Da Diario del 06/12/2002

L'inchiesta vecchio stile

Cosa nostra, la soluzione finale

Nino Giuffré, l’ultimo pentito, racconta il «campo di sterminio» di Bernardo Provenzano, a Bagheria. Eccolo, ed ecco la sua storia. Una storia di voti e affari che non si interrompe mai, nemmeno quando arrivano la lupara bianca e l’acido che scioglie i corpi

di Gianni Barbacetto

Articolo presente nelle categorie:
Storia del crimine organizzato in Italia1. Mafia
BAGHERIA, PALERMO.

Questo testo. «Un campo di sterminio» di Cosa nostra. Con queste parole Nino Giuffré, l’ultimi dei «pentiti», ha descritto un’area alla periferia di Bagheria. Siamo andati a visitarla. Un’occasione per fare il punto anche sulla controversa collaborazione di Giuffré, che divide i magistrati palermitani tra entusiasti, scettici e così così.

È alle porte di Bagheria il «campo di sterminio» di Cosa nostra. Lo chiama proprio così – «campo di sterminio» – Antonino Giuffré, l’ultimo dei «pentiti»: «Era un deposito di ferro a Bagheria, situato ai bordi, ai limiti, dell’autostrada Palermo-Catania... In questo posto venivano dati appuntamenti a quelle persone che non erano più ritenute affidabili e una volta che arrivavano lì non facevano più ritorno a casa... Era come un campo di sterminio, uno dei campi di sterminio di Cosa nostra».
«Campo di sterminio» è un’espressione chiave della storia del Novecento. Indica il luogo dell’assassinio. Di più, il luogo della pianificazione scientifica dell’assassinio, della morte come metodo, come ingegneria. E Giuffré è un uomo attento alle parole. Capomafia, braccio destro del capo dei capi Bernardo Provenzano, ha un titolo di studio, un diploma di scuola media superiore, è perito agrario, ha fatto l’insegnante. Ai magistrati che lo interrogano risponde con voce sicura, proprietà di linguaggio, ragionamenti stringenti. Alle domande cui vuole dare risposta affermativa, invece di dire sì, spesso replica: «Perfetto». Quando ha dovuto spiegare che cos’era «il deposito del ferro» di Bagheria, che a volte chiama semplicemente «il ferro», ha detto senza emozione: «È il campo di sterminio di Cosa nostra».
Oggi di quel «campo», proprio a ridosso dello svincolo dell’autostrada, resta un vasto cortile ingombro di materiale per l’edilizia, una costruzione senza intonaco, una rete e un cancello sbarrato. È una proprietà confiscata dallo Stato: è stata il primo tra i beni mafiosi sequestrati, dopo l’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre. Ma non è ancora a disposizione dello Stato: anche dopo il sequestro, vi sono continuate le riuniuni dei mafiosi. Ieri era la Icre, una sigla che significava «Industria chiodi e reti», un’azienda controllata da Leonardo Greco, mafioso di rango. Non fabbricava nulla, in verità, ma vendeva tondino di ferro e altro materiale per l’edilizia a chiunque volesse costruire nella zona. Tutti dovevano acquistare lì: la concorrenza e il libero mercato non sono troppo graditi, nella Sicilia della mafia. Il tondino arrivava dal Nord, da fabbriche vere. Come quella di Oliviero Tognoli, industriale bresciano molto, molto amico degli uomini d’onore. Indagato da Giovanni Falcone, quando la polizia andò a sorpresa ad arrestarlo, non lo trovò: qualcuno aveva fatto una soffiata. Falcone – secondo la testimonianza processuale dell’ex procuratore svizzero Carla Del Ponte – si era convinto che ad avvertire Tognoli fosse stato Bruno Contrada, poliziotto e uomo dei servizi segreti.
Ma la Icre era ben più di un’azienda che vendeva tondino di ferro, reti metalliche, chiodi. Era un’importantissima base di Cosa nostra. Luogo appartato in un contesto ad alta densità mafiosa, era il centro dove i boss potevano incontrarsi e tenere riunioni riservate; ed era il tranquillo mattatoio di Bernardo Provenzano. A partire dal 1981, quando scoppia la «guerra di mafia» che i corleonesi di Totò Riina e Provenzano dichiarano a Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, sono decine e decine gli uomini che entrano «al ferro» e non ne escono più. Strangolati, poi i corpi sciolti nell’acido. In silenzio, senza clamore.
Oggi Giuffré detto «Manuzza» toglie dall’oblio anche questa vecchia vicenda dimenticata e vi aggiunge nomi, fatti, particolari; e soprattutto una definizione destinata a restare: quello era «il campo di sterminio» di Cosa nostra. Lì, rivela Giuffré, avviene una riunione storica. «Siamo agli inizi del 1981, dopo l’uccisione di Bontate e Inzerillo, cioè siamo agli albori dello scoppio della guerra di mafia... Il punto di riferimento era il deposito del ferro a Bagheria, situato ai bordi dell’autostrada Palermo-Catania. Quando siamo arrivati là c’erano diverse altre persone». Giuffré vi arriva con Ciccio Intile, il boss di Caccamo di cui «Manuzza» era allora il braccio destro e di cui poi prenderà il posto. Era presente il padrone di casa, Leonardo Greco, e una decina di persone. «Ha preso la parola Leonardo Greco e ha detto che era iniziata la scalata al potere da parte dei corleonesi e che lui e la sua “famiglia”, in linea di massima, avevano fatto una scelta ben precisa: Bernardo Provenzano. Quindi consigliava, era sottinteso, di schierarsi, i vari mandamenti, con Bernardo Provenzano». È fatta: i corleonesi hanno iniziato la guerra. Per chi non ci sta, o anche solo tentenna, non c’è scampo.
ROCCAFORTE. «Successivamente diciamo che, saltuariamente, Provenzano fa delle capatine al deposito del ferro a Bagheria e questo diventerà, diciamo, la sua roccaforte, cioè il posto dove lui farà tutti, o buona parte, dei suoi appuntamenti». Nel fabbricato in fondo al cortile, Provenzano stabilisce il suo ufficio, da cui guida gli affari di Cosa nostra, quelli militari, ma soprattutto quelli di soldi, relazioni, appalti. Da lui, «al ferro», vanno in pellegrinaggio i capi locali delle famiglie siciliane. «Ricordo benissimo che ci recavamo a Bagheria, “al ferro”, di mattina, e c’era Provenzano», ribadisce Giuffré.
Per chi non era ritenuto fedele al nuovo corso corleonese, «il ferro» diventa la stazione d’arrivo di un viaggio senza ritorno. «È stato anche un posto dove venivano sterminati gli avversari del lato corleonese. Cioè, in questo posto venivano dati appuntamenti anche a quelle persone che non erano più ritenute affidabili, e una volta che arrivavano lì non facevano più ritorno a casa. Venivano uccisi. Quindi, questo posto aveva una duplice funzione: una era come campo di sterminio, uno dei campi di sterminio di Cosa nostra, in modo particolare di Provenzano; secondo, come posto dei suoi appuntamenti con le persone più vicine».
È di martedì 3 dicembre 2002, intanto, la notizia che la Cassazione ha deciso di scarcerare per scadenza dei termini gli uomini del «ferro»: Leonardo Greco, ex proprietario dell’area, suo fratello Niccolò e Vincenzo Giammanco, chiamato «’u ragioniere», addetto alla contabilità delle aziende di Greco e Provenzano. Volonterosi funzionari del «campo di sterminio» di Cosa nostra.

MOSTRI. Sono passati vent’anni, e qualcosa è cambiato a Bagheria. Il traffico è peggiorato, le case abusive sono aumentate, si costruiscono nuove chiese con i soldi del Comune; e Cosa nostra è diventata silenziosa, invisibile. Per il resto, il panorama non è tanto diverso dai tempi in cui Provenzano qui era di casa. Il posto giusto, per il più politico dei mafiosi. «Perché a Bagheria non c’è mai stata distinzione tra mafia e politica, qui la mafia non è mai stata un contropotere, è sempre stata il potere», dice Vincenzo Drago, ex corrispondente del quotidiano L’Ora, ex consigliere comunale comunista, oggi animatore di un prezioso periodico locale, Il nuovo Paese, sottotitolo «Ambiente, cultura, diritti, informazione in un’area ad alta densità mafiosa».
Nel 1972 Drago fu radiato dal Pci «per indisciplina». «Avevo dato le dimissioni dal consiglio comunale, dichiarando che non potevo più stare in un organismo che era nelle mani della speculazione edilizia e della mafia, mentre stava nascendo il piano regolatore». Quel piano poi fu approvato quattro anni dopo, ma oggi si fatica a credere che possa esserci un piano per l’infinito disordine edilizio di Bagheria, con le case che hanno soffocato le ville di tufo rosato, bellissime e struggenti.
Nel Settecento, questa ventosa piana di agrumi, vigneti, fichi d’india (Bab el gherib in arabo significa porta del vento, come scrive Dacia Maraini) era la campagna dei signori palermitani, luogo di villeggiatura dei nobili: il principe di Butera, o l’eccentrico principe di Palagonia, che edificò la Villa dei Mostri, decorata con centinaia di grandi statue in pietra tufacea d’Aspra, gobbi, storpi, draghi, centauri, grifoni, sirene, dame, cavalieri, musicisti... Il principe, narrano le cronache, faceva sedere gli ospiti su morbidi cuscini dentro i quali, però, aveva fatto mettere delle spine.
«Questa villa è come Bagheria», dice Drago, «qui il potere è sempre stato mostruoso. Villa Palagonia passò in proprietà ad antichi sindaci e notai poi inquisiti per “maffia”, come si diceva allora. Don Raffaele Palizzolo, accusato del delitto Notarbartolo, era stato eletto nel collegio di Bagheria. Il prefetto Mori a Bagheria e dintorni arrestò trecento persone, nel 1923, ma dovette anche commissariare le locali sezioni del Fascio. Poi arrivò la Dc di Franco Restivo, che fu anche ministro a Roma ma che a Bagheria aveva il suo feudo elettorale, curato dal suo compare, il capomafia Antonio Mineo. Infine vennero gli andreottiani di Salvo Lima. Nel 1990 qui Giulio Andreotti fece un viaggio trionfale, accompagnato da Lima. A Bagheria», ricorda Drago, «il consiglio comunale è stato sciolto tredici volte, le ultime due nel 1993 e nel 1999».
Qui la mafia non ha mai dichiarato guerra alla politica – come ha voluto fare Riina nel 1992 – perché qui la mafia è sempre stata politica. Poteva dunque esserci posto migliore per Bernardo Provenzano? Voti e affari, sorrisi e strette di mano, comizi e nastri tagliati non si interrompono mai, nemmeno quando entrano in funzione, in silenzio, la lupara bianca e l’acido che scioglie i corpi. Il «campo di sterminio» del «ferro» ha un precedente: nei primi anni Settanta, sul monte Catalfano, di fronte a Bagheria, fu scoperto un cimitero della mafia, furono disseppelliti almeno venti chili di ossa umane. Del resto, Bagheria è forse l’unico paese d’Italia ad avere intitolato una piazza a un mafioso, Pasquale Alfano, solo da poco diventata, dopo le proteste sollevate da Il nuovo Paese, piazza Beppe Montana.

BINGO! A pochi chilometri da Bagheria, a Palermo, si discute del mistero Giuffré, che ha riportato alla luce questa e tante altre storie, vecchie e nuove, di mafia e di politica. La città esulta per il record italiano di vincite al Bingo: Rosalia Ferreri, casalinga, ha sbancato la sala di via Molinari. Grazie al numero 42 ha vinto poco meno di 22 mila euro, mettendo insieme il numero che porta fortuna (23) con quello che annuncia disgrazia (17). La Sicilia è così, fortuna e disgrazia sono sempre mischiate. Tra poco scadranno i 180 giorni che una curiosa legge impone come periodo entro il quale i collaboratori di giustizia devono raccontare tutto, proprio tutto. Per Natale, dunque, i giochi saranno fatti. I verbali degli interrogatori del «nuovo Buscetta», finora blindatissimi, cominceranno a essere depositati nei processi in corso (già fatto per quello Andreotti e per quello contro Marcello Dell’Utri) e daranno origine a nuovi procedimenti. Si capirà finalmente se Giuffré è davvero il «nuovo Buscetta», se porterà fortuna o disgrazia, o entrambe.
Dentro il palazzo di giustizia, tra i magistrati e gli investigatori, ci sono gli entusiasti, sicuri che Giuffré abbia portato nuovi elementi anche sui rapporti tra mafia e politica: i contatti tra gli andreottiani e i boss di Cosa nostra, il passaggio al Psi imposto da Riina nel 1987, il ritorno alla Dc voluto da Provenzano, il tentativo, nei primi anni Novanta, di fare un partito in casa («Sicilia libera») e l’approdo finale a Forza Italia, con la mediazione, tra gli altri, di Marcello Dell’Utri, Massimo Maria Berruti, Gaspare Giudice. Le rivelazioni di Giuffré, sostengono poi gli entusiasti, faranno cortocircuito con quelle di un altro nuovo «pentito» le cui rivelazioni potrebbero essere devastanti: quel Pino Lipari che era il grande consigliere di Provenzano per gli appalti e i rapporti con la politica, l’uomo che ha sostituito Angelo Siino nel ruolo di «ministro dei Lavori pubblici» di Cosa nostra.
Qualcuno, invece, resta del tutto scettico: Giuffré parla, parla, ma racconta cose che già si conoscono, non aggiunge nulla di veramente nuovo e soprattutto processualmente utilizzabile. E poi, come farebbe a svelare eventuali connivenze del potere con la mafia? La commissione da cui dipende oggi la sua vita è espressione di quel potere di cui eventualmente dovrebbe svelare gli scheletri negli armadi. È un effetto della nuova legge sui pentiti, che li schiaccia sulla contingenza politica, obbligandoli a dire tutto entro 180 giorni. Quanto a Pino Lipari, dicono gli scettici, è uno che fa il furbo, che sa tutto e non dice niente. Un nuovo Ciancimino, che non ha rotto davvero con l’organizzazione criminale.
Altri sono più cauti: quasi del tutto scomparsi i dubbi iniziali sull’autenticità della collaborazione di Giuffré, ritengono che dica la verità, anche se con molte omissioni. Sa molto, ma dice quello che vuole; e ciò che non racconta, ci tiene a far capire che lo sa. Studia molto i suoi interlocutori, valuta quanto siano disposti ad approfondire. Sui rapporti di Andreotti con Cosa nostra, per esempio, non aggiunge fatti concreti e determinanti, però conferma il quadro accusatorio e ciò è ancora più importante perché proviene, per la prima volta, da un collaboratore dell’ala Provenzano, non di quella Riina. Anche sui rapporti con Forza Italia, dicono, emergeranno nomi e fatti, promesse e patti. Si esce da un interrogatorio di Giuffré – racconta un magistrato – come si esce da uno di quei film che non sono certamente dei capolavori ma sono molto discussi. Qualcuno dice: è un bel film. Altri dicono: è brutto. Dipende dalle aspettative con cui si era entrati in sala. I risultati delle confessioni di Giuffré sono certamente inferiori al suo spessore di uomo d’onore. Ma di questi tempi, in questo contesto politico, che cosa aspettarsi di più? Chi sperava salti decisivi nella conoscenza di Cosa nostra e dei suoi rapporti con il potere sarà deluso: ha compiuto una scelta di collaborazione di basso profilo, e per di più in questo contesto politico, e con l’imprinting dato dai primi interrogatori – dicono i cauti – che non lo hanno incalzato troppo sui rapporti con la politica. Però Giuffré spiega scenari, racconta episodi, rivela nomi. Ce ne saranno, di novità.

COMPUTER. L’episodio che ha messo tutti in allarme negli ultimi giorni è il tentativo di violare il computer del sostituto procuratore Michele Prestipino, il magistrato di Palermo che ha condotto i primi interrogatori di Giuffré. Questo attacco informatico ha contribuito a compattare l’intera Procura: entusiasti, scettici e così così. Ma che cosa cercavano dentro il computer di Prestipino? E chi ha tentato di strappare informazioni? Le domande evocano comunque risposte inquietanti: non può essere stato un mafioso con la coppola a manipolare il computer. Nessuno lo vuole dichiarare, ma i sospetti sono tutti per qualche uomo degli apparati di Stato. Qualcuno che ha fretta, molta fretta di sapere che cosa sta dichiarando Giuffré, o di che cosa sta parlando Pino Lipari, oppure se c’è qualcuno che sta facendo il doppio gioco.
Doppio gioco? Qui lo scenario si fa terribilmente complesso, prendono forma le più ardite ipotesi dietrologiche, si animano i fantasmi di rapporti tra pezzi di Cosa nostra e pezzi degli apparati. Giuffré, in un interrogatorio a Padova durante il processo Biondolillo, ha raccontato i contrasti insorti tra Riina e Provenzano, cioè tra l’ala stragista (guidata dopo l’arresto di Riina da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Vito Vitale) e l’ala più «politica» (quella di Giuffré, di Carlo Greco e Pietro Aglieri, che conquistano poi anche Benedetto Spera, Raffaele Ganci e Totò Cancemi). «Più di una volta io e Benedetto Spera abbiamo avanzato ufficialmente richiesta a Provenzano per uccidere Brusca», dice Giuffré.
La richiesta non è stata accolta, ma «Manuzza» aggiunge: «Se devo pensare un pochino male, potrei pensare anche altre cose poco belle, che l’arresto di Brusca potrebbe essere stato anche pilotato». Oltre a Brusca, sono finiti in cella anche Bagarella, Vitale e altri dell’ala di Riina, e Riina stesso, senza che i carabinieri abbiano mai perquisito la casa dove viveva. Poi Provenzano, con i suoi massimi consiglieri «politici» Pino Lipari e Masino Cannella – spiega Giuffré – «comincia a portare avanti il processo di sommersione, cioè rendere Cosa nostra invisibile affinché ci si potesse con calma riorganizzare». Ma come ha fatto Provenzano a restare invece imprendibile? E se fosse vera la «malpensata» di Giuffré, come ha fatto a «pilotare» quegli arresti? Provenzano, insomma, ha qualche rapporto sotterraneo con qualche corpo dello Stato?
Forse le due anime di Cosa nostra sono ancora in guerra. Provenzano e i suoi sembrano, oggi, i vincenti: pacati e astuti nel metodo, spregiudicati nei rapporti. Sempre animati dallo spirito di Bagheria, affari e forza, politica e armi, assessori, deputati e «campi di sterminio». Ma Bagarella, dal carcere, ha chiamato a raccolta i suoi uomini ancora liberi: Matteo Messina Denaro è il boss più potente e ricco rimasto in libertà. Forse la partita si gioca non solo sul campo, ma anche nei rapporti con le istituzioni. Chi sarà catturato per primo? Chi ha più strumenti di ricatto? Chi più rapporti con lo Stato? Comunque andrà a finire, da oggi nel lessico italiano l’espressione «campo di sterminio» descrive anche il luogo della morte pianificata dalla più potente e sfuggente delle nostre organizzazioni criminali.

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