Da Diario del 05/07/2002
L'inchiesta vecchio stile
Il divo Claudio. In arte, Scajola
Un professore si sentiva minacciato e lo diceva a tutti. Forse a troppi. Alla fine venne ucciso. Il ministro che avrebbe dovuto garantirgli la sicurezza lo ha definito, a tre mesi dall’omicidio, un «rompicoglioni». Perché Claudio Scajola si pensa così forte?
di Enrico Deaglio
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MILANO.
Questo testo. La Rai ha stabilito che, se il ministro dell’Interno Claudio Scajola definisce il morto ammazzato Marco Biagi un «rompicoglioni», si deve dire che ha detto «rompiscatole». Questo è avvenuto perché Scajola è un uomo potente, che vigila su tutti noi italiani. Ci auguriamo che garantisca anche i rompicoglioni. Anche se siamo pessimisti. Leggere per credere.
Fino a venerdì scorso era «l’uomo che non c’era». Non c’era mai, Claudio Scajola. Non era a Genova al G8, benché fosse il responsabile. Era a Roma, a coordinare dal Viminale? Aveva lasciato la gestione della piazza a Gianfranco Fini e ai colonnelli di An? Sì. Ma lui, il ministro, dov’era? Non era nemmeno al Viminale. Non sapeva nulla del coordinamento della piazza, non sapeva niente della morte di Carlo Giuliani, seppe della scuola Diaz solo molte ore dopo. Non sapeva niente della caserma di Bolzaneto. Non sapeva nulla dei manganelli «tonfa», della squadretta del dottor Canterini. Non sapeva niente della sedizione dei poliziotti napoletani, ma la approvò. E naturalmente non sapeva nulla delle minacce al professor Marco Biagi. Però aveva imparato a stare davanti alle telecamere. Aveva un suo stile: poche parole – in genere banali – accompagnate da lunghe pause. Il tutto confezionato in un doppiopetto grigio. Maria Novella Oppo sull’Unità scrisse che sembrava «il moviolone». Organizzava retate di puttane, forniva cifre di espulsioni di clandestini, muoveva prefetti e questori, tranquillizzava gli italiani a proposito del terrorismo islamico.
Silvio Berlusconi lo aveva definito «il migliore» e lui lo aveva preso in parola. Claudio Scajola, infatti, pensava di diventare il prossimo presidente del Consiglio e lo aveva praticamente annunciato ai deputati e ai senatori del suo partito. Questo il suo scenario: alla fine del 2005, Silvio Berlusconi – che dovrebbe riuscire a schivare o attenuare nel frattempo condanne giudiziarie – viene eletto al Quirinale, carica a cui tiene e che gli permetterà di varare l’amnistia «tombale» per tutto ciò che riguarda se stesso e il suo entourage. Alle elezioni politiche del 2006, Scajola diventa il candidato della Casa delle libertà, per la carica di presidente del Consiglio: chi ha interesse ad avere un buon collegio sa da che parte deve mettersi; i tempi non sono poi così lunghi. Ma, quando Claudio Scajola ha espresso ai colleghi il suo itinerario, ha subito visto che non era stato ben accettato. Chiunque capisce che Scajola non ha l’appeal (né i soldi) di Berlusconi, che gli alleati finora gestiti dal carisma (e dai soldi) di Berlusconi non si faranno mettere all’angolo e che senza Berlusconi il partito Forza Italia può andare incontro a un tracollo. In breve, l’inquietudine è palpabile: il più grande partito italiano senza il suo leader può anche dissolversi (Beppe Pisanu cita il caso di Solidarnosc che, dopo aver portato Walesa alla presidenza della Repubblica polacca, nella seguente tornata elettorale precipitò al 2 per cento). L’abbandono di Silvio Berlusconi, che in Forza Italia Scajola ha dato per sicuro, rischia di provocare uno sconquasso politico paragonabile a quello che seguì Tangentopoli nel 1992.
Si trattava di un’ipotesi seria? Claudio Scajola – un duro politico regionale cresciuto nella destra democristiana ligure (ai tempi soprannominato dai suoi «il killer») improvvisamente entrato nell’inner circle di Arcore – poteva davvero pensare di fare il grande salto? Molti ne dubitavano, ma lui se ne era convinto. Segreti ne conosceva, faldoni ne aveva, ambizione non gli mancava. Dall’altra parte aveva, come candidato possibile per il 2006, nientemeno che Marcello Dell’Utri, che di faldoni ne ha altrettanti e che nell’inner circle è entrato trent’anni fa. Chi non lo ama (e in Forza Italia sono molti) dice di lui che è un uomo molto modesto, ma nello stesso tempo è un megalomane. Ha difficoltà nell’eloquio, scansa per paura i congiuntivi, gestisce la macchina del partito con arroganza, gode dei piccoli e grandi privilegi della sua carica, ha fatto perdere la Liguria nelle ultime amministrative, ma è convinto di essere un Capo. Al Capo (quello di Arcore) ha però reso grandi servigi, maneggiando per lui affari delicati.
L’INCIDENTE DI CIPRO. Quello che è successo a Cipro, in realtà, è quello che avrebbe potuto fare Silvio Berlusconi. Ha chiamato due giornalisti e gli ha detto che lui non aveva nessuna colpa della morte di Marco Biagi, perché il morto non aveva alcun diritto a una scorta, perché era solo un approfittatore mitomane della cosca del ministro Maroni. Difficile pensare che dell’argomento Scajola non abbia parlato, in questi mesi, con il presidente del Consiglio. Facile pensare che un uomo politico in carriera abbia pensato di copiare lo stile del suo mentore. Silvio Berlusconi si è costruito una carriera spiegando in pubblico che i magistrati sono come la banda della Uno bianca, che la Guardia di finanza è un’associazione a delinquere, che Massimo D’Antona l’hanno ucciso i suoi compagni, che i malati di Aids devono fare le sabbiature perché così di abituano ad andare sotto terra. Gli è sempre andata bene. Perché non dovrebbe andare bene anche al ministro dell’Interno, quando a Cipro chiama due giornalisti per dire forte e chiaro che Biagi era un «rompicoglioni»?
Il megalomane Claudio Scajola però non ha capito subito la portata di quanto aveva detto e forse ha pensato che il controllo politico sull’informazione fosse una pratica già risolta. Solo dopo alcune ore gli uomini del governo (Paolo Bonaiuti, Gianni Letta, lo Scajola medesimo al quale qualcuno deve aver spiegato che non si possono insultare i morti) hanno cercato di intervenire sul Corriere della Sera e sul Sole-24 Ore, senza riuscirci. Riuscirono invece con il Tg1, che pure era presente a Cipro. Il bon ton televisivo dell’era del Polo trasformò la sera dopo «rompicoglioni» in «rompiscatole». Si sa, ore 20, fascia protetta: non si dicono parolacce e non si fanno vedere pedofili.
Un passo indietro. Roma, 20 marzo 2002. Il ministro dell’Interno Claudio Scajola (che era a Washington) torna a Roma per informare il Parlamento sull’omicidio del professor Marco Biagi. Comunica (senza che ne possa sapere nulla) che la pistola che l’ha ucciso è la stessa che uccise Massimo D’Antona, che l’omicidio «va a inserirsi nel momento di particolare tensione sociale, legato in modo specifico alle proposte di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». Annuncia che «il Consiglio dei ministri, nella riunione ancora in corso, ha deciso che i funerali del professor Biagi saranno funerali di Stato». L’idea del governo è che i funerali di Stato si svolgano in contemporanea con la manifestazione indetta dalla Cgil. L’idea decade perché la famiglia Biagi impedisce i funerali di Stato. Dopo tre mesi, per Scajola, «l’uomo che coltivava la forza delle idee, con nobiltà e coraggio al servizio di un migliore futuro» è diventato «un rompicoglioni che cercava solo il rinnovo della consulenza. Macché figura centrale. Chiedete a Maroni».
Un altro passo indietro. Siamo agli inizi del 2001. Il professor Marco Biagi, giuslavorista, si sente in pericolo perché ha promosso il «patto per Milano», una grottesca legislazione che propone di dare lavoro agli extracomunitari allo stipendio di 600 mila lire al mese. La Cgil non firma il patto, considerandolo pazzesco (i fatti daranno ragione alla Cgil) e Biagi si sente minacciato. Sente la freddezza, l’avversione, l’ostracismo dei colleghi. Ha una scorta, perché una sede della Cisl a Milano è stata oggetto di un attentato. È impaurito. Pensa di poter essere un bersaglio. Sostiene di ricevere minacce telefoniche. Si rivolge a tutti: al prefetto di Bologna, al ministro Roberto Maroni, al sottosegretario Maurizio Sacconi, al presidente della Camera Pierferdinando Casini, al direttore della Confindustria Stefano Parisi. Chiede di essere protetto. Tutto questo avviene tra il luglio e il settembre del 2001, quando ancora dell’articolo 18 non si parla. Ma indubbiamente il caso di questo professore, semisconosciuto, diventa familiare al Viminale, ai servizi segreti, alla Digos, ai vertici della polizia. Chi si occupa (noi cittadini speriamo che qualcuno ci sia) di questi problemi scopre che esiste un mite professore di Bologna che racconta ai quattro venti di essere minacciato. E che fa il nome di Sergio Cofferati, segretario della Cgil. E sappiamo che deve esistere una stanza, un gruppo di persone, che ci deve tutelare. Se questa stanza esiste, sapeva, dal settembre 2001, che il professor Marco Biagi chiedeva insistentemente una scorta, perché intorno a questo nome c’era stato interessamento di questori, prefetti, ministri. Marco Biagi, che forse all’epoca dalle Brigate rosse non era neppure conosciuto, aveva lasciato tracce continue, insistenti, tra gli «addetti alla sicurezza». Mettendo insieme le notizie, le soffiate e i bigliettini (al Viminale vanno molto forte i bigliettini), questo professor Biagi incominciò a configurasi, in certe stanze istituzionali, come una vittima perfetta. Il professore sembrava quasi eleggere se stesso a vittima. Era impaurito, si considerava indifeso, era esposto, si parlava di lui. Sicuramente a lui pensarono, nell’inverno del 2002, i servizi segreti (coordinati dal ministro Franco Frattini) quando pubblicarono le loro previsioni, annunciando che nel mirino erano «personalità del mondo politico, sociale, imprenditoriale maggiormente impegnate nelle riforme economico-sociali e, segnatamente, quelli con ruoli chiave in veste di tecnici e di consulenti». Dal momento che la sua condanna a morte era stata pronunciata dai servizi segreti e pubblicata dal settimanale Panorama, il professor Marco Biagi chiese ancora una volta protezione, ancora una volta senza ottenere risposta. Marco Biagi, inconsapevolmente, aveva costruito la sua figura di vittima perfetta e i professionisti del ramo lo avevano selezionato in una lista di possibili vittime. Marco Biagi, l’eletto.
A questo punto, i lettori possono pensare che le Brigate rosse abbiano – attraverso i loro canali autonomi; ma a questo punto dovrebbero essere un’organizzazione potentissima – individuato in Marco Biagi l’obiettivo da colpire. Ma i lettori possono anche pensare che alle Brigate rosse (se esistono) l’obiettivo sia stato suggerito. Tutto quello che sappiamo finora è che esiste un gruppo di fuoco, che esiste una rivendicazione via internet che attribusice l’omicidio alle Br (gruppo marxista-leninista del Pleistocene) e che alcuni vecchi detenuti hanno applaudito all’operazione. Avrà un futuro politico, Claudio Scajola? Ma sì. Si costituisca una bella scorta, però. Gente fidata.
Questo testo. La Rai ha stabilito che, se il ministro dell’Interno Claudio Scajola definisce il morto ammazzato Marco Biagi un «rompicoglioni», si deve dire che ha detto «rompiscatole». Questo è avvenuto perché Scajola è un uomo potente, che vigila su tutti noi italiani. Ci auguriamo che garantisca anche i rompicoglioni. Anche se siamo pessimisti. Leggere per credere.
Fino a venerdì scorso era «l’uomo che non c’era». Non c’era mai, Claudio Scajola. Non era a Genova al G8, benché fosse il responsabile. Era a Roma, a coordinare dal Viminale? Aveva lasciato la gestione della piazza a Gianfranco Fini e ai colonnelli di An? Sì. Ma lui, il ministro, dov’era? Non era nemmeno al Viminale. Non sapeva nulla del coordinamento della piazza, non sapeva niente della morte di Carlo Giuliani, seppe della scuola Diaz solo molte ore dopo. Non sapeva niente della caserma di Bolzaneto. Non sapeva nulla dei manganelli «tonfa», della squadretta del dottor Canterini. Non sapeva niente della sedizione dei poliziotti napoletani, ma la approvò. E naturalmente non sapeva nulla delle minacce al professor Marco Biagi. Però aveva imparato a stare davanti alle telecamere. Aveva un suo stile: poche parole – in genere banali – accompagnate da lunghe pause. Il tutto confezionato in un doppiopetto grigio. Maria Novella Oppo sull’Unità scrisse che sembrava «il moviolone». Organizzava retate di puttane, forniva cifre di espulsioni di clandestini, muoveva prefetti e questori, tranquillizzava gli italiani a proposito del terrorismo islamico.
Silvio Berlusconi lo aveva definito «il migliore» e lui lo aveva preso in parola. Claudio Scajola, infatti, pensava di diventare il prossimo presidente del Consiglio e lo aveva praticamente annunciato ai deputati e ai senatori del suo partito. Questo il suo scenario: alla fine del 2005, Silvio Berlusconi – che dovrebbe riuscire a schivare o attenuare nel frattempo condanne giudiziarie – viene eletto al Quirinale, carica a cui tiene e che gli permetterà di varare l’amnistia «tombale» per tutto ciò che riguarda se stesso e il suo entourage. Alle elezioni politiche del 2006, Scajola diventa il candidato della Casa delle libertà, per la carica di presidente del Consiglio: chi ha interesse ad avere un buon collegio sa da che parte deve mettersi; i tempi non sono poi così lunghi. Ma, quando Claudio Scajola ha espresso ai colleghi il suo itinerario, ha subito visto che non era stato ben accettato. Chiunque capisce che Scajola non ha l’appeal (né i soldi) di Berlusconi, che gli alleati finora gestiti dal carisma (e dai soldi) di Berlusconi non si faranno mettere all’angolo e che senza Berlusconi il partito Forza Italia può andare incontro a un tracollo. In breve, l’inquietudine è palpabile: il più grande partito italiano senza il suo leader può anche dissolversi (Beppe Pisanu cita il caso di Solidarnosc che, dopo aver portato Walesa alla presidenza della Repubblica polacca, nella seguente tornata elettorale precipitò al 2 per cento). L’abbandono di Silvio Berlusconi, che in Forza Italia Scajola ha dato per sicuro, rischia di provocare uno sconquasso politico paragonabile a quello che seguì Tangentopoli nel 1992.
Si trattava di un’ipotesi seria? Claudio Scajola – un duro politico regionale cresciuto nella destra democristiana ligure (ai tempi soprannominato dai suoi «il killer») improvvisamente entrato nell’inner circle di Arcore – poteva davvero pensare di fare il grande salto? Molti ne dubitavano, ma lui se ne era convinto. Segreti ne conosceva, faldoni ne aveva, ambizione non gli mancava. Dall’altra parte aveva, come candidato possibile per il 2006, nientemeno che Marcello Dell’Utri, che di faldoni ne ha altrettanti e che nell’inner circle è entrato trent’anni fa. Chi non lo ama (e in Forza Italia sono molti) dice di lui che è un uomo molto modesto, ma nello stesso tempo è un megalomane. Ha difficoltà nell’eloquio, scansa per paura i congiuntivi, gestisce la macchina del partito con arroganza, gode dei piccoli e grandi privilegi della sua carica, ha fatto perdere la Liguria nelle ultime amministrative, ma è convinto di essere un Capo. Al Capo (quello di Arcore) ha però reso grandi servigi, maneggiando per lui affari delicati.
L’INCIDENTE DI CIPRO. Quello che è successo a Cipro, in realtà, è quello che avrebbe potuto fare Silvio Berlusconi. Ha chiamato due giornalisti e gli ha detto che lui non aveva nessuna colpa della morte di Marco Biagi, perché il morto non aveva alcun diritto a una scorta, perché era solo un approfittatore mitomane della cosca del ministro Maroni. Difficile pensare che dell’argomento Scajola non abbia parlato, in questi mesi, con il presidente del Consiglio. Facile pensare che un uomo politico in carriera abbia pensato di copiare lo stile del suo mentore. Silvio Berlusconi si è costruito una carriera spiegando in pubblico che i magistrati sono come la banda della Uno bianca, che la Guardia di finanza è un’associazione a delinquere, che Massimo D’Antona l’hanno ucciso i suoi compagni, che i malati di Aids devono fare le sabbiature perché così di abituano ad andare sotto terra. Gli è sempre andata bene. Perché non dovrebbe andare bene anche al ministro dell’Interno, quando a Cipro chiama due giornalisti per dire forte e chiaro che Biagi era un «rompicoglioni»?
Il megalomane Claudio Scajola però non ha capito subito la portata di quanto aveva detto e forse ha pensato che il controllo politico sull’informazione fosse una pratica già risolta. Solo dopo alcune ore gli uomini del governo (Paolo Bonaiuti, Gianni Letta, lo Scajola medesimo al quale qualcuno deve aver spiegato che non si possono insultare i morti) hanno cercato di intervenire sul Corriere della Sera e sul Sole-24 Ore, senza riuscirci. Riuscirono invece con il Tg1, che pure era presente a Cipro. Il bon ton televisivo dell’era del Polo trasformò la sera dopo «rompicoglioni» in «rompiscatole». Si sa, ore 20, fascia protetta: non si dicono parolacce e non si fanno vedere pedofili.
Un passo indietro. Roma, 20 marzo 2002. Il ministro dell’Interno Claudio Scajola (che era a Washington) torna a Roma per informare il Parlamento sull’omicidio del professor Marco Biagi. Comunica (senza che ne possa sapere nulla) che la pistola che l’ha ucciso è la stessa che uccise Massimo D’Antona, che l’omicidio «va a inserirsi nel momento di particolare tensione sociale, legato in modo specifico alle proposte di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». Annuncia che «il Consiglio dei ministri, nella riunione ancora in corso, ha deciso che i funerali del professor Biagi saranno funerali di Stato». L’idea del governo è che i funerali di Stato si svolgano in contemporanea con la manifestazione indetta dalla Cgil. L’idea decade perché la famiglia Biagi impedisce i funerali di Stato. Dopo tre mesi, per Scajola, «l’uomo che coltivava la forza delle idee, con nobiltà e coraggio al servizio di un migliore futuro» è diventato «un rompicoglioni che cercava solo il rinnovo della consulenza. Macché figura centrale. Chiedete a Maroni».
Un altro passo indietro. Siamo agli inizi del 2001. Il professor Marco Biagi, giuslavorista, si sente in pericolo perché ha promosso il «patto per Milano», una grottesca legislazione che propone di dare lavoro agli extracomunitari allo stipendio di 600 mila lire al mese. La Cgil non firma il patto, considerandolo pazzesco (i fatti daranno ragione alla Cgil) e Biagi si sente minacciato. Sente la freddezza, l’avversione, l’ostracismo dei colleghi. Ha una scorta, perché una sede della Cisl a Milano è stata oggetto di un attentato. È impaurito. Pensa di poter essere un bersaglio. Sostiene di ricevere minacce telefoniche. Si rivolge a tutti: al prefetto di Bologna, al ministro Roberto Maroni, al sottosegretario Maurizio Sacconi, al presidente della Camera Pierferdinando Casini, al direttore della Confindustria Stefano Parisi. Chiede di essere protetto. Tutto questo avviene tra il luglio e il settembre del 2001, quando ancora dell’articolo 18 non si parla. Ma indubbiamente il caso di questo professore, semisconosciuto, diventa familiare al Viminale, ai servizi segreti, alla Digos, ai vertici della polizia. Chi si occupa (noi cittadini speriamo che qualcuno ci sia) di questi problemi scopre che esiste un mite professore di Bologna che racconta ai quattro venti di essere minacciato. E che fa il nome di Sergio Cofferati, segretario della Cgil. E sappiamo che deve esistere una stanza, un gruppo di persone, che ci deve tutelare. Se questa stanza esiste, sapeva, dal settembre 2001, che il professor Marco Biagi chiedeva insistentemente una scorta, perché intorno a questo nome c’era stato interessamento di questori, prefetti, ministri. Marco Biagi, che forse all’epoca dalle Brigate rosse non era neppure conosciuto, aveva lasciato tracce continue, insistenti, tra gli «addetti alla sicurezza». Mettendo insieme le notizie, le soffiate e i bigliettini (al Viminale vanno molto forte i bigliettini), questo professor Biagi incominciò a configurasi, in certe stanze istituzionali, come una vittima perfetta. Il professore sembrava quasi eleggere se stesso a vittima. Era impaurito, si considerava indifeso, era esposto, si parlava di lui. Sicuramente a lui pensarono, nell’inverno del 2002, i servizi segreti (coordinati dal ministro Franco Frattini) quando pubblicarono le loro previsioni, annunciando che nel mirino erano «personalità del mondo politico, sociale, imprenditoriale maggiormente impegnate nelle riforme economico-sociali e, segnatamente, quelli con ruoli chiave in veste di tecnici e di consulenti». Dal momento che la sua condanna a morte era stata pronunciata dai servizi segreti e pubblicata dal settimanale Panorama, il professor Marco Biagi chiese ancora una volta protezione, ancora una volta senza ottenere risposta. Marco Biagi, inconsapevolmente, aveva costruito la sua figura di vittima perfetta e i professionisti del ramo lo avevano selezionato in una lista di possibili vittime. Marco Biagi, l’eletto.
A questo punto, i lettori possono pensare che le Brigate rosse abbiano – attraverso i loro canali autonomi; ma a questo punto dovrebbero essere un’organizzazione potentissima – individuato in Marco Biagi l’obiettivo da colpire. Ma i lettori possono anche pensare che alle Brigate rosse (se esistono) l’obiettivo sia stato suggerito. Tutto quello che sappiamo finora è che esiste un gruppo di fuoco, che esiste una rivendicazione via internet che attribusice l’omicidio alle Br (gruppo marxista-leninista del Pleistocene) e che alcuni vecchi detenuti hanno applaudito all’operazione. Avrà un futuro politico, Claudio Scajola? Ma sì. Si costituisca una bella scorta, però. Gente fidata.
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