Da Diario del 31/01/2003
L'inchiesta vecchio stile
Tanto Cirami per nulla
di Gianni Barbacetto
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MILANO
Gli è andata male. È andata proprio male a Cesare Previti, l’Avvocato, e a Silvio Berlusconi, il Cliente. Un anno di lavoro, sedute parlamentari a tempi contingentati, leggi su misura, con conseguente indignazione nel Paese e nascita di un nuovo movimento. E, alla fine, una sentenza della Suprema corte di cassazione rende tutto vano: i processi di Milano resteranno a Milano.
Tra qualche settimana terminerà quello che ha come imputato Previti, tra qualche mese quello che vede alla sbarra anche Berlusconi. Se le sentenze saranno di condanna, l’Italia sperimenterà (ancora una volta) una situazione inedita: avrà un presidente del Consiglio – alle soglie del semestre di guida italiana dell’Unione europea, alla vigilia di una guerra – con una grave condanna penale sul capo. Il personale è politico, diceva uno slogan «di movimento» degli anni Settanta. Silvio Berlusconi è riuscito oggi a realizzare quello slogan. Il suo personale – la possibile condanna nel processo a Milano – è diventato politico. Le istituzioni democratiche sono state coinvolte nelle private vicende penali di un cittadino, un imprenditore di successo che poi è approdato alla politica: può l’Italia, quinta o sesta o settima potenza del mondo, avere un presidente del Consiglio condannato da un tribunale per aver corrotto i giudici e comprato sentenze?
Dietro il castello di carte delle motivazioni presentate dalla difesa sua e del coimputato Previti per spostare il processo a Brescia – pinocchietti di legno portati in aula da mansuete signore; stralunati cantastorie che strimpellano ballate in piazza Duomo; perfino le foto di un’impiegata del tribunale (in bikini su una spiaggia greca, in aula dietro Previti e Berlusconi), affisse casualmente sotto una frase di Platone che stava lì da 10 anni – c’è questa semplice, terribile domanda: possiamo permetterci di avere un premier condannato per corruzione giudiziaria?
Una domanda che profuma di ricatto alla democrazia. E pensare che Francesco Saverio Borrelli, da procuratore della Repubblica di Milano, aveva lanciato alla politica un avvertimento già nel dicembre 1993, quando la vecchia politica era stata azzerata e la nuova doveva ancora affermarsi. In un’intervista al Corriere della sera che gli sarà a lungo rimproverata e che oggi risuona profetica, disse: «Sappiamo che certe coincidenze possono provocare sconquassi, ma che possiamo farci? Io credo proprio niente. E vorrei rilanciare la palla sull’altra sponda, a chi farà politica domani. Quelli che si vogliono candidare si guardino dentro. Se sono puliti, vadano avanti tranquilli. Ma chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte, dico io, prima che arriviamo noi». L’invito non fu ascoltato. E ora siamo qui a subirne le conseguenze.
Resistere, resistere, resistere? Il procuratore generale della Cassazione, pur chiedendo di non spostare i processi, ha rimproverato a Borrelli di aver pronunciato un discorso politico, quando ha invitato a «resistere, resistere, resistere»; e ha sostenuto che Palavobis e Girotondi hanno effettivamente incrinato la serenità ambientale a Milano perché chiedevano la condanna degli imputati. Bisognerebbe rileggere il discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002, quello davvero pronunciato, per capire che Borrelli invitava i cittadini (non i magistrati) a «resistere», come aveva scritto non un pericoloso comunista, ma il presidente del Consiglio della linea del Piave, Vittorio Emanuele Orlando, in una cartolina inviata nel 1918 al padre, Manlio Borrelli, magistrato a Firenze. E a «resistere» non contro il governo, ma contro il crollo del senso morale, propiziato da leggi sulla giustizia varate anche da governi dell’Ulivo.
Quanto ai Girotondi, non hanno mai chiesto la condanna di un imputato, ma semplicemente il suo trattamento alla pari degli altri imputati, dunque la possibilità di processarlo, senza leggi su misura: in difesa del principio costituzionale secondo cui «la legge è uguale per tutti». Se la Cassazione avesse deciso che basta una manifestazione contro la corruzione per rendere una città off limits per i processi sulla corruzione, allora nessun processo di mafia si sarebbe potuto più celebrare a Palermo, dove ogni tanto qualche manifestazione antimafia si fa ancora. Del resto, è ostile al capo del governo una città in cui sindaco, presidente della Provincia e presidente della Regione sono tutti espressi dal Polo? È ostile un tribunale che ha già assolto in diversi processi il «governatore» Roberto Formigoni, il senatore Marcello Dell’Utri e (per altre vicende) lo stesso Berlusconi?
Ma questi fatti, semplici e incontrovertibili fatti, il procuratore generale della Suprema corte ha mostrato di non conoscerli. Ciò nonostante, le Sezioni riunite hanno respinto la richiesta degli imputati. I giudici si erano trovati davanti, pesante come un macigno, la domanda-trabocchetto: può un Paese democratico permettersi di avere il suo presidente del Consiglio condannato per un grave reato? Questa questione, a dar retta alle indiscrezioni circolate negli ambienti politici romani, era stata posta anche dal Quirinale, preoccupato per la stabilità istituzionale. Nei documenti ufficiali, però, la domanda era rimasta sempre tra le righe, mai esplicitata nelle carte inviate in Cassazione per chiedere lo spostamento del processo da Milano.
Era ben articolata invece in pubbliche interviste rilasciate da più d’un esponente della maggioranza di governo. Gaetano Pecorella, parlamentare nello schieramento del Berlusconi politico e avvocato difensore del Berlusconi imputato, l’ha ripetuta, sul Corriere della sera, il giorno prima di andare alla fatale udienza della Cassazione: «Sarà una decisione talmente rilevante, forse per la storia stessa del Paese...». Attenti, dunque, supremi giudici. La vostra decisione segnerà non solo il destino di un processo, ma quello di un Paese.
I giudici hanno respinto al mittente questa preoccupazione politica. E hanno giudicato sui fatti: non ci sono, a Milano, «gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili», come recita la legge Cirami sul legittimo sospetto. Non ci sono, a Milano, situazioni che «pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica». Dunque, niente trasferimento a Brescia né a Perugia, i processi restino a Milano e si concludano come i giudici decideranno di concluderli.
«Causae abent sua sidera»: «Ogni causa ha le sue stelle», dice un vecchio motto latino. L’avvocato Cesare Previti lo ha ripetuto, in un’intervista a Repubblica, il giorno stesso in cui la Cassazione si è riunita per decidere dei suoi processi milanesi. Se ne intende, di stelle, e di come si può intervenire per renderle più propizie, se è vero ciò che l’accusa gli addebita: aver pagato miliardi per comprare sentenze favorevoli ai suoi clienti (il petroliere Nino Rovelli, l’editore Silvio Berlusconi...).
La decisione della Cassazione del 28 gennaio 2003 è l’atto finale di una storia iniziata il 21 novembre 1994, giorno della consegna a Berlusconi dell’invito a comparire davanti alla Procura di Milano. Berlusconi era da qualche mese, per la prima volta, presidente del Consiglio. Il pool di Mani pulite, Antonio Di Pietro in testa, lo accusò di aver pagato tangenti a uomini della guardia di finanza, per ammorbidire controlli fiscali. Subito si scatenò la reazione: è un attacco politico – dissero i sostenitori del premier – contro chi ha vinto le elezioni del 27 marzo 1994. Eppure i fatti, nel 1994, erano ancora chiari: nessun attacco al Berlusconi politico, l’inchiesta sulle tangenti alla guardia di finanza era nata per caso (un giovane vicebrigadiere era andato dai magistrati a riferire che i colleghi gli avevano passato una mazzetta) e il Berlusconi imprenditore finito nell’inchiesta era soltanto uno degli oltre 600 indagati (da Alberto Falk a Guido Roberto Vitale, da Giorgio Armani a Gianfranco Ferrè, passando per l’editore di Tex Willer...
Berlusconi, del resto, era da pochi mesi «sceso in campo» dichiarandosi, almeno in pubblico, entusiasta di Mani pulite: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi», aveva scandito nel discorso del 26 gennaio 1994 in cui aveva annunciato, via videocassetta, la sua decisione di candidarsi alle elezioni. In quel messaggio («L’Italia è il Paese che amo...») prendeva atto dell’«autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati» non dal complotto dei giudici, ma «dal peso del debito pubblico e del sistema del finanziamento illegale dei partiti». E, dopo aver vinto le elezioni, aveva addirittura chiesto a due magistrati del pool, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, di entrare nel suo primo governo, come ministri dell’Interno e della Giustizia. Il 6 febbraio 1994, alla prima convention dei club di Forza Italia a Roma, aveva gridato: «Basta con la vecchia politica, noi vogliamo una politica diversa, nuova, pulita! Siamo l’Italia che risparmia contro l’Italia che ruba. Siamo l’Italia della gente per bene contro l’Italia dei vecchi partiti». Un appello sull’onda emotiva di Mani pulite.
Dopo l’invito a comparire, però, la musica cambia. Comincia la delegittimazione, l’attacco. Prima alle «toghe rosse», poi ai «circuiti delle toghe rosse», infine alla magistratura nel suo complesso. Con qualche significativa eccezione: ai magistrati che si mostrano amici di Berlusconi e del suo schieramento politico (da Tiziana Parenti a Carlo Nordio, da Melchiorre Cirami a Nitto Palma) vengono offerte candidature, seggi alla Camera e al Senato, contratti di collaborazione nei giornali di famiglia.
Intanto le inchieste su Berlusconi si moltiplicano: prova della volontà della magistratura di colpire un avversario politico, dicono dal centrodestra; inevitabile conseguenza di reati commessi, rispondono dalle procure, reati che i giudici devono perseguire poiché sono obbligati ad applicare la legge nei confronti di tutti.
Nel 1995 nasce a Milano un’inchiesta su presunte corruzioni al tribunale di Roma, su un gruppo di potenti magistrati della capitale che, secondo le ipotesi d’accusa, vendevano sentenze e stavano a libro paga di alcuni imprenditori. Dopo molte indagini in Italia e all’estero, i magistrati di Milano Ilda Boccassini e Gherardo Colombo individuano almeno alcune delle sentenze che sarebbero state comprate: quella sul risarcimento miliardario dello Stato alla Sir del petroliere Nino Rovelli; quella sulla vendita delle imprese alimentari pubbliche controllate dalla Sme; quella sul Lodo Mondadori, quando la casa editrice era contesa da Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi. Tutte e tre le sentenze coinvolgono, secondo l’accusa, l’avvocato Cesare Previti, che sarebbe stato l’intermediario dei pagamenti tra gli imprenditori e i giudici (aveva un suo metodo per vincere le cause, conosceva bene le stelle). Le ultime due riguardano direttamente, sempre secondo la procura, anche Silvio Berlusconi. All’inizio le accuse erano sostenute dalla testimonianza di Stefania Ariosto, che dice di essere stata testimone di alcuni passaggi di denaro («A Rena’, te stai a dimentica’ ’a busta!»). Poi le rogatorie giudiziarie all’estero hanno scoperto carte bancarie che documentano passaggi di denaro dagli imprenditori agli intermediari e da questi ai giudici di Roma.
Intanto però Berlusconi, che nel 1995-96 era in gravissime difficoltà – giudiziarie, ma soprattutto aziendali, finanziarie e politiche – si è ripreso. Ha quotato la sua azienda in Borsa, è stato legittimato come «padre costituente» dalla Bicamerale di Massimo D’Alema, ha rafforzato il suo ruolo di leader dell’opposizione. Fino al 2001, anno in cui vince le elezioni e torna al governo (il centrosinistra non aveva varato alcuna legge antimonopolistica sul sistema televisivo, né sul conflitto d’interessi).
A questo punto cominciano le manovre legislative per disinnescare le indagini: una nuova legge sul falso in bilancio azzera in un sol colpo tre, forse quattro processi in corso a Milano con imputato Berlusconi; quella sulle rogatorie punta a rendere inutilizzabili le prove (specie bancarie) raccolte all’estero; non ottiene però il suo scopo, poiché è resa vana dalle giuridicamente più forti convenzioni internazionali; allora la legge Cirami, approvata dal Parlamento in tempi da record, reintroduce il legittimo sospetto e permette il trasferimento dei processi dalla loro sede naturale.
Una legge su misura, un abito cucito sulle figure di Previti e Berlusconi, protestano l’opposizione e il nuovo movimento dei Girotondi. Ai promotori sfuggono conferme: indica «ciò che succede a Milano» come molla del suo intervento lo stesso promotore della legge, il senatore Melchiorre Cirami, in una intervista al Corriere della sera. E Gaetano Pecorella, sempre al Corriere, il 26 gennaio 2003 dichiara: «Sarebbe poco leale dire che quelle leggi sarebbero state fatte comunque (...). La legge sul legittimo sospetto è sicuramente giusta ed è stata scritta in relazione alla vicenda milanese».
La Corte di cassazione, intanto, è stata blandita: il governo Berlusconi ha concesso ai suoi giudici consistenti aumenti di stipendio, e lavora per attribuire loro nuove competenze, tolte a quei rompiscatole del Csm.
Non è servito a nulla. I giudici della Cassazione hanno detto no. Ora Berlusconi e lo stuolo dei suoi avvocati, perso il treno per Brescia, potrebbero tentare con nuove motivazioni di saltare su quello per Perugia. «Non si capisce perché Milano, e quindi Brescia, debbano giudicare ipotesi di corruzioni che sarebbero state commesse da magistrati di Roma in processi che si sono svolti a Roma», ha dettato Pecorella al Corriere.
Dunque, a Perugia, a Perugia. È quella la sede competente a giudicare i magistrati di Roma. Tanto, Perugia e Brescia pari sono: ciò che conta è tirare in lungo. Il vero obiettivo non è avere una sentenza a Brescia o a Perugia o in qualche altro più tranquillo tribunale d’Italia (come fare a stracciare quelle maledette carte bancarie, destinate a traslocare in ogni sede?), ma è non arrivare a sentenza. Mai. In nessun luogo.
La strategia processuale è perdere tempo e arrivare, finalmente, alla prescrizione. E non (tanto) perché una condanna avrebbe conseguenze gravissime per la credibilità del Paese e delle sue istituzioni. Quanto per gli esiti concreti di una condanna a Berlusconi nei processi di Milano. Il giorno dopo un’eventuale condanna per il Lodo Mondadori, per esempio, Carlo De Benedetti potrebbe iniziare un’azione civile per tornare in possesso della più grande casa editrice italiana, sostenendo che gli fu scippata con una sentenza comprata. E potrebbe chiedere di essere risarcito per tutti gli anni in cui la Mondadori è stata illegittimamente controllata da Berlusconi. Sarebbe il disastro economico per Berlusconi e un terremoto per l’Italia (Mondadori è quotata in Borsa, Mediaset pure...).
I prossimi mesi assisteremo alle contromosse. Il gioco sarà pesante, perché pesantissima è la posta. Berlusconi, avendo genialmente fatto diventare politici i suoi fatti personali, ora ha al suo servizio non soltanto i suoi avvocati, consulenti e dipendenti, ma un’intero schieramento politico, quattro o cinque partiti, più della metà dei deputati e senatori. Tutti costretti a difenderlo perché le sue faccende personali sono diventate le questioni politiche da cui dipende la salute del loro schieramento. Così Berlusconi potrà continuare la sua carriera istituzionale, darà pacche sulla spalla a Bush e a Blair, farà le corna nelle foto ricordo, abbraccerà il suo amico Putin. Ma tutto, per lui, sarà più difficile. Metterà il consenso contro la legge, i voti contro il diritto. Potrà essere tentato di ricorrere alla piazza. Ma gli sarà più difficile tentare di conquistare, dopo Palazzo Chigi, il Quirinale. Le sue aziende (sue per «mera proprietà») potranno subire i contraccolpi delle cause penali e civili. E soprattutto durissimo gli sarà convincere i partner dell’Europa e del mondo, con qualche pacca sulle spalle, che l’Italia è un Paese normale.
Manovre sul fronte sud. In più, dopo aver ricevuto una bruciante sconfitta sul fronte Nord, Berlusconi resta ancora pericolosamente impegnato sul fronte Sud. Nelle settimane precedenti la decisione della Cassazione, dalla Sicilia gli sono arrivati un paio di colpi durissimi. L’ultimo collaboratore di giustizia, Nino Giuffré, braccio destro del capo dei capi Bernardo Provenzano, ha rivelato durante un’udienza del processo per mafia contro Marcello Dell’Utri, che Berlusconi avrebbe incontrato, nella sua villa di Arcore, l’allora capo di Cosa nostra, Stefano Bontate. Venticinque anni fa – racconta Giuffré – «con la scusa di andare a trovare» il boss Vittorio Mangano assunto da Berlusconi come fattore della villa di Arcore, Bontate si recò da Palermo a Milano per incontrare l’imprenditore emergente Silvio Berlusconi. Giuffré ha raccontato anche i rapporti tra Cosa nostra e Forza Italia: «Il popolo era stufo della Dc, degli uomini politici, u ’nni putiva ’cchiù e non ne può più. Allora ha visto in Forza Italia un’àncora... E noi, furbi, abbiamo cercato di prendere al balzo la palla, è giusto? Tutti Forza Italia. E siamo qua (...). Forza Italia era vista allora come la nuova Dc, come l’àncora di salvezza di noi mafiosi (...), in cambio di favori, dell’eliminazione dell’ergastolo, del 41 bis, della confisca dei beni...».
Dichiarazioni sconvolgenti sul capo del governo e il suo partito. Eppure i quotidiani e le tv, che pure fino al giorno prima avevano presentato Giuffré come testimone attendibile, tengono bassa la notizia, non la ritengono (tranne l’Unità di Furio Colombo) degna della prima pagina. Il New York Times commenta: «In molti Paesi accuse di tale serietà potrebbero quantomeno condurre a voci di un imminente crollo del governo, ma in Italia sono a malapena registrate (...). Decenni di accuse sull’influenza della mafia sulla politica italiana, alcune reali, altre immaginate, hanno intorpidito gli italiani a tal punto che i quotidiani danno più spazio alle notizie sul maltempo».
Il secondo colpo a Berlusconi è ancora più duro e ancora più invisibile sui media. La Corte d’assise d’appello di Caltanissetta poco prima di Natale ha depositato le motivazioni della sentenza bis sulla strage di via D’Amelio in cui sono morti Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta: con molte pagine che riguardano Berlusconi. Non c’è solo mafia nella strage, ribadisce la sentenza. Anzi, ammazzare Borsellino – in maniera così spettacolare e a poche settimane dall’omicidio di Giovanni Falcone – è stata per Cosa nostra una scelta addirittura controproducente, nel breve periodo, perché ha innescato una dura reazione antimafia dello Stato. Eppure Cosa nostra l’ha ammazzato: perché aveva garanzie «esterne» e trattative in corso.
«Poco prima della strage di Capaci, Ganci gli aveva confidato (a Cancemi, ndr) che Riina si era incontrato con persone importanti», scrive la sentenza. «È bene precisare che Cancemi non ha mai affermato che queste persone fossero Dell’Utri e Berlusconi, e ha anzi detto che nessuno gli aveva mai confermato esplicitamente che questo incontro vi era stato, anche se il Cancemi non ha nascosto di avere elaborato quell’idea. Cancemi, quindi, avanzava solo sul piano deduttivo un collegamento fra la consumazione delle stragi e gli incontri con “persone importanti”, di cui aveva parlato in precedenza, finalizzati ai mutamenti legislativi cui Riina aspirava. Cancemi istituiva un collegamento di tipo logico tra i rapporti personali che il Riina manteneva, le stragi e i mutamenti legislativi per bloccare e screditare i pentiti. Per Cancemi la motivazione principale della strage di via D’Amelio era di ottenere una modifica immediata della legislazione sui pentiti. Così Riina spiegava l’urgenza di portare a termine l’uccisione del dr. Borsellino. La strage era l’adempimento di un impegno, di un obbligo che aveva contratto con chi gli aveva promesso la modifica della legge».
Prosegue la sentenza: «L’accelerazione soggettivistica che Riina ha dato agli avvenimenti nel corso del 1992, il concentrarsi dell’interesse spasmodico alla soppressione di Paolo Borsellino proprio quel 19 luglio del 1992, non si giustifica con il movente della vendetta per il passato del magistrato. La scelta dei tempi per assassinare il giudice mette in luce la complessità della strategia, elaborata dopo la sentenza del maxiprocesso e la conseguente svolta epocale che essa rappresentava nei rapporti tra Stato, politica e mafia. Mette in luce altresì l’esigenza per Cosa nostra di compiere un’autentica rivoluzione in tali rapporti, attraverso interventi radicali, per rispondere alla condanna e alle sue implicazioni. Nello stesso tempo i contraccolpi della prima strage e il ruolo che Paolo Borsellino stava assumendo nelle settimane successive alla strage di Capaci imponeva l’esigenza della sua immediata soppressione e l’assunzione consapevole dei costi che ciò avrebbe comportato per proseguire nella nuova strategia. Tutto ciò si riflette sul piano esecutivo con il succedersi frenetico di riunioni e incontri, con la mobilitazione dell’intero corpo dell’organizzazione e la necessità per Riina non solo di ordinare la strage, ma anche di spiegarne la necessità e i tempi. Da qui la riunione nella villa di Calascibetta alla quale Riina partecipa non tanto per sollecitare l’esecuzione e verificare lo stato dell’organizzazione, ma per spiegare l’assoluta necessità della perfetta riuscita per le sorti dell’intera organizzazione».
Il giudice doveva morire. Borsellino doveva morire. E subito. A ogni costo: «Non deve sorprendere in quest’ottica che, come ha spiegato Cancemi, nei mesi successivi anche dopo la stretta repressiva Riina ostentasse ottimismo e chiedesse ai suoi pazienza e che Provenzano dopo l’arresto del Riina avesse ribadito che la linea di Riina dovesse essere proseguita, quasi che fosse stato messo in conto un periodo di indurimento dello Stato che doveva tuttavia preludere nel tempo a un progressivo ammorbidimento fino alla conclusione del desiderato accordo di più ampio respiro, sulla base delle richieste più volte avanzate (...). Riina aveva messo in conto tutto, anche il 41 bis, non aveva mai dimostrato sorpresa per la reazione dello Stato dopo il 19 luglio, la sua era una prospettiva di lungo periodo: “Alla lunga vinceremo noi”».
Prosegue la sentenza: «L’omicidio del dr. Borsellino (era, ndr) da portare a termine in fretta, con “premura”», perché era in corso «la trattativa sui benefici che Cosa nostra avrebbe ottenuto da quella azione. Riina aveva soggiunto che bisognava mettere in ginocchio le istituzioni e che dovevano dimostrare di essere i più forti. (...). Ganci, quando la riunione si era sciolta, nel commentare con Cancemi le parole di Riina con la frase “questo ci vuole rovinare tutti” soggiunse che il Riina “aveva una certezza” e che stava trattando “una cosa enorme”. Nel corso di analoghe successive riunioni nel corso delle quali Riina aveva assicurato tutti che le cose stavano procedendo secondo i piani, fu affrontato l’argomento del carcere duro che nel frattempo era stato ripristinato per i mafiosi. Riina rispondeva che quella situazione momentanea sarebbe stata superata dagli impegni che lui aveva avuto dalle persone con le quali aveva trattato e che tutto sarebbe stato superato in futuro; che tutto veniva fatto per il bene di Cosa nostra. Invitava a stare tranquilli e ad avere pazienza».
Ma quali erano i motivi di tanta fretta? «La precipitazione e la concitazione con la quale si addivenne alla esecuzione del piano contro Borsellino è da ascrivere, invece, a tre eventi esterni che si connettono tra loro e assumono senso alla luce delle inquietanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (...). La tradizionale attenzione di Cosa nostra nel calibrare le proprie azioni in rapporto ai possibili riflessi sulle decisioni di natura politico-giudiziaria, avrebbe dovuto comportare un’astensione da condotte idonee a far precipitare quelle decisioni in un senso sfavorevole all’organizzazione. Un’azione eclatante di Cosa nostra, in pendenza di situazioni incerte che da quell’azione avrebbero potuto essere pregiudicate (in effetti la strage di via D’Amelio determinò la conversione del decreto legge sul carcere duro con aggravamenti) si giustifica soltanto se, a fronte di quel costo, si fossero prospettati benefici di ben più ampia portata e sia pure a lungo termine (...). A fronte dei malumori dei detenuti nel periodo successivo alle stragi, Bernardo Brusca, compare di Riina, soleva ricordare che certamente il suo compare aveva dovuto con la strage accontentare “qualcuno a cui non poteva dire di no” e quindi ribadiva il concetto fondamentale che ciò che poteva apparire un “male” si sarebbe rivelato nel lungo periodo un bene per Cosa nostra».
Infatti «fra i vecchi boss detenuti, tutti vecchi compagni d’arme di Riina (...) era, quindi, diffusa l’opinione che nella strage di via D’Amelio vi fosse stato un “suggeritore” esterno, al quale il Riina non si era potuto sottrarre. Tale “suggeritore” andava ricercato tra gli interessati all’indagine su mafia e appalti nella quale il dr. Borsellino aveva dichiarato, imprudentemente, di volersi impegnare a fondo, nello stesso momento in cui Tangentopoli cominciava a profilarsi all’orizzonte. In questo senso tanto il Brusca che il Calò ritenevano che la decisione di uccidere il dr. Borsellino, nel momento meno opportuno, dovesse risalire proprio a Bernardo Provenzano, dei due capi corleonesi certamente il più sensibile all’argomento appalti pubblici».
Borsellino e lo stalliere di Arcore. I tre «eventi esterni» che spiegano la fretta di Cosa nostra nell’eliminare a ogni costo Borsellino, per i giudici di Caltanissetta sono:
1. L’intervista rilasciata nel 1991 da Borsellino al giornalista francese Fabrizio Calvi, in cui «racconta la carriera criminale del Mangano, esponente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, estorsore e grande trafficante di stupefacenti, ed espone quanto è a sua conoscenza e quanto ritiene di rivelare sui rapporti tra Mangano, Dell’Utri e Berlusconi. Nel corso dell’intervista il dr. Borsellino, pur mantenendosi cauto e prudente per non rivelare notizie coperte da segreto o riservate, consultando alcuni appunti in suo possesso, forniva indicazioni sulla conoscenza di Mangano con il Dell’Utri e sulla possibilità che il Mangano avesse operato, come testa di ponte della mafia a Milano in quel medesimo ambiente (...). Ma, se così è, non è detto che i contenuti di quell’intervista non siano circolati tra i diversi interessati, che qualcuno non ne abbia informato Salvatore Riina e che questi ne abbia tratto autonomamente le dovute conseguenze, visto che, come abbiamo detto in precedenza, questa Corte ritiene, come Brusca e non come Cancemi, che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere la strage gli interessi di persone che intendeva “garantire per ora e per il futuro”, senza per questo eseguire un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover mantenere promesse. Alla fine di maggio del 1992, dopo la strage di Capaci, Cosa nostra era in condizione di sapere che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio Mangano con Dell’Utri e Berlusconi, rapporti che avrebbero potuto nuocere fortemente sul piano dell’immagine, sul piano giudiziario e sul piano politico a quelle forze imprenditoriali e politiche alle quali fanno esplicito riferimento le dichiarazioni di Angelo Siino, sulle quali i capi di Cosa nostra decisamente puntavano per ottenere quelle riforme amministrative e legislative che conducessero in ultima istanza ad un alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e alla revisione della condanna nel maxi processo. Con quell’intervista Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica ma anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza. Riina aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell’intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo, ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese. È questo il primo argomento che spiega la fretta, l’urgenza e l’apparente intempestività della strage. Agire prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti di quell’intervista potesse prodursi un qualche irreversibile intervento di tipo giudiziario».
2. La trattativa in corso tra Cosa nostra e uomini dello Stato: «Per Brusca, Borsellino muore il 19 luglio 1992 per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato era venuto a conoscenza della trattativa e si era rifiutato di assecondarla e di starsene zitto. Nel giro di pochi giorni dall’avvio della trattativa Borsellino viene massacrato».
3. L’annuncio pubblico, fatto circolare dopo la morte di Falcone, che Borsellino sarebbe diventato procuratore nazionale antimafia.
L’ombra dei servizi segreti. C’è, dunque, una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, sullo sfondo delle stragi del 1992-93. Ma c’è anche l’ombra dei servizi segreti. Secondo un consulente tecnico molto valorizzato nella sentenza, il mago delle analisi dei traffici telefonici Gioacchino Genchi, personaggi misteriosi (ma non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino e forse hanno controllato dall’alto – dal monte Pellegrino – la zona della strage.
Sul monte Pellegrino sorge il Castello Utveggio, bizzarra costruzione in cui ha sede il Cerisde, un misterioso centro studi che, secondo Genchi, copriva un centro del Sisde, il servizio segreto civile in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada. L’analisi dei tabulati delle telefonate di un indagato, Gaetano Scotto, ha evidenziato una chiamata, avvenuta qualche mese prima della strage, tra Scotto e l’utenza del Castello Utveggio. Sul luogo della strage, poi, scompare misteriosamente l’agenda di Borsellino, da cui il magistrato non si separava mai. Un’utenza telefonica clonata, in possesso di boss mafiosi, chiama uno dei villini che si trovano lungo il tragitto che l’auto di Borsellino ha percorso la domenica della strage, ma anche alcune utenze del Sisde. Pochi secondi dopo l’esplosione, dalla sede del Sisde (sempre vuota la domenica, tranne quella domenica) parte una telefonata che raggiunge il cellulare di Contrada. Ma mentre erano in corso queste delicatissime indagini, aveva spiegato Genchi in aula, la pista dei possibili «aiuti esterni» viene bruciata dall’intempestivo fermo di Pietro Scotto e lo stesso Genchi è costretto a farsi da parte.
In conclusione, la sentenza afferma che «non vi è ragione di ricorrere a mandanti occulti o a un terzo livello per ammettere che nei grandi delitti di mafia esistono complicità e connivenze che il sistema non riesce a individuare e a portare alla luce». I giudici, richiamando il contributo portato nel processo da Genchi, sottolineano i «condizionamenti e i veri e propri divieti opposti a quanti all’interno degli apparati pubblici agivano con l’esclusivo intento di ricerca della verità, e nel caso di specie all’indagine su tracce e dati che riconducevano a un sostegno logistico ed informativo al commando mafioso di non identificati soggetti appartenenti ad apparati pubblici».
I giudici così concludono: «Questo processo concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone del telecomando. Ma questo stesso processo è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interessi, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano i “mandanti occulti”, categoria rilevante non solo sotto il profilo giuridico, ma anche sotto quello politico e morale. E quindi qui finisce il processo agli esecutori della strage di via D’Amelio, ma non certamente la storia di questa strage annunciata che deve essere ancora in parte scritta». Il resto della storia dovrà essere scritto nei prossimi mesi.
Gli è andata male. È andata proprio male a Cesare Previti, l’Avvocato, e a Silvio Berlusconi, il Cliente. Un anno di lavoro, sedute parlamentari a tempi contingentati, leggi su misura, con conseguente indignazione nel Paese e nascita di un nuovo movimento. E, alla fine, una sentenza della Suprema corte di cassazione rende tutto vano: i processi di Milano resteranno a Milano.
Tra qualche settimana terminerà quello che ha come imputato Previti, tra qualche mese quello che vede alla sbarra anche Berlusconi. Se le sentenze saranno di condanna, l’Italia sperimenterà (ancora una volta) una situazione inedita: avrà un presidente del Consiglio – alle soglie del semestre di guida italiana dell’Unione europea, alla vigilia di una guerra – con una grave condanna penale sul capo. Il personale è politico, diceva uno slogan «di movimento» degli anni Settanta. Silvio Berlusconi è riuscito oggi a realizzare quello slogan. Il suo personale – la possibile condanna nel processo a Milano – è diventato politico. Le istituzioni democratiche sono state coinvolte nelle private vicende penali di un cittadino, un imprenditore di successo che poi è approdato alla politica: può l’Italia, quinta o sesta o settima potenza del mondo, avere un presidente del Consiglio condannato da un tribunale per aver corrotto i giudici e comprato sentenze?
Dietro il castello di carte delle motivazioni presentate dalla difesa sua e del coimputato Previti per spostare il processo a Brescia – pinocchietti di legno portati in aula da mansuete signore; stralunati cantastorie che strimpellano ballate in piazza Duomo; perfino le foto di un’impiegata del tribunale (in bikini su una spiaggia greca, in aula dietro Previti e Berlusconi), affisse casualmente sotto una frase di Platone che stava lì da 10 anni – c’è questa semplice, terribile domanda: possiamo permetterci di avere un premier condannato per corruzione giudiziaria?
Una domanda che profuma di ricatto alla democrazia. E pensare che Francesco Saverio Borrelli, da procuratore della Repubblica di Milano, aveva lanciato alla politica un avvertimento già nel dicembre 1993, quando la vecchia politica era stata azzerata e la nuova doveva ancora affermarsi. In un’intervista al Corriere della sera che gli sarà a lungo rimproverata e che oggi risuona profetica, disse: «Sappiamo che certe coincidenze possono provocare sconquassi, ma che possiamo farci? Io credo proprio niente. E vorrei rilanciare la palla sull’altra sponda, a chi farà politica domani. Quelli che si vogliono candidare si guardino dentro. Se sono puliti, vadano avanti tranquilli. Ma chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte, dico io, prima che arriviamo noi». L’invito non fu ascoltato. E ora siamo qui a subirne le conseguenze.
Resistere, resistere, resistere? Il procuratore generale della Cassazione, pur chiedendo di non spostare i processi, ha rimproverato a Borrelli di aver pronunciato un discorso politico, quando ha invitato a «resistere, resistere, resistere»; e ha sostenuto che Palavobis e Girotondi hanno effettivamente incrinato la serenità ambientale a Milano perché chiedevano la condanna degli imputati. Bisognerebbe rileggere il discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002, quello davvero pronunciato, per capire che Borrelli invitava i cittadini (non i magistrati) a «resistere», come aveva scritto non un pericoloso comunista, ma il presidente del Consiglio della linea del Piave, Vittorio Emanuele Orlando, in una cartolina inviata nel 1918 al padre, Manlio Borrelli, magistrato a Firenze. E a «resistere» non contro il governo, ma contro il crollo del senso morale, propiziato da leggi sulla giustizia varate anche da governi dell’Ulivo.
Quanto ai Girotondi, non hanno mai chiesto la condanna di un imputato, ma semplicemente il suo trattamento alla pari degli altri imputati, dunque la possibilità di processarlo, senza leggi su misura: in difesa del principio costituzionale secondo cui «la legge è uguale per tutti». Se la Cassazione avesse deciso che basta una manifestazione contro la corruzione per rendere una città off limits per i processi sulla corruzione, allora nessun processo di mafia si sarebbe potuto più celebrare a Palermo, dove ogni tanto qualche manifestazione antimafia si fa ancora. Del resto, è ostile al capo del governo una città in cui sindaco, presidente della Provincia e presidente della Regione sono tutti espressi dal Polo? È ostile un tribunale che ha già assolto in diversi processi il «governatore» Roberto Formigoni, il senatore Marcello Dell’Utri e (per altre vicende) lo stesso Berlusconi?
Ma questi fatti, semplici e incontrovertibili fatti, il procuratore generale della Suprema corte ha mostrato di non conoscerli. Ciò nonostante, le Sezioni riunite hanno respinto la richiesta degli imputati. I giudici si erano trovati davanti, pesante come un macigno, la domanda-trabocchetto: può un Paese democratico permettersi di avere il suo presidente del Consiglio condannato per un grave reato? Questa questione, a dar retta alle indiscrezioni circolate negli ambienti politici romani, era stata posta anche dal Quirinale, preoccupato per la stabilità istituzionale. Nei documenti ufficiali, però, la domanda era rimasta sempre tra le righe, mai esplicitata nelle carte inviate in Cassazione per chiedere lo spostamento del processo da Milano.
Era ben articolata invece in pubbliche interviste rilasciate da più d’un esponente della maggioranza di governo. Gaetano Pecorella, parlamentare nello schieramento del Berlusconi politico e avvocato difensore del Berlusconi imputato, l’ha ripetuta, sul Corriere della sera, il giorno prima di andare alla fatale udienza della Cassazione: «Sarà una decisione talmente rilevante, forse per la storia stessa del Paese...». Attenti, dunque, supremi giudici. La vostra decisione segnerà non solo il destino di un processo, ma quello di un Paese.
I giudici hanno respinto al mittente questa preoccupazione politica. E hanno giudicato sui fatti: non ci sono, a Milano, «gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili», come recita la legge Cirami sul legittimo sospetto. Non ci sono, a Milano, situazioni che «pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica». Dunque, niente trasferimento a Brescia né a Perugia, i processi restino a Milano e si concludano come i giudici decideranno di concluderli.
«Causae abent sua sidera»: «Ogni causa ha le sue stelle», dice un vecchio motto latino. L’avvocato Cesare Previti lo ha ripetuto, in un’intervista a Repubblica, il giorno stesso in cui la Cassazione si è riunita per decidere dei suoi processi milanesi. Se ne intende, di stelle, e di come si può intervenire per renderle più propizie, se è vero ciò che l’accusa gli addebita: aver pagato miliardi per comprare sentenze favorevoli ai suoi clienti (il petroliere Nino Rovelli, l’editore Silvio Berlusconi...).
La decisione della Cassazione del 28 gennaio 2003 è l’atto finale di una storia iniziata il 21 novembre 1994, giorno della consegna a Berlusconi dell’invito a comparire davanti alla Procura di Milano. Berlusconi era da qualche mese, per la prima volta, presidente del Consiglio. Il pool di Mani pulite, Antonio Di Pietro in testa, lo accusò di aver pagato tangenti a uomini della guardia di finanza, per ammorbidire controlli fiscali. Subito si scatenò la reazione: è un attacco politico – dissero i sostenitori del premier – contro chi ha vinto le elezioni del 27 marzo 1994. Eppure i fatti, nel 1994, erano ancora chiari: nessun attacco al Berlusconi politico, l’inchiesta sulle tangenti alla guardia di finanza era nata per caso (un giovane vicebrigadiere era andato dai magistrati a riferire che i colleghi gli avevano passato una mazzetta) e il Berlusconi imprenditore finito nell’inchiesta era soltanto uno degli oltre 600 indagati (da Alberto Falk a Guido Roberto Vitale, da Giorgio Armani a Gianfranco Ferrè, passando per l’editore di Tex Willer...
Berlusconi, del resto, era da pochi mesi «sceso in campo» dichiarandosi, almeno in pubblico, entusiasta di Mani pulite: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi», aveva scandito nel discorso del 26 gennaio 1994 in cui aveva annunciato, via videocassetta, la sua decisione di candidarsi alle elezioni. In quel messaggio («L’Italia è il Paese che amo...») prendeva atto dell’«autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati» non dal complotto dei giudici, ma «dal peso del debito pubblico e del sistema del finanziamento illegale dei partiti». E, dopo aver vinto le elezioni, aveva addirittura chiesto a due magistrati del pool, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, di entrare nel suo primo governo, come ministri dell’Interno e della Giustizia. Il 6 febbraio 1994, alla prima convention dei club di Forza Italia a Roma, aveva gridato: «Basta con la vecchia politica, noi vogliamo una politica diversa, nuova, pulita! Siamo l’Italia che risparmia contro l’Italia che ruba. Siamo l’Italia della gente per bene contro l’Italia dei vecchi partiti». Un appello sull’onda emotiva di Mani pulite.
Dopo l’invito a comparire, però, la musica cambia. Comincia la delegittimazione, l’attacco. Prima alle «toghe rosse», poi ai «circuiti delle toghe rosse», infine alla magistratura nel suo complesso. Con qualche significativa eccezione: ai magistrati che si mostrano amici di Berlusconi e del suo schieramento politico (da Tiziana Parenti a Carlo Nordio, da Melchiorre Cirami a Nitto Palma) vengono offerte candidature, seggi alla Camera e al Senato, contratti di collaborazione nei giornali di famiglia.
Intanto le inchieste su Berlusconi si moltiplicano: prova della volontà della magistratura di colpire un avversario politico, dicono dal centrodestra; inevitabile conseguenza di reati commessi, rispondono dalle procure, reati che i giudici devono perseguire poiché sono obbligati ad applicare la legge nei confronti di tutti.
Nel 1995 nasce a Milano un’inchiesta su presunte corruzioni al tribunale di Roma, su un gruppo di potenti magistrati della capitale che, secondo le ipotesi d’accusa, vendevano sentenze e stavano a libro paga di alcuni imprenditori. Dopo molte indagini in Italia e all’estero, i magistrati di Milano Ilda Boccassini e Gherardo Colombo individuano almeno alcune delle sentenze che sarebbero state comprate: quella sul risarcimento miliardario dello Stato alla Sir del petroliere Nino Rovelli; quella sulla vendita delle imprese alimentari pubbliche controllate dalla Sme; quella sul Lodo Mondadori, quando la casa editrice era contesa da Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi. Tutte e tre le sentenze coinvolgono, secondo l’accusa, l’avvocato Cesare Previti, che sarebbe stato l’intermediario dei pagamenti tra gli imprenditori e i giudici (aveva un suo metodo per vincere le cause, conosceva bene le stelle). Le ultime due riguardano direttamente, sempre secondo la procura, anche Silvio Berlusconi. All’inizio le accuse erano sostenute dalla testimonianza di Stefania Ariosto, che dice di essere stata testimone di alcuni passaggi di denaro («A Rena’, te stai a dimentica’ ’a busta!»). Poi le rogatorie giudiziarie all’estero hanno scoperto carte bancarie che documentano passaggi di denaro dagli imprenditori agli intermediari e da questi ai giudici di Roma.
Intanto però Berlusconi, che nel 1995-96 era in gravissime difficoltà – giudiziarie, ma soprattutto aziendali, finanziarie e politiche – si è ripreso. Ha quotato la sua azienda in Borsa, è stato legittimato come «padre costituente» dalla Bicamerale di Massimo D’Alema, ha rafforzato il suo ruolo di leader dell’opposizione. Fino al 2001, anno in cui vince le elezioni e torna al governo (il centrosinistra non aveva varato alcuna legge antimonopolistica sul sistema televisivo, né sul conflitto d’interessi).
A questo punto cominciano le manovre legislative per disinnescare le indagini: una nuova legge sul falso in bilancio azzera in un sol colpo tre, forse quattro processi in corso a Milano con imputato Berlusconi; quella sulle rogatorie punta a rendere inutilizzabili le prove (specie bancarie) raccolte all’estero; non ottiene però il suo scopo, poiché è resa vana dalle giuridicamente più forti convenzioni internazionali; allora la legge Cirami, approvata dal Parlamento in tempi da record, reintroduce il legittimo sospetto e permette il trasferimento dei processi dalla loro sede naturale.
Una legge su misura, un abito cucito sulle figure di Previti e Berlusconi, protestano l’opposizione e il nuovo movimento dei Girotondi. Ai promotori sfuggono conferme: indica «ciò che succede a Milano» come molla del suo intervento lo stesso promotore della legge, il senatore Melchiorre Cirami, in una intervista al Corriere della sera. E Gaetano Pecorella, sempre al Corriere, il 26 gennaio 2003 dichiara: «Sarebbe poco leale dire che quelle leggi sarebbero state fatte comunque (...). La legge sul legittimo sospetto è sicuramente giusta ed è stata scritta in relazione alla vicenda milanese».
La Corte di cassazione, intanto, è stata blandita: il governo Berlusconi ha concesso ai suoi giudici consistenti aumenti di stipendio, e lavora per attribuire loro nuove competenze, tolte a quei rompiscatole del Csm.
Non è servito a nulla. I giudici della Cassazione hanno detto no. Ora Berlusconi e lo stuolo dei suoi avvocati, perso il treno per Brescia, potrebbero tentare con nuove motivazioni di saltare su quello per Perugia. «Non si capisce perché Milano, e quindi Brescia, debbano giudicare ipotesi di corruzioni che sarebbero state commesse da magistrati di Roma in processi che si sono svolti a Roma», ha dettato Pecorella al Corriere.
Dunque, a Perugia, a Perugia. È quella la sede competente a giudicare i magistrati di Roma. Tanto, Perugia e Brescia pari sono: ciò che conta è tirare in lungo. Il vero obiettivo non è avere una sentenza a Brescia o a Perugia o in qualche altro più tranquillo tribunale d’Italia (come fare a stracciare quelle maledette carte bancarie, destinate a traslocare in ogni sede?), ma è non arrivare a sentenza. Mai. In nessun luogo.
La strategia processuale è perdere tempo e arrivare, finalmente, alla prescrizione. E non (tanto) perché una condanna avrebbe conseguenze gravissime per la credibilità del Paese e delle sue istituzioni. Quanto per gli esiti concreti di una condanna a Berlusconi nei processi di Milano. Il giorno dopo un’eventuale condanna per il Lodo Mondadori, per esempio, Carlo De Benedetti potrebbe iniziare un’azione civile per tornare in possesso della più grande casa editrice italiana, sostenendo che gli fu scippata con una sentenza comprata. E potrebbe chiedere di essere risarcito per tutti gli anni in cui la Mondadori è stata illegittimamente controllata da Berlusconi. Sarebbe il disastro economico per Berlusconi e un terremoto per l’Italia (Mondadori è quotata in Borsa, Mediaset pure...).
I prossimi mesi assisteremo alle contromosse. Il gioco sarà pesante, perché pesantissima è la posta. Berlusconi, avendo genialmente fatto diventare politici i suoi fatti personali, ora ha al suo servizio non soltanto i suoi avvocati, consulenti e dipendenti, ma un’intero schieramento politico, quattro o cinque partiti, più della metà dei deputati e senatori. Tutti costretti a difenderlo perché le sue faccende personali sono diventate le questioni politiche da cui dipende la salute del loro schieramento. Così Berlusconi potrà continuare la sua carriera istituzionale, darà pacche sulla spalla a Bush e a Blair, farà le corna nelle foto ricordo, abbraccerà il suo amico Putin. Ma tutto, per lui, sarà più difficile. Metterà il consenso contro la legge, i voti contro il diritto. Potrà essere tentato di ricorrere alla piazza. Ma gli sarà più difficile tentare di conquistare, dopo Palazzo Chigi, il Quirinale. Le sue aziende (sue per «mera proprietà») potranno subire i contraccolpi delle cause penali e civili. E soprattutto durissimo gli sarà convincere i partner dell’Europa e del mondo, con qualche pacca sulle spalle, che l’Italia è un Paese normale.
Manovre sul fronte sud. In più, dopo aver ricevuto una bruciante sconfitta sul fronte Nord, Berlusconi resta ancora pericolosamente impegnato sul fronte Sud. Nelle settimane precedenti la decisione della Cassazione, dalla Sicilia gli sono arrivati un paio di colpi durissimi. L’ultimo collaboratore di giustizia, Nino Giuffré, braccio destro del capo dei capi Bernardo Provenzano, ha rivelato durante un’udienza del processo per mafia contro Marcello Dell’Utri, che Berlusconi avrebbe incontrato, nella sua villa di Arcore, l’allora capo di Cosa nostra, Stefano Bontate. Venticinque anni fa – racconta Giuffré – «con la scusa di andare a trovare» il boss Vittorio Mangano assunto da Berlusconi come fattore della villa di Arcore, Bontate si recò da Palermo a Milano per incontrare l’imprenditore emergente Silvio Berlusconi. Giuffré ha raccontato anche i rapporti tra Cosa nostra e Forza Italia: «Il popolo era stufo della Dc, degli uomini politici, u ’nni putiva ’cchiù e non ne può più. Allora ha visto in Forza Italia un’àncora... E noi, furbi, abbiamo cercato di prendere al balzo la palla, è giusto? Tutti Forza Italia. E siamo qua (...). Forza Italia era vista allora come la nuova Dc, come l’àncora di salvezza di noi mafiosi (...), in cambio di favori, dell’eliminazione dell’ergastolo, del 41 bis, della confisca dei beni...».
Dichiarazioni sconvolgenti sul capo del governo e il suo partito. Eppure i quotidiani e le tv, che pure fino al giorno prima avevano presentato Giuffré come testimone attendibile, tengono bassa la notizia, non la ritengono (tranne l’Unità di Furio Colombo) degna della prima pagina. Il New York Times commenta: «In molti Paesi accuse di tale serietà potrebbero quantomeno condurre a voci di un imminente crollo del governo, ma in Italia sono a malapena registrate (...). Decenni di accuse sull’influenza della mafia sulla politica italiana, alcune reali, altre immaginate, hanno intorpidito gli italiani a tal punto che i quotidiani danno più spazio alle notizie sul maltempo».
Il secondo colpo a Berlusconi è ancora più duro e ancora più invisibile sui media. La Corte d’assise d’appello di Caltanissetta poco prima di Natale ha depositato le motivazioni della sentenza bis sulla strage di via D’Amelio in cui sono morti Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta: con molte pagine che riguardano Berlusconi. Non c’è solo mafia nella strage, ribadisce la sentenza. Anzi, ammazzare Borsellino – in maniera così spettacolare e a poche settimane dall’omicidio di Giovanni Falcone – è stata per Cosa nostra una scelta addirittura controproducente, nel breve periodo, perché ha innescato una dura reazione antimafia dello Stato. Eppure Cosa nostra l’ha ammazzato: perché aveva garanzie «esterne» e trattative in corso.
«Poco prima della strage di Capaci, Ganci gli aveva confidato (a Cancemi, ndr) che Riina si era incontrato con persone importanti», scrive la sentenza. «È bene precisare che Cancemi non ha mai affermato che queste persone fossero Dell’Utri e Berlusconi, e ha anzi detto che nessuno gli aveva mai confermato esplicitamente che questo incontro vi era stato, anche se il Cancemi non ha nascosto di avere elaborato quell’idea. Cancemi, quindi, avanzava solo sul piano deduttivo un collegamento fra la consumazione delle stragi e gli incontri con “persone importanti”, di cui aveva parlato in precedenza, finalizzati ai mutamenti legislativi cui Riina aspirava. Cancemi istituiva un collegamento di tipo logico tra i rapporti personali che il Riina manteneva, le stragi e i mutamenti legislativi per bloccare e screditare i pentiti. Per Cancemi la motivazione principale della strage di via D’Amelio era di ottenere una modifica immediata della legislazione sui pentiti. Così Riina spiegava l’urgenza di portare a termine l’uccisione del dr. Borsellino. La strage era l’adempimento di un impegno, di un obbligo che aveva contratto con chi gli aveva promesso la modifica della legge».
Prosegue la sentenza: «L’accelerazione soggettivistica che Riina ha dato agli avvenimenti nel corso del 1992, il concentrarsi dell’interesse spasmodico alla soppressione di Paolo Borsellino proprio quel 19 luglio del 1992, non si giustifica con il movente della vendetta per il passato del magistrato. La scelta dei tempi per assassinare il giudice mette in luce la complessità della strategia, elaborata dopo la sentenza del maxiprocesso e la conseguente svolta epocale che essa rappresentava nei rapporti tra Stato, politica e mafia. Mette in luce altresì l’esigenza per Cosa nostra di compiere un’autentica rivoluzione in tali rapporti, attraverso interventi radicali, per rispondere alla condanna e alle sue implicazioni. Nello stesso tempo i contraccolpi della prima strage e il ruolo che Paolo Borsellino stava assumendo nelle settimane successive alla strage di Capaci imponeva l’esigenza della sua immediata soppressione e l’assunzione consapevole dei costi che ciò avrebbe comportato per proseguire nella nuova strategia. Tutto ciò si riflette sul piano esecutivo con il succedersi frenetico di riunioni e incontri, con la mobilitazione dell’intero corpo dell’organizzazione e la necessità per Riina non solo di ordinare la strage, ma anche di spiegarne la necessità e i tempi. Da qui la riunione nella villa di Calascibetta alla quale Riina partecipa non tanto per sollecitare l’esecuzione e verificare lo stato dell’organizzazione, ma per spiegare l’assoluta necessità della perfetta riuscita per le sorti dell’intera organizzazione».
Il giudice doveva morire. Borsellino doveva morire. E subito. A ogni costo: «Non deve sorprendere in quest’ottica che, come ha spiegato Cancemi, nei mesi successivi anche dopo la stretta repressiva Riina ostentasse ottimismo e chiedesse ai suoi pazienza e che Provenzano dopo l’arresto del Riina avesse ribadito che la linea di Riina dovesse essere proseguita, quasi che fosse stato messo in conto un periodo di indurimento dello Stato che doveva tuttavia preludere nel tempo a un progressivo ammorbidimento fino alla conclusione del desiderato accordo di più ampio respiro, sulla base delle richieste più volte avanzate (...). Riina aveva messo in conto tutto, anche il 41 bis, non aveva mai dimostrato sorpresa per la reazione dello Stato dopo il 19 luglio, la sua era una prospettiva di lungo periodo: “Alla lunga vinceremo noi”».
Prosegue la sentenza: «L’omicidio del dr. Borsellino (era, ndr) da portare a termine in fretta, con “premura”», perché era in corso «la trattativa sui benefici che Cosa nostra avrebbe ottenuto da quella azione. Riina aveva soggiunto che bisognava mettere in ginocchio le istituzioni e che dovevano dimostrare di essere i più forti. (...). Ganci, quando la riunione si era sciolta, nel commentare con Cancemi le parole di Riina con la frase “questo ci vuole rovinare tutti” soggiunse che il Riina “aveva una certezza” e che stava trattando “una cosa enorme”. Nel corso di analoghe successive riunioni nel corso delle quali Riina aveva assicurato tutti che le cose stavano procedendo secondo i piani, fu affrontato l’argomento del carcere duro che nel frattempo era stato ripristinato per i mafiosi. Riina rispondeva che quella situazione momentanea sarebbe stata superata dagli impegni che lui aveva avuto dalle persone con le quali aveva trattato e che tutto sarebbe stato superato in futuro; che tutto veniva fatto per il bene di Cosa nostra. Invitava a stare tranquilli e ad avere pazienza».
Ma quali erano i motivi di tanta fretta? «La precipitazione e la concitazione con la quale si addivenne alla esecuzione del piano contro Borsellino è da ascrivere, invece, a tre eventi esterni che si connettono tra loro e assumono senso alla luce delle inquietanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (...). La tradizionale attenzione di Cosa nostra nel calibrare le proprie azioni in rapporto ai possibili riflessi sulle decisioni di natura politico-giudiziaria, avrebbe dovuto comportare un’astensione da condotte idonee a far precipitare quelle decisioni in un senso sfavorevole all’organizzazione. Un’azione eclatante di Cosa nostra, in pendenza di situazioni incerte che da quell’azione avrebbero potuto essere pregiudicate (in effetti la strage di via D’Amelio determinò la conversione del decreto legge sul carcere duro con aggravamenti) si giustifica soltanto se, a fronte di quel costo, si fossero prospettati benefici di ben più ampia portata e sia pure a lungo termine (...). A fronte dei malumori dei detenuti nel periodo successivo alle stragi, Bernardo Brusca, compare di Riina, soleva ricordare che certamente il suo compare aveva dovuto con la strage accontentare “qualcuno a cui non poteva dire di no” e quindi ribadiva il concetto fondamentale che ciò che poteva apparire un “male” si sarebbe rivelato nel lungo periodo un bene per Cosa nostra».
Infatti «fra i vecchi boss detenuti, tutti vecchi compagni d’arme di Riina (...) era, quindi, diffusa l’opinione che nella strage di via D’Amelio vi fosse stato un “suggeritore” esterno, al quale il Riina non si era potuto sottrarre. Tale “suggeritore” andava ricercato tra gli interessati all’indagine su mafia e appalti nella quale il dr. Borsellino aveva dichiarato, imprudentemente, di volersi impegnare a fondo, nello stesso momento in cui Tangentopoli cominciava a profilarsi all’orizzonte. In questo senso tanto il Brusca che il Calò ritenevano che la decisione di uccidere il dr. Borsellino, nel momento meno opportuno, dovesse risalire proprio a Bernardo Provenzano, dei due capi corleonesi certamente il più sensibile all’argomento appalti pubblici».
Borsellino e lo stalliere di Arcore. I tre «eventi esterni» che spiegano la fretta di Cosa nostra nell’eliminare a ogni costo Borsellino, per i giudici di Caltanissetta sono:
1. L’intervista rilasciata nel 1991 da Borsellino al giornalista francese Fabrizio Calvi, in cui «racconta la carriera criminale del Mangano, esponente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, estorsore e grande trafficante di stupefacenti, ed espone quanto è a sua conoscenza e quanto ritiene di rivelare sui rapporti tra Mangano, Dell’Utri e Berlusconi. Nel corso dell’intervista il dr. Borsellino, pur mantenendosi cauto e prudente per non rivelare notizie coperte da segreto o riservate, consultando alcuni appunti in suo possesso, forniva indicazioni sulla conoscenza di Mangano con il Dell’Utri e sulla possibilità che il Mangano avesse operato, come testa di ponte della mafia a Milano in quel medesimo ambiente (...). Ma, se così è, non è detto che i contenuti di quell’intervista non siano circolati tra i diversi interessati, che qualcuno non ne abbia informato Salvatore Riina e che questi ne abbia tratto autonomamente le dovute conseguenze, visto che, come abbiamo detto in precedenza, questa Corte ritiene, come Brusca e non come Cancemi, che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere la strage gli interessi di persone che intendeva “garantire per ora e per il futuro”, senza per questo eseguire un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover mantenere promesse. Alla fine di maggio del 1992, dopo la strage di Capaci, Cosa nostra era in condizione di sapere che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio Mangano con Dell’Utri e Berlusconi, rapporti che avrebbero potuto nuocere fortemente sul piano dell’immagine, sul piano giudiziario e sul piano politico a quelle forze imprenditoriali e politiche alle quali fanno esplicito riferimento le dichiarazioni di Angelo Siino, sulle quali i capi di Cosa nostra decisamente puntavano per ottenere quelle riforme amministrative e legislative che conducessero in ultima istanza ad un alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e alla revisione della condanna nel maxi processo. Con quell’intervista Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica ma anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza. Riina aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell’intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo, ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese. È questo il primo argomento che spiega la fretta, l’urgenza e l’apparente intempestività della strage. Agire prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti di quell’intervista potesse prodursi un qualche irreversibile intervento di tipo giudiziario».
2. La trattativa in corso tra Cosa nostra e uomini dello Stato: «Per Brusca, Borsellino muore il 19 luglio 1992 per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato era venuto a conoscenza della trattativa e si era rifiutato di assecondarla e di starsene zitto. Nel giro di pochi giorni dall’avvio della trattativa Borsellino viene massacrato».
3. L’annuncio pubblico, fatto circolare dopo la morte di Falcone, che Borsellino sarebbe diventato procuratore nazionale antimafia.
L’ombra dei servizi segreti. C’è, dunque, una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, sullo sfondo delle stragi del 1992-93. Ma c’è anche l’ombra dei servizi segreti. Secondo un consulente tecnico molto valorizzato nella sentenza, il mago delle analisi dei traffici telefonici Gioacchino Genchi, personaggi misteriosi (ma non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino e forse hanno controllato dall’alto – dal monte Pellegrino – la zona della strage.
Sul monte Pellegrino sorge il Castello Utveggio, bizzarra costruzione in cui ha sede il Cerisde, un misterioso centro studi che, secondo Genchi, copriva un centro del Sisde, il servizio segreto civile in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada. L’analisi dei tabulati delle telefonate di un indagato, Gaetano Scotto, ha evidenziato una chiamata, avvenuta qualche mese prima della strage, tra Scotto e l’utenza del Castello Utveggio. Sul luogo della strage, poi, scompare misteriosamente l’agenda di Borsellino, da cui il magistrato non si separava mai. Un’utenza telefonica clonata, in possesso di boss mafiosi, chiama uno dei villini che si trovano lungo il tragitto che l’auto di Borsellino ha percorso la domenica della strage, ma anche alcune utenze del Sisde. Pochi secondi dopo l’esplosione, dalla sede del Sisde (sempre vuota la domenica, tranne quella domenica) parte una telefonata che raggiunge il cellulare di Contrada. Ma mentre erano in corso queste delicatissime indagini, aveva spiegato Genchi in aula, la pista dei possibili «aiuti esterni» viene bruciata dall’intempestivo fermo di Pietro Scotto e lo stesso Genchi è costretto a farsi da parte.
In conclusione, la sentenza afferma che «non vi è ragione di ricorrere a mandanti occulti o a un terzo livello per ammettere che nei grandi delitti di mafia esistono complicità e connivenze che il sistema non riesce a individuare e a portare alla luce». I giudici, richiamando il contributo portato nel processo da Genchi, sottolineano i «condizionamenti e i veri e propri divieti opposti a quanti all’interno degli apparati pubblici agivano con l’esclusivo intento di ricerca della verità, e nel caso di specie all’indagine su tracce e dati che riconducevano a un sostegno logistico ed informativo al commando mafioso di non identificati soggetti appartenenti ad apparati pubblici».
I giudici così concludono: «Questo processo concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone del telecomando. Ma questo stesso processo è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interessi, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano i “mandanti occulti”, categoria rilevante non solo sotto il profilo giuridico, ma anche sotto quello politico e morale. E quindi qui finisce il processo agli esecutori della strage di via D’Amelio, ma non certamente la storia di questa strage annunciata che deve essere ancora in parte scritta». Il resto della storia dovrà essere scritto nei prossimi mesi.
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