è la prima reazione organizzata contro Mani pulite, che raggiunge i toni più drammatici quando, nell’estate 1992, tre indagati si tolgono la vita.
Tra questi, il parlamentare socialista Sergio Moroni, che si uccide il 2 settembre nella sua casa di Brescia, dopo che gli erano già stati recapitati tre avvisi di garanzia. Prima della morte, invia al presidente della Camera Giorgio Napolitano una lettera in cui, ammettendo di aver avuto un ruolo nel sistema di finanziamenti illeciti che sostenta i partiti italiani, protesta contro ciò che gli sembra essere una decimazione casuale della classe politica: «Non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali. (...) Non lo accetto nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flessibile, non resta che il gesto».
Dopo quella drammatica estate, Zaffra, considerato un «irriducibile», smentisce egli stesso il suo leader, confessando la sua partecipazione al sistema delle tangenti e concorrendo a determinare il secondo avviso di garanzia a Craxi. Non solo: in un’intervista a Marcella Andreoli su Panorama del 24 gennaio, Zaffra ricapitola la sua vicenda e ribalta sui compagni di partito l’accusa di aver emarginato gli indagati, anche quelli che poi si sono tolti la vita. Racconta: arrestato una prima volta, era uscito dal carcere senza aver parlato. «Venivo guardato come un essere strano, miracolato, proprio perché ero stato anche a San Vittore».
Poi, la svolta: «Avevo l’impressione di essere fuori dal mondo, di essere l’unico rimasto a presidiare un palazzo deserto, mi sono sentito in una trincea vuota. E dopo tanti giorni di carcere ho capito che stavo combattendo una battaglia persa in partenza. La reazione del sistema era assolutamente ipocrita. Aveva ragione il povero Sergio Moroni, quando nella sua lettera, scritta prima del suicidio, aveva parlato di “ruota della fortuna”: sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici: sei stato arrestato? peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile».
Zaffra rifiuta anche la teoria craxiana del complotto: «Ero in carcere quando scrisse, ad agosto, quei tre famosi corsivi contro l’inchiesta Mani pulite e contro il giudice Di Pietro. Sbaglia. Non dovrebbe prendere scorciatoie e vedere complotti dietro l’angolo, giudici mossi da scopi politici. È vero, i magistrati possono abusare dello strumento della carcerazione preventiva, ma non estorcono false confessioni: alla fin fine l’imputato racconta la verità. Sarà amaro ammetterlo, ma è così».
Quando Tangentopoli la fa Cosa nostra
Nell’autunno 1993 a casa del procuratore Borrelli avviene un incontro tra i due pool giudiziari più amati (e temuti) d’Italia: quello di Milano e quello di Palermo. Sono presenti Di Pietro, Gherardo Colombo, Davigo. Arrivano dalla Sicilia il procuratore Gian Carlo Caselli con Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Luigi Patronaggio. Il vertice ha lo scopo di mettere a confronto le esperienze delle due Procure: molti dei costruttori indagati e arrestati a Milano hanno cantieri aperti anche in Sicilia. La Lodigiani, la Cogefar del gruppo Fiat, la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, la Grassetto di Ligresti, le cooperative rosse dell’Emilia-Romagna sono attive a Milano come a Palermo. E in Sicilia, mentre a Milano si sviluppa Mani pulite, è in corso una complicata indagine su mafia e appalti, che aveva scoperto la Tangentopoli siciliana: una torta da 1.000 miliardi, su cui vegliava Cosa nostra. A Palermo era chiamata «Tavulinu»: il tavolino a tre gambe a cui erano seduti gli imprenditori, i politici e gli uomini della mafia. È il colonnello Mario Mori, capo del Ros, che ne parla a Di Pietro, presentandogli i risultati del rapporto «Mafia e appalti» stilato già nel 1991 dal giovane capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. Dopo l’incontro con Mori, Di Pietro, accompagnato da De Donno, vola a Roma e il 12 novembre 1992 interroga in carcere Giuseppe Li Pera, rappresentante in Sicilia di una grande impresa edile friulana, la Rizzani De Eccher. Poi si mette all’opera: «Faccio opera di pubbliche relazioni con gli avvocati degli imprenditori che sono attivi sia a Milano sia in Sicilia», racconta Di Pietro. «Sondo se è possibile avere aperture nelle due direzioni. E ottengo qualche risultato». Milano-Palermo: indagini incrociate per due Tangentopoli gemelle.
Dieci anni dopo, gli entusiami per Mani pulite del biennio 1992-93 sono completamente svaporati. Il tifo da stadio si è trasformato in indifferenza, o addirittura in ostilità. Riprendono però in tutta Italia le manifestazioni per la giustizia: a Firenze, a Milano, a Roma. E ancora a Milano, sabato 23 febbraio, al Palavobis, proprio per ricordare i dieci anni di Mani pulite.
Alla fine di questa storia, ecco un ultimo rivolo di quelle inchieste. È in corso a Milano un processo che vede accusati, per corruzione, due giudici, un imprenditore e il suo legale. I fatti risalgono a diversi anni fa: centinaia di milioni versati su conti esteri ai due giudici perché emettessero sentenze favorevoli all’imprenditore. La pubblica accusa ha in mano prove molto circostanziate e convincenti. Nel frattempo, però, l’imprenditore è divenuto, a furore di mezzo popolo, presidente del Consiglio. E mezzo mondo si chiede: se sarà condannato, che cosa farà Silvio Berlusconi? Accetterà la sentenza? Il presidente della Repubblica gli chiederà di dimettersi? O gli chiederà di tornare in Parlamento per la riconferma della fiducia? O, forse, il presidente del Consiglio, forte del mandato popolare, convocherà manifestazioni di piazza in suo favore e contro i giudici? Ne va del destino dell’Italia, non solo delle sue mani insaponate sotto il rubinetto.
L'alfabeto di mani pulite
Arresti. Tra il 1992 e il 1994, gli anni d’oro di Mani pulite, 70 Procure italiane hanno indagato 12 mila persone e realizzato 5 mila arresti. A Napoli il record: 554. A Milano, su 5 mila indagati, in dieci anni si sono avute 588 condanne davanti al giudice per l’udienza preliminare e 645 davanti al tribunale. Sono 1.471 le persone con processi ancora in corso. Tra le assoluzioni, moltissime sono quelle per prescrizione. Quelle nel merito, invece, sono solo il 14,5 per cento (la media italiana di assoluzioni è oltre il 20 per cento).
Bluff. Mani pulite non sarebbe neppure iniziata senza i bluff di Di Pietro. Prima forzatura: chiede al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, a cui si è affidato un piccolo imprenditore di Monza costretto a pagare tangenti a Chiesa, di compiere l’arresto proprio lunedì 17 febbraio, quando è di turno Di Pietro. Seconda forzatura: fa credere al suo capo, Borrelli, di essersi dimenticato di depositare gli atti in tempo per celebrare il processo per direttissima a Chiesa, per la sola tangentina di 7 milioni; così intanto prosegue le indagini. Terza forzatura: fa credere a Chiesa che gli imprenditori stanno confessando e agli imprenditori che sta parlando Chiesa; risultato, parlano tutti. Più volte i magistrati del pool fanno credere agli avvocati di sapere più di quanto sanno. Esito: molti indagati si precipitano a confessare, prima di essere accompagnati a San Vittore. Qualche volta il bluff non riesce: nel 1993, per esempio, dopo avere indagato a tempo pieno per due mesi su Primo Greganti e le «tangenti rosse», fanno credere di essere arrivati a un passo da Achille Occhetto e Massimo D’Alema, segretario e vicesegretario del Pds. Gli avvocati si muovono, ma questa volta nessuno abbocca.
Calzino. Davigo vorrebbe rivoltare l’Italia come un calzino. Lo abbiamo letto mille volte. Ma lo ha detto veramente? Tutto nasce dopo l’arresto, il 25 luglio 1994, del responsabile dei servizi fiscali della Fininvest, Salvatore Sciascia, per le tangenti pagate alla Guardia di finanza. «Chi l’ha autorizzata a pagare?», gli domanda Di Pietro. «Paolo Berlusconi», risponde Sciascia. Dopo questa confessione, Paolo Berlusconi diventa un ricercato e un latitante. L’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni dichiara: «Se avessi un fratello latitante gli direi di consegnarsi subito, ma per fortuna ho una sorella veterinaria». E il ministro della Giustizia Alfredo Biondi: «Berlusconi deve decidere secondo il senso dello Stato. Lo stato di famiglia è un’altra cosa...». Giuliano Ferrara, allora ministro dei Rapporti con il Parlamento, dice: «Il governo non ha fratelli, ma non possiamo consentire che rovescino come un calzino tutto, dalla bottega dell’artigiano a grandi corporation come la Fininvest e la Fiat». È a questo punto che Davigo ribatte: «Ma in quale Paese un ministro potrebbe accusare i magistrati di rivoltare la nazione come un calzino?». Da quel giorno, grazie a un’abile campagna mediatica, Davigo passerà alla storia come il pm che voleva «rovesciare l’Italia come un calzino».
Fiorino. Il 29 luglio 1994 Paolo Berlusconi si consegna a Di Pietro e ammette di aver autorizzato le tangenti alla Finanza. Fa scudo al fratello Silvio: «Sciascia», assicura, «dipendeva soltanto da me». Di Pietro, allora, gli mostra un documento: una donazione di 500 milioni a Sciascia elargita nel 1988 da Silvio: «Lei ne sapeva niente?». «No». «E allora vede che lei non conta niente?». Paolo, a quel punto, deve ammettere che per le questioni strategiche tutti, nel gruppo, fanno capo a Silvio. E ottiene gli arresti domiciliari, lasciando il palazzo di Giustizia da un’uscita secondaria, nascosto nel bagagliaio di un furgoncino: un Fiat Fiorino beige.
Giustizialismo. Oggi sono tutti contro il «giustizialismo» (definizione sbagliata: il giustizialismo è quello di Peron). Ieri, invece, i deputati della Lega agitavano il cappio in Parlamento (Luca Leoni Orsenigo, 16 marzo 1993). Quelli dell’Msi, non ancora An, il 1 aprile 1993 assediavano la Camera e ne bloccavano per 50 minuti gli ingressi, tirando monete con le fionde. Erano giovani camerati che indossavano una maglietta con la scritta: «Siete circondati, arrendetevi». Ed erano guidati dai seguenti parlamentari, che il ministero dell’Interno segnalò e censurò: Buontempo, Nania, Maceratini, Rositani, Martinazzo, Pasetto, Matteoli, Poli Bortone, Gasparri.
Mela marcia. Così erano definiti, dai vertici dei loro partiti, Mario Chiesa e i primi politici inquisiti. Racconta Piercamillo Davigo: «Un indagato in carcere mi chiese: “Che cosa hanno scritto del mio arresto?”. Io gli diedi i giornali che avevo sotto braccio, in cui era stato qualificato dai suoi dirigenti “una isolata mela marcia”. Subito mi disse: “A sì? Adesso, dottore, le descrivo il resto del cestino”».
Zanzone. «Zanza», a Milano, è il piccolo malavitoso furbo. E «Zanzone» viene chiamato Di Pietro da alcuni cronisti giudiziari per le sue furbizie. Esempio. Quando viene arrestato Roberto Mongini, democristiano, vicepresidente della Sea (l’azienda che gestisce gli aeroporti milanesi), Davigo e Colombo si dannano l’anima per convincerlo a confessare le sue tangenti, ma Mongini resta a San Vittore zitto per 16 giorni. Una sera, i tre del pool hanno un invito da amici. Colombo e Davigo arrivano puntuali. Di Pietro si fa vivo solo verso mezzanotte, con un gran sorriso sornione sulle labbra. Dice ai colleghi: «Piercamillo, mi devi pagare da bere: sai, sono passato per caso da San Vittore. Mongini collabora». Poi spiega il metodo usato: «Ho preso quattro faldoni a caso pieni di documenti, sono entrato in cella e gli ho detto: veda un po’ di fare i suoi conti. Lui ha guardato i faldoni e poi ha cominciato a parlare». È un esempio del «metodo Di Pietro», insuperabile negli interrogatori, fatto di piccole astuzie ma anche di grande capacità di porre le domande giuste, di intuito, di abilità a entrare in sintonia con l’indagato. Con il procedere dell’inchiesta e del sostegno entusiastico di massa al magistrato simbolo di Mani pulite, confessare a Di Pietro diventa poi un titolo di merito: gli indagati vogliono confessare a lui e solo a lui. Per questa sua capacità psicologica di far collaborare gli indagati viene chiamato anche «la Madonna». Molti indagati, in quei mesi, vedono «la Madonna» e parlano.
Questo testo. Mani pulite è l’inchiesta giudiziaria avviata a Milano da Antonio Di Pietro con l’arresto di Mario Chiesa, il 17 febbraio 1992. Esattamente dieci anni fa. Che cosa è rimasto di quell’indagine? I materiali presentati in queste pagine sono ricavati dal libro «Mani pulite», di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio, edito da Feltrinelli, che sarà in libreria a fine mese.
Arrestato in flagrante, mentre incassava una tangente, un funzionario nel settore sanità; controllava un consistente pacchetto di tessere, messe a disposizione dei leader locali di un partito di governo: comincia così la storia di Mario Chiesa, socialista, collettore di voti per Bobo Craxi, presidente a Milano del Pio Albergo Trivulzio e imputato numero uno di Mani pulite, finito in manette il 17 febbraio 1992 per una tangente di 7 milioni. Ma comincia così, esattamente così, anche la storia di Luigi Odasso, di Forza Italia, presidente dell’ospedale torinese delle Molinette, portato in carcere il 19 dicembre 2001 per aver incassato una tangente di 15 milioni. Sono passati dieci anni dall’inizio dell’indagine giudiziaria che doveva cambiare tutto, ma accadono storie che si possono raccontare oggi con le stesse, identiche parole.
Se poi ci si guarda attorno, si trovano altre vicende, maledettamente simili a quelle che i giornali raccontavano – senza enfasi, per carità, niente titoloni in prima – tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Decine di amministratori sono sotto accusa per la gestione delle forniture sanitarie in Piemonte, Lombardia, Toscana, Campania, Calabria, Sicilia. Centinaia di sindaci, assessori e imprenditori in tutta Italia sono sotto inchiesta per come hanno trattato l’eterno business edilizio. Politici e dirigenti degli enti pubblici preposti al controllo del volo, intercettati dopo la sciagura di Linate, hanno svelato oggi le nuove spartizioni politiche e gli accordi d’affari.
E che dire della ripresa della spesa pubblica nelle grandi opere? Le due leggi per far ripartire la costruzione di strade, ponti, trafori, acquedotti, ferrovie (la legge-delega sulle infrastrutture e il provvedimento sulle grandi opere collegato alla Finanziaria 2002) permettono che progettazione, finanziamento, esecuzione e perfino gestione delle opere siano di fatto affidate – come avviene nei Paesi del Terzo mondo – a un’unica impresa (il «general contractor»): così è appiattita la dinamica di mercato, persa la trasparenza e il controllo dei costi, così sono poste le basi strutturali per un nuovo sistema di spartizione e corruzione. In un mercato come quello italiano, ancora molto protetto, quasi chiuso alla concorrenza internazionale e povero di operatori (le imprese in grado di fungere da «general contractor» sono due o tre), è prevedibile che questi, in accordo con la politica, azzerino la concorrenza, si spartiscano il mercato e creino a cascata un sistema di appalti e subappalti precostituito e lottizzato. È la promessa di una nuova Tangentopoli. E questa volta con una magistratura priva della tranquillità ambientale e degli strumenti processuali necessari per far partire una nuova Mani pulite.
Raccontare quell’inchiesta, oggi, dieci anni dopo, diventa allora qualcosa di più che un appuntamento imposto dal calendario. Siamo tornati alla situazione degli anni Ottanta: con nuovi patti sotterranei tra la politica e gli affari; e nuove condizioni strutturali che potrebbero nutrire una nuova Tangentopoli. Ci sarà una reazione della società, uno scatto morale della politica, un effetto benefico dell’Europa? O ci vorrà, di nuovo, un intervento traumatico della magistratura? Ci sarà un nuovo Di Pietro? E i giudici riuscirebbero, questa volta, a ottenere risultati, a dimostrare che la legge è davvero uguale per tutti?
Quando cadde il Muro di Bettino
In attesa di trovare risposte alle domande sul futuro, si può tentare di rispondere almeno a quelle sul passato. Come è nata Mani pulite? L’arresto di Mario Chiesa, d’accordo: un amministratore colto con le mani nella marmellata, quel 17 febbraio 1992. Ma poi? Poi ci sono voluti altri ingredienti. Una certa preparazione del magistrato che aveva avviato l’indagine: Antonio Di Pietro, snobbato dai colleghi per il suo linguaggio senza congiuntivi e i suoi modi da poliziotto, conosceva già bene il sistema della corruzione, per aver fatto altre inchieste (sulle patenti facili, sulle «carceri d’oro», su Lombardia informatica, sulle tangenti Atm...). Lo aveva addirittura descritto, il sistema, un anno prima di pizzicare Mario Chiesa: nel numero del maggio 1991 di un piccolo mensile milanese, Società civile, aveva firmato un articolo in cui lanciava una formula destinata ad avere successo: «dazione ambientale». Ricordava la distinzione, imposta dal codice penale, tra corrotto (il pubblico ufficiale che accetta la bustarella dall’imprenditore) e concussore (l’amministratore che la bustarella invece la pretende). Sosteneva però che questa distinzione è superata nei fatti: «Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua».
Un altro ingrediente: Di Pietro, quando arresta Chiesa, sa già tutto sul personaggio. Conosce i suoi metodi, i suoi amici, i suoi conti in banca... Aveva infatti indagato, nel corso di un procedimento per diffamazione, su un personaggio molto vicino a Chiesa, Mario Sciannameo, impresario di pompe funebri che, guarda caso, aveva l’esclusiva dei funerali dei poveri vecchietti che morivano al Pio Albergo Trivulzio. Poi, per spiegare il successo di Di Pietro, bisogna tenere presente la sua abilità di zanzone (vedi) e la sua capacità di bluff (vedi). Ma tutto ciò, naturalmente, non basta. Bisogna considerare altre cosucce che si muovevano nell’aria, in quell’ormai lontano 1992. La crisi della politica, che già da qualche anno faceva allontanare i cittadini dai partiti tradizionali e crescere l’astensionismo o il voto per nuovi gruppi (dalla Lega di Umberto Bossi alla Rete di Leoluca Orlando). E la spesa pubblica fuori controllo, che stava portando l’Italia verso la bancarotta. «Il Paese viveva in una situazione di capitalismo senza mercato, secondo la formula che piaceva tanto a Gianni De Michelis», spiega il giurista Guido Rossi. Lo Stato, insomma, non solo controllava una larga fetta dell’economia, ma spendeva, spendeva, perché ai partiti che lo avevano letteralmente occupato interessava – più che l’utilità delle opere realizzate e l’efficienza dei servizi prestati – mantenere il consenso e portare a casa le «provvigioni» (alias tangenti) che permettevano di pagare «i costi della politica» (e dei politici). Dall’altra parte, gli imprenditori grandi e piccoli si erano organizzati per vincere gli appalti spartendosi il mercato tra loro e pagando robuste mazzette ai partiti, evitando così i noiosi impicci della concorrenza e del libero mercato.
Eccola qua, allora, Tangentopoli: non è solo il sistema delle tangenti (peraltro pesanti: 10 mila miliardi di lire l’anno, secondo i calcoli realizzati nel 1992 dall’economista Mario Deaglio); è, per le imprese, un sistema di accordi di cartello; e, per i partiti, un sistema di sperpero sistematico dei soldi pubblici. Risultato: il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel ’92 arriva al 118 per cento (per entrare in Europa l’Italia doveva stare sotto il 60). Insomma: il crac. Eravamo a un passo da una situazione argentina. Non poteva durare. E infatti quando un magistrato più abile e fortunato di altri dà la prima spallata, il castello di carte crolla. Cedono, uno dopo l’altro, gli amministratori, gli imprenditori, i politici. Come le tessere di un grande domino. Anche perché, nel frattempo, il mondo era cambiato: imploso il blocco sovietico, perdono forza i partiti che anche in Italia erano legittimati dall’uno o dall’altro dei due schieramenti. Saltano quelle reti di protezione (politiche, ma anche giudiziarie: avocazioni, porti delle nebbie e ammazzasentenze) che rendevano improcessabili i potenti.
E implode anche quella variante di capitalismo di Stato che era in mano ai boiardi del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). Cade il Muro di Berlino, ma anche il Muro di Bettino. Tutto ciò, per le vie insondabili della Storia, diventa diffusa insofferenza verso i partiti, voglia di cambiamento, tifo per i giudici, perfino giustizialismo (vedi): insomma, Mani pulite.
Quando la Cia aiutò Mani pulite
«Vede, Tangentopoli ha due protagonisti, Gustavo Dandolo e Godevo Prendendolo...». Così l’avvocato Giovanni Maria Flick, avvocato di tanti illustri imputati di Mani pulite e poi, nel 1996, ministro della Giustizia nel governo Prodi, spiega il rapporto che si era creato tra imprenditori e politici. È proprio spezzando il sodalizio e l’omertà tra i due soggetti della corruzione che Di Pietro e colleghi fanno decollare la loro inchiesta.
Il primo a crollare è stato un politico: Mario Chiesa. Che altro poteva fare? Era in cella da più di un mese. Attraversava un momento particolarmente difficile della sua vita personale. Di Pietro gli aveva individuato e sequestrato una dozzina di miliardi. Gli imprenditori che lo avevano foraggiato cominciavano a tradirlo. E perfino il suo partito, al quale aveva portato per anni voti e soldi, lo aveva abbandonato: lui, che sperava di diventare sindaco di Milano, era stato definito da Bettino Craxi un «mariuolo». Così, il 23 marzo 1992, l’aspirante sindaco comincia a confessare le sue tangenti.
Il 22 aprile vengono arrestati otto imprenditori, i primi di una lunga serie: hanno lavorato per il Trivulzio, hanno pagato tangenti a Chiesa. Confessano quasi subito. Sono sollevati, alla fine, si sono liberati da un peso: non solo morale, ma anche economico. Mani pulite esplode. Tanti altri imprenditori corrono a raccontare le loro tangenti. Denunciano i cassieri segreti dei partiti, quelli che facevano il giro a raccogliere mazzette. Tra questi, il democristiano Maurizio Prada, presidente dell’Atm (l’azienda milanese dei trasporti), che fa compiere all’indagine una svolta: ma come, noi politici siamo diventati i cattivi, la gente applaude al nostro arresto; e loro, gli imprenditori, che fino a ieri ci correvano dietro per pagarci e vincere gli appalti senza fatica, ora fanno i concussi, i santerellini obbligati a pagare dai partiti malvagi? Ora li aggiusto io, avrà pensato. E ha cominciato a raccontare le tangenti gentilmente offerte da una azienda che, grande com’è, se avesse voluto, avrebbe certamente potuto non pagare: la Fiat.
Racconta, Prada, prima le mazzette pagate dai pesci piccoli. Poi quelle di Enso Papi, il numero uno della numero uno tra le imprese edili italiane, la Cogefar (gruppo Fiat). Infine, nel febbraio 1993, racconta una cordiale colazione di lavoro in una saletta appartata del ristorante milanese Club 44, avvenuta nel maggio 1988: con lui, due altissimi dirigenti della Fiat, Antonio Mosconi (già vicepresidente della Cogefar e da due mesi amministratore delegato della Toro Assicurazioni) e Francesco Paolo Mattioli (presidente della Cogefar e direttore centrale finanziario della Fiat: sopra Mattioli c’è direttamente Cesare Romiti). «Sapevano perfettamente delle tangenti», rivela Prada.
I giovani della Confindustria, riuniti a Santa Margherita, il 5 giugno 1992 avevano accolto e applaudito Di Pietro come una star: era l’uomo che li stava liberando di politici e amministratori corrotti ed esosi. Gianni Agnelli in quegli stessi giorni aveva detto dei magistrati: «Stanno lavorando. È bene che lo facciano serenamente e tranquillamente. Gli scandali, quando ci sono, è sempre bene che vengano a galla. Si faccia piena luce e si accertino i fatti. Non credo alla mezze misure, in certe situazioni è determinante la chiarezza totale». Poi le inchieste proseguono e arrivano fino a Romiti, a De Benedetti, a Gardini, a Berlusconi... E dagli applausi si passa alle campagne di stampa contro i giudici.
In Italia i complotti piacciono. Non c’è da stupirsene, viste le «manine» e «manone» che hanno mosso la nostra storia recente. Anche Mani pulite è stata ed è interpretata – spesso e da sponde opposte – come il risultato di un complotto. Di «toghe rosse» all’opera per portare al potere i «comunisti». Del «capitalismo» e della «finanza» per realizzare le privatizzazioni a basso costo. Dei servizi segreti, per guidare il cambiamento del sistema politico. A questo proposito, si può raccontare una storia accaduta tra il 1992 e il 1993 e che sembra dimostrare come Di Pietro e colleghi, più che essere aiutati e diretti dai servizi segreti, siano stati controllati e ostacolati.
Nel luglio 1992, un avvocato, Franco Sotgiu, si presenta nell’ufficio di Piercamillo Davigo dicendogli che un suo cliente, l’architetto Bruno De Mico (già coinvolto nell’inchiesta sulle «carceri d’oro»), ha importanti comunicazioni da fargli. Il magistrato si aspetta dichiarazioni a verbale su episodi di tangenti. Ma, dopo un appuntamento andato a vuoto, l’avvocato Sotgiu gli propone un luogo d’incontro alternativo, un appartamento: Davigo, prudente, lo esclude; non accetta alcun incontro sull’inchiesta fuori dai luoghi deputati, il palazzo di Giustizia, le caserme. Viene infine concordato un appuntamento presso la caserma dei carabinieri di via Moscova. De Mico finalmente arriva, ma rifiuta che le sue dichiarazioni siano messe a verbale: non riguardano l’inchiesta, dice, ma la sicurezza dei magistrati. E racconta. Prende spunto dall’arresto di Salvatore Ligresti, appena avvenuto, per mettere in guardia gli uomini del pool: Ligresti, costruttore siciliano potentissimo a Milano, è un personaggio di grande spessore e di altissima pericolosità, dice De Mico, ha rapporti segreti con ambienti criminali italoamericani. Ma proprio per questo, prosegue, vi sono altri «ambienti americani» che sono disponibili a dare una mano al pool, per garantire la sicurezza dei magistrati e per aiutare a riportare in Italia i latitanti di Mani pulite (in quel momento, il cassiere segreto di Craxi Silvano Larini). Quegli «ambienti americani», continua De Mico, sarebbero entrati in azione dopo un segnale che provenisse dal pool: la partecipazione di un magistrato, preferibilmente Di Pietro, a Sixty Minutes, un noto programma trasmesso dal network televisivo statunitense Cbs.
Davigo è perplesso, sente odore di bruciato in questa storia in cui sono evocate la mafia e la Cia: sa che la magistratura italiana non può avere rapporti con i servizi segreti. Sospetta un «trappolone»: che cosa succederebbe se qualcuno riuscisse a dimostrare che Mani pulite accetta di avvalersi di collaborazioni illegittime, vere o immaginarie, magari di 007 made in Usa?
Stende un rapporto per il procuratore Francesco Saverio Borrelli e poi apre un’indagine a carico di De Mico e di ignoti per il reato ipotizzato dall’articolo 246 del codice penale: spionaggio per conto di Stati stranieri. Le perplessità aumentano quando l’avvocato Sotgiu telefona a Davigo chiedendo un incontro immediato: «Le devo parlare, vengo a casa sua». Il magistrato rifiuta e rilancia: «Se vuole, ci vediamo nel suo studio». Anche questa volta Sotgiu rifiuta la verbalizzazione: Davigo allora se ne va, lasciando sul posto un capitano dei carabinieri, che come ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di fonti confidenziali. In questo e in un ulteriore incontro con l’ufficiale, Sotgiu ribadisce per conto di De Mico la disponibilità di non meglio specificati «ambienti americani», che sarebbero pronti a consegnare Larini al pool, purché non sia loro chiesto come Larini sia fatto arrivare in Italia: la proposta, par di capire, è quella di un rapimento stile 007. L’ufficiale, opportunamente istruito, non solo non offre garanzie d’impunità, ma anzi diffida apertamente dal compiere reati. Con questo, i rapporti si interrompono.
Nelle settimane seguenti, Borrelli, accompagnato dal procuratore generale Giulio Catelani, si reca al Quirinale, per informare della vicenda il presidente Oscar Luigi Scalfaro. È accolto con estrema cortesia e grande cordialità. Ma quando comincia a capire il motivo della visita, il presidente smorza progressivamente il suo sorriso e diventa via via più freddo, più distaccato; quasi brusco, al congedo: lascia intendere che la questione non è di sua competenza e che non ne vuole sapere. A un decennio di distanza, i magistrati del pool non hanno ancora maturato certezze su questa vicenda. Reale intromissione di agenzie straniere? Iniziativa personale di De Mico? O «trappolone», come lo chiama Davigo, tentativo di far compiere qualche passo falso ai magistrati?
Circa un anno dopo, nell’autunno 1993, la vicenda De Mico-Cia ha una seconda puntata. Protagonista, il giudice Guido Salvini, impegnato in quegli anni nella complessa indagine sull’eversione di destra che porterà a individuare e mandare sotto processo alcuni responsabili della strage di piazza Fontana. Il braccio destro di Salvini in quell’inchiesta, Massimo Giraudo, capitano del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, raccoglie le dichiarazioni di un personaggio dell’ambiente criminale ed eversivo, Biagio Pitarresi, il quale racconta di essere in contatto con un uomo della Cia in Italia, Carlo Rocchi, che gli ha chiesto di passargli informazioni sulle indagini di Salvini e Giraudo. I due verificano le affermazioni di Pitarresi: Rocchi lavora davvero per gli americani. Intercettano un suo rapporto sulle indagini inviato via fax a un ufficio dell’ambasciata Usa a Roma. Negli anni precedenti ha svolto missioni anche all’estero, in America Latina e in Corea, e tra l’altro è stato l’ultimo a vedere vivo il banchiere Michele Sindona, in carcere, prima della sua misteriosa morte per avvelenamento avvenuta il 22 marzo 1986. Rocchi, del resto, ha stretti contatti anche con il capocentro di Milano del Sisde (il servizio segreto civile italiano), tale «dottor Rinaldi».
Ma Pitarresi riferisce anche altro: Rocchi gli ha chiesto di attivarsi pure su Mani pulite. «L’ultimo favore richiestogli», riporta un rapporto del Ros datato 17 dicembre 1993, «era stato quello di rintracciare il Larini prima che lo trovassero le forze di polizia italiane (...). In relazione a tale sollecitazione giunta al Pitarresi, si rappresenta che lo stesso, nel corso dell’ultimo colloquio, faceva presente che tra qualche mese sarebbe stata effettuata un’operazione di screditamento del dottor Di Pietro, basata su un servizio da esso prestato presso la polizia di Stato».
Dalle telefonate intercettate, risulta che Rocchi è in contatto con l’architetto De Mico, che qualche mese prima aveva tentato di «agganciare» Davigo promettendogli, appunto, di «rintracciare» Larini. E proprio la fotocopia del passaporto di De Mico viene trovata durante una perquisizione degli uffici di Rocchi effettuata dagli uomini di Giraudo. Pitarresi racconta che Rocchi gli ha chiesto addirittura di organizzare un attentato a Gerardo D’Ambrosio. In seguito, un tentativo di azione contro il coordinatore del pool comunque ci sarà: il 14 aprile 1995 la scorta di D’Ambrosio metterà in fuga un misterioso personaggio appostato, con in mano un fucile, nel giardino di una scuola davanti all’abitazione del magistrato.
Quando Zaffra «tradì» l’amico Bettino
Loris Zaffra era l’uomo che doveva succedere a Mario Chiesa. Ex sindacalista, socialista emergente, capogruppo del Psi al Comune di Milano, entra nel ristretto gruppo dei fedelissimi di Craxi e diventa il possibile candidato, dopo la caduta di Mario Chiesa, a diventare sindaco di Milano. Ma è anch’egli arrestato per tangenti, il 30 luglio 1992. Craxi e i dirigenti socialisti difendono strenuamente il loro compagno e rilasciano alla stampa dichiarazioni di fuoco contro i magistrati della Procura milanese: è la prima reazione organizzata contro Mani pulite, che raggiunge i toni più drammatici quando, nell’estate 1992, tre indagati si tolgono la vita.
Tra questi, il parlamentare socialista Sergio Moroni, che si uccide il 2 settembre nella sua casa di Brescia, dopo che gli erano già stati recapitati tre avvisi di garanzia. Prima della morte, invia al presidente della Camera Giorgio Napolitano una lettera in cui, ammettendo di aver avuto un ruolo nel sistema di finanziamenti illeciti che sostenta i partiti italiani, protesta contro ciò che gli sembra essere una decimazione casuale della classe politica: «Non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali. (...) Non lo accetto nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flessibile, non resta che il gesto».
Dopo quella drammatica estate, Zaffra, considerato un «irriducibile», smentisce egli stesso il suo leader, confessando la sua partecipazione al sistema delle tangenti e concorrendo a determinare il secondo avviso di garanzia a Craxi. Non solo: in un’intervista a Marcella Andreoli su Panorama del 24 gennaio, Zaffra ricapitola la sua vicenda e ribalta sui compagni di partito l’accusa di aver emarginato gli indagati, anche quelli che poi si sono tolti la vita. Racconta: arrestato una prima volta, era uscito dal carcere senza aver parlato. «Venivo guardato come un essere strano, miracolato, proprio perché ero stato anche a San Vittore».
Poi, la svolta: «Avevo l’impressione di essere fuori dal mondo, di essere l’unico rimasto a presidiare un palazzo deserto, mi sono sentito in una trincea vuota. E dopo tanti giorni di carcere ho capito che stavo combattendo una battaglia persa in partenza. La reazione del sistema era assolutamente ipocrita. Aveva ragione il povero Sergio Moroni, quando nella sua lettera, scritta prima del suicidio, aveva parlato di “ruota della fortuna”: sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici: sei stato arrestato? peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile».
Zaffra rifiuta anche la teoria craxiana del complotto: «Ero in carcere quando scrisse, ad agosto, quei tre famosi corsivi contro l’inchiesta Mani pulite e contro il giudice Di Pietro. Sbaglia. Non dovrebbe prendere scorciatoie e vedere complotti dietro l’angolo, giudici mossi da scopi politici. È vero, i magistrati possono abusare dello strumento della carcerazione preventiva, ma non estorcono false confessioni: alla fin fine l’imputato racconta la verità. Sarà amaro ammetterlo, ma è così».
Quando Tangentopoli la fa Cosa nostra
Nell’autunno 1993 a casa del procuratore Borrelli avviene un incontro tra i due pool giudiziari più amati (e temuti) d’Italia: quello di Milano e quello di Palermo. Sono presenti Di Pietro, Gherardo Colombo, Davigo. Arrivano dalla Sicilia il procuratore Gian Carlo Caselli con Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Luigi Patronaggio. Il vertice ha lo scopo di mettere a confronto le esperienze delle due Procure: molti dei costruttori indagati e arrestati a Milano hanno cantieri aperti anche in Sicilia. La Lodigiani, la Cogefar del gruppo Fiat, la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, la Grassetto di Ligresti, le cooperative rosse dell’Emilia-Romagna sono attive a Milano come a Palermo. E in Sicilia, mentre a Milano si sviluppa Mani pulite, è in corso una complicata indagine su mafia e appalti, che aveva scoperto la Tangentopoli siciliana: una torta da 1.000 miliardi, su cui vegliava Cosa nostra. A Palermo era chiamata «Tavulinu»: il tavolino a tre gambe a cui erano seduti gli imprenditori, i politici e gli uomini della mafia. È il colonnello Mario Mori, capo del Ros, che ne parla a Di Pietro, presentandogli i risultati del rapporto «Mafia e appalti» stilato già nel 1991 dal giovane capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. Dopo l’incontro con Mori, Di Pietro, accompagnato da De Donno, vola a Roma e il 12 novembre 1992 interroga in carcere Giuseppe Li Pera, rappresentante in Sicilia di una grande impresa edile friulana, la Rizzani De Eccher. Poi si mette all’opera: «Faccio opera di pubbliche relazioni con gli avvocati degli imprenditori che sono attivi sia a Milano sia in Sicilia», racconta Di Pietro. «Sondo se è possibile avere aperture nelle due direzioni. E ottengo qualche risultato». Milano-Palermo: indagini incrociate per due Tangentopoli gemelle.
Dieci anni dopo, gli entusiami per Mani pulite del biennio 1992-93 sono completamente svaporati. Il tifo da stadio si è trasformato in indifferenza, o addirittura in ostilità. Riprendono però in tutta Italia le manifestazioni per la giustizia: a Firenze, a Milano, a Roma. E ancora a Milano, sabato 23 febbraio, al Palavobis, proprio per ricordare i dieci anni di Mani pulite.
Alla fine di questa storia, ecco un ultimo rivolo di quelle inchieste. È in corso a Milano un processo che vede accusati, per corruzione, due giudici, un imprenditore e il suo legale. I fatti risalgono a diversi anni fa: centinaia di milioni versati su conti esteri ai due giudici perché emettessero sentenze favorevoli all’imprenditore. La pubblica accusa ha in mano prove molto circostanziate e convincenti. Nel frattempo, però, l’imprenditore è divenuto, a furore di mezzo popolo, presidente del Consiglio. E mezzo mondo si chiede: se sarà condannato, che cosa farà Silvio Berlusconi? Accetterà la sentenza? Il presidente della Repubblica gli chiederà di dimettersi? O gli chiederà di tornare in Parlamento per la riconferma della fiducia? O, forse, il presidente del Consiglio, forte del mandato popolare, convocherà manifestazioni di piazza in suo favore e contro i giudici? Ne va del destino dell’Italia, non solo delle sue mani insaponate sotto il rubinetto.
L'alfabeto di mani pulite
Arresti. Tra il 1992 e il 1994, gli anni d’oro di Mani pulite, 70 Procure italiane hanno indagato 12 mila persone e realizzato 5 mila arresti. A Napoli il record: 554. A Milano, su 5 mila indagati, in dieci anni si sono avute 588 condanne davanti al giudice per l’udienza preliminare e 645 davanti al tribunale. Sono 1.471 le persone con processi ancora in corso. Tra le assoluzioni, moltissime sono quelle per prescrizione. Quelle nel merito, invece, sono solo il 14,5 per cento (la media italiana di assoluzioni è oltre il 20 per cento).
Bluff. Mani pulite non sarebbe neppure iniziata senza i bluff di Di Pietro. Prima forzatura: chiede al capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, a cui si è affidato un piccolo imprenditore di Monza costretto a pagare tangenti a Chiesa, di compiere l’arresto proprio lunedì 17 febbraio, quando è di turno Di Pietro. Seconda forzatura: fa credere al suo capo, Borrelli, di essersi dimenticato di depositare gli atti in tempo per celebrare il processo per direttissima a Chiesa, per la sola tangentina di 7 milioni; così intanto prosegue le indagini. Terza forzatura: fa credere a Chiesa che gli imprenditori stanno confessando e agli imprenditori che sta parlando Chiesa; risultato, parlano tutti. Più volte i magistrati del pool fanno credere agli avvocati di sapere più di quanto sanno. Esito: molti indagati si precipitano a confessare, prima di essere accompagnati a San Vittore. Qualche volta il bluff non riesce: nel 1993, per esempio, dopo avere indagato a tempo pieno per due mesi su Primo Greganti e le «tangenti rosse», fanno credere di essere arrivati a un passo da Achille Occhetto e Massimo D’Alema, segretario e vicesegretario del Pds. Gli avvocati si muovono, ma questa volta nessuno abbocca.
Calzino. Davigo vorrebbe rivoltare l’Italia come un calzino. Lo abbiamo letto mille volte. Ma lo ha detto veramente? Tutto nasce dopo l’arresto, il 25 luglio 1994, del responsabile dei servizi fiscali della Fininvest, Salvatore Sciascia, per le tangenti pagate alla Guardia di finanza. «Chi l’ha autorizzata a pagare?», gli domanda Di Pietro. «Paolo Berlusconi», risponde Sciascia. Dopo questa confessione, Paolo Berlusconi diventa un ricercato e un latitante. L’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni dichiara: «Se avessi un fratello latitante gli direi di consegnarsi subito, ma per fortuna ho una sorella veterinaria». E il ministro della Giustizia Alfredo Biondi: «Berlusconi deve decidere secondo il senso dello Stato. Lo stato di famiglia è un’altra cosa...». Giuliano Ferrara, allora ministro dei Rapporti con il Parlamento, dice: «Il governo non ha fratelli, ma non possiamo consentire che rovescino come un calzino tutto, dalla bottega dell’artigiano a grandi corporation come la Fininvest e la Fiat». È a questo punto che Davigo ribatte: «Ma in quale Paese un ministro potrebbe accusare i magistrati di rivoltare la nazione come un calzino?». Da quel giorno, grazie a un’abile campagna mediatica, Davigo passerà alla storia come il pm che voleva «rovesciare l’Italia come un calzino».
Fiorino. Il 29 luglio 1994 Paolo Berlusconi si consegna a Di Pietro e ammette di aver autorizzato le tangenti alla Finanza. Fa scudo al fratello Silvio: «Sciascia», assicura, «dipendeva soltanto da me». Di Pietro, allora, gli mostra un documento: una donazione di 500 milioni a Sciascia elargita nel 1988 da Silvio: «Lei ne sapeva niente?». «No». «E allora vede che lei non conta niente?». Paolo, a quel punto, deve ammettere che per le questioni strategiche tutti, nel gruppo, fanno capo a Silvio. E ottiene gli arresti domiciliari, lasciando il palazzo di Giustizia da un’uscita secondaria, nascosto nel bagagliaio di un furgoncino: un Fiat Fiorino beige.
Giustizialismo. Oggi sono tutti contro il «giustizialismo» (definizione sbagliata: il giustizialismo è quello di Peron). Ieri, invece, i deputati della Lega agitavano il cappio in Parlamento (Luca Leoni Orsenigo, 16 marzo 1993). Quelli dell’Msi, non ancora An, il 1 aprile 1993 assediavano la Camera e ne bloccavano per 50 minuti gli ingressi, tirando monete con le fionde. Erano giovani camerati che indossavano una maglietta con la scritta: «Siete circondati, arrendetevi». Ed erano guidati dai seguenti parlamentari, che il ministero dell’Interno segnalò e censurò: Buontempo, Nania, Maceratini, Rositani, Martinazzo, Pasetto, Matteoli, Poli Bortone, Gasparri.
Mela marcia. Così erano definiti, dai vertici dei loro partiti, Mario Chiesa e i primi politici inquisiti. Racconta Piercamillo Davigo: «Un indagato in carcere mi chiese: “Che cosa hanno scritto del mio arresto?”. Io gli diedi i giornali che avevo sotto braccio, in cui era stato qualificato dai suoi dirigenti “una isolata mela marcia”. Subito mi disse: “A sì? Adesso, dottore, le descrivo il resto del cestino”».
Zanzone. «Zanza», a Milano, è il piccolo malavitoso furbo. E «Zanzone» viene chiamato Di Pietro da alcuni cronisti giudiziari per le sue furbizie. Esempio. Quando viene arrestato Roberto Mongini, democristiano, vicepresidente della Sea (l’azienda che gestisce gli aeroporti milanesi), Davigo e Colombo si dannano l’anima per convincerlo a confessare le sue tangenti, ma Mongini resta a San Vittore zitto per 16 giorni. Una sera, i tre del pool hanno un invito da amici. Colombo e Davigo arrivano puntuali. Di Pietro si fa vivo solo verso mezzanotte, con un gran sorriso sornione sulle labbra. Dice ai colleghi: «Piercamillo, mi devi pagare da bere: sai, sono passato per caso da San Vittore. Mongini collabora». Poi spiega il metodo usato: «Ho preso quattro faldoni a caso pieni di documenti, sono entrato in cella e gli ho detto: veda un po’ di fare i suoi conti. Lui ha guardato i faldoni e poi ha cominciato a parlare». È un esempio del «metodo Di Pietro», insuperabile negli interrogatori, fatto di piccole astuzie ma anche di grande capacità di porre le domande giuste, di intuito, di abilità a entrare in sintonia con l’indagato. Con il procedere dell’inchiesta e del sostegno entusiastico di massa al magistrato simbolo di Mani pulite, confessare a Di Pietro diventa poi un titolo di merito: gli indagati vogliono confessare a lui e solo a lui. Per questa sua capacità psicologica di far collaborare gli indagati viene chiamato anche «la Madonna». Molti indagati, in quei mesi, vedono «la Madonna» e parlano.
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