Da Diario del 05/07/2002

L'inchiesta vecchio stile

Un’indagine sotto inchiesta

La Digos è stata tagliata fuori, il ministero dell’Interno accentra tutto. Senza risultati

di Mario Portanova

Le lettere di Marco Biagi sono solo l’ultimo colpo a un’indagine che non gira. Gli investigatori bolognesi le hanno lette sui giornali e sono rimasti di sasso. Il loro malumore è aumentato, perché l’indagine non decolla e certe decisioni dei vertici non si capiscono proprio. Prendete, per esempio, la Digos del capoluogo emiliano: nella più importante inchiesta di terrorismo dell’ultimo decennio è relegata ai margini. Tant’è che, per esempio, le immagini raccolte da varie videocamere di sorveglianza la sera dell’omicidio sono state mostrate subito agli uomini della Squadra mobile, ma solo una quindicina di giorni fa a quelli delle squadre Delta della Digos. Cioè al personale che periodicamente controllava la casa di Biagi, obiettivo sensibile, e che magari avrebbe potuto riconoscere in quelle immagini facce già viste in via Valdonica. Che meglio di altri avrebbe potuto intravedere nei nastri personaggi contigui all’eversione. Per tre mesi non ne ha avuto la possibilità.
Sull’omicidio Biagi indaga una task force di 30-40 persone, per lo più arrivate da fuori, coordinata dal capo della Squadra mobile di Venezia, Vittorio Rizzi. Rita Parisi, segretaria provinciale del sindacato di polizia Siulp, raccoglie e ufficializza il malcontento di molti: «Le modalità investigative scelte dal Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno destano grosse perplessità», afferma. «A tutt’oggi non abbiamo una visione chiara sulle logiche che portano a certe scelte, ma l’impressione è che siano frutto di una visione accentratrice: si è creato un ufficio artificiale. Da tempo denunciamo una mutazione genetica della Digos», continua Rita Parisi, «impiegata soprattutto in ordine pubblico e servizi agli stadi, e poco nell’intelligence e nella conoscenza approfondita del territorio. La Digos ha un suo dirigente, ma le indagini vengono guidate da un altro funzionario: questo rischia di portare sovrapposizioni di competenze, conflitti, problemi di comunicazione».
Un investigatore confida le stesse perplessità: «Sembra che l’indagine proceda su due binari, uno ordinario e uno di cui non si sa nulla, sul quale si muovono i funzionari venuti da fuori. Il personale lavora sodo, ma è la prima volta che capita una cosa del genere. Sembra una partita tutta interna al ministero».

MINISTERO DI FAMIGLIA. C’è malcontento alla Digos e anche all’Ucigos, l’ufficio centrale dell’antiterrorismo. Giovanni Aliquò, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp), lo registra e ci va giù pesante: «In questi anni alle Digos sono stati assegnati compiti impropri», spiega. «Sono squadre investigative e informative, che richiederebbero personale di alto livello, invece si sono viste assegnare personaggi di tutt’altro profilo, dai vertici agli agenti, attraverso il meccanismo clientelare, il comparaggio, le cordate interne, le appartenenze sindacali. La cosa ha provocato uno scadimento qualitativo del flusso di informazioni». Per la task force bolognese, secondo Aliquò, sono state scelte «le persone giuste per il compito sbagliato, sono valide, ma il grosso di loro non ha esperienza di polizia politica». Ma perché non sono stati presi i migliori dirigenti delle Digos italiane, invece di investire di tutto le Squadre mobili, abituate a reprimere la criminalità tradizionale? Il segretario dell’Anfp quasi detta la risposta: «Da qualche anno c’è una gestione familistica della polizia. Si ragiona senza avere una visione globale delle risorse, anche umane, favorendo gli amicucci della parrocchietta».
In questo quadro, dopo oltre cento giorni dall’omicidio di via Valdonica, di elementi concreti sugli assassini del professore ce ne sono pochi, così come appare ferma l’indagine romana sull’omicidio D’Antona, da cui sono passati più di tre anni. La pista telematica, basata sul telefonino utilizzato per inviare la rivendicazione dell’omicidio Biagi al sito Caserta News, pare arenata: la Procura di Bologna ha affermato che il cellulare era rubato e fornito di scheda ricaricabile, quindi anonima. Un furto un po’ anomalo, non un semplice borseggio, denunciato a Bologna solo dopo che gli investigatori impegnati nel caso Biagi erano andati a chiederne conto. In teoria, per attivare la sim card di un cellulare (Wind, in questo caso) bisogna lasciare al rivenditore nome, cognome, codice fiscale e altri dati personali. In realtà non tutti i rivenditori sono ligi alle regole e nelle indagini ci si trova di fronte a carte intestate a nomi di fantasia, a volte insulti e slogan pittoreschi. Non esiste invece alcun internet cafè romano su cui puntare, come si era detto poco dopo l’omicidio, perché i computer degli internet cafè sono collegati direttamente in rete. Un internet cafè fu invece utilizzato per la rivendicazione dell’omicidio D’Antona.
La Procura di Bologna ha anche disposto numerose perquisizioni in ambienti dell’estrema sinistra, non sulla base di indizi concreti su singole persone, ma giusto per «sondare» il terreno alla ricerca di elementi utili. La stessa Procura ha definito una di queste perquisizioni, nei confronti di Sergio Spina e Domenico Maracino, «un fatto di routine, una operazione cartacea». Anche qui, insomma, nulla di determinante. L’inchiesta romana su Massimo D’Antona seguì una strada simile, indirizzandosi per esempio sui Carc (Comitati di appoggio alla resistenza - per il Comunismo), un’organizzazione estrema ma tutt’altro che clandestina, anche se il leader Giuseppe Maj è da tempo irreperibile: ha un sito internet facilissimo da trovare (www.carc.it), dove ci sono indirizzi e numeri di telefono delle sedi locali. Nel sito si auspicano la rivoluzione e la dittaura del proletariato, non si piange certo la morte di Biagi e D’Antona, ma il giudizio sugli attentati è negativo. Nel comunicato della segreteria nazionale dei Carc del 21 marzo 2002 si legge: «La morte di Biagi, come quella di D’Antona tre anni fa, favorisce il processo di ricostruzione del partito comunista o lo ostacola? (...) Ogni lavoratore avanzato e ogni comunista ha molti strumenti per dare una risposta a questa domanda: questa azione non favorisce il processo di ricostruzione del partito in atto, anzi!». L’inchiesta romana sui Carc è stata archiviata.
Ciò non toglie che, secondo un esperto investigatore, le nuove Brigate rosse «oggi sono poche decine di persone, ma cercano il consenso esterno. Non più un’élite isolata che procede autonomamente andando a colpire i punti di mediazione, come nel caso di Moro; questi colpiscono i simboli di problemi concreti, come appunto i diritti del lavoro. Così qualcuno all’esterno, che magari subisce sulla propria pelle la flessibilità e la perdita di diritti, può condividere azioni cruente come gli assassinii di consulenti impegnati in quelle riforme».
Gli elementi concreti a disposizione sono pochi e allora qualche investigatore comincia a esercitare la logica su quello che c’è, e che logico non sembra: Marco Biagi implorò protezione e non la ottenne; qualcuno sottovalutò la situazione non trovando i riscontri di alcune minacce telefoniche; le Br peraltro non hanno mai minacciato le proprie vittime; alla fine, però, Biagi è stato ucciso sul serio. «Il professore avrebbe potuto avere un interlocutore diretto, una persona di cui si fidava, che magari era in contatto con certi ambienti e gli riferiva delle minacce», ragiona un altro investigatore. «Biagi non poteva denunciare direttamente la cosa, per non coinvolgere l’interlocutore, e allora può aver calcato la mano sulle minacce, che erano concrete». Una spiegazione coerente con la fonte «attendibilissima» citata da Biagi nella lettera a Parisi che tira in ballo le «minacce» di Cofferati.
L’idea che Cofferati «minacci» Biagi sembra surreale. Nessuno si è comunque preoccupato di andare a vedere cosa pensano le nuove Br del leader della Cgil. Nella rivendicazione spedita a Caserta News, che gli investigatori giudicano assolutamente attendibile (a differenza di altre rivendicazioni telefoniche), si critica «il sindacato confederale» che cerca di «recuperare un equilibrio attraverso battaglie sui “diritti”, apparentemente universali in quanto diritti, in realtà nella loro “esigibilità” correlati alle differenti condizioni di competitività aziendale o territoriale nonostante lo sfoggio di posizioni egualitariste professate oggi da Cofferati». Nella rivendicazione dell’omicidio D’Antona, si rimprovera la «linea antiproletaria» assunta da Cofferati quando definì l’intervento Nato in Jugoslavia una «necessità contingente». In un volantino del Nucleo proletario rivoluzionario, che si ispira esplicitamente alle Br-Pcc e rivendica la bomba trovata alla sede Cisl di Milano il 6 luglio, il segretario della Cgil è il «cane da guardia dei padroni». Il nostro investigatore riprende i fili del ragionamento: «Cofferati rappresenta l’ostacolo più grosso nella ricerca del consenso perseguita dalle Br, perché canalizza la protesta dei lavoratori nei binari democratici». Biagi, vale la pena ricordarlo, fu ucciso quattro giorni prima della grande manifestazione sindacale del 23 marzo a Roma. Che di Cofferati fu il maggior successo in carriera. Nonostante l’omicidio di Bologna.

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