Da Diario del 27/06/2003
L'inchiesta vecchio stile
Come inventammo la guerra
Paul Wolfowitz aveva un’idea: imporre la democrazia in tutto il mondo, partendo da Baghdad. Da dove vengono e dove vanno i neocon?
di Giacomo Papi
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Due fantasmi si aggirano per l’America. Il primo ha un’aria familiare e la testa fracassata. L’altro ha un aspetto dimesso ed è circondato da conigli. Quello con il cranio insanguinato è Lev Davidovic Trotzkij, ebreo ucraino, bolscevico, fondatore dell’Armata rossa, massacratore di operai a Kronstadt, esiliato da Stalin, inseguito da Stalin e ucciso da un sicario di Stalin a Città del Messico nel 1940. Quello che allevava conigli (di razza Flemish Giants) è Leo Strauss, filosofo politico tedesco, ebreo, fuggito dalla Germania di Hitler nel 1938 (grazie ai buoni uffici del filosofo nazista Carl Schmitt). Insegnò all’Università di Chicago, scrisse su Platone, Aristotele e Machiavelli. Si circondò di allievi ambiziosi e brillanti, la maggior parte dei quali si dedicò poi ad altri mestieri. Alla politica, al giornalismo, alla storia. Il maestro morì nel 1973. Riposa al cimitero della Knesseth Israel Synagogue di Annapolis, Maryland.
I razionalisti non credono ai fantasmi. Ma sanno che quando ai fantasmi si presta fede, le vite dei vivi cambiano. Sanno che il principio di autorità offre ai morti il potere di influenzare il presente. I fantasmi di Lev Trotzkij e Leo Strauss da alcuni mesi compaiono ovunque. Nei seminari delle università americane, in centinaia di siti e weblog, in decine di articoli dei maggiori giornali del pianeta. Sembrerebbe una moda culturale, e forse un po’ lo è. Sicuramente ha a che fare con questioni decisive. Dalla loro influenza (da quella di Strauss soprattutto) dipenderebbero la guerra in Iraq e la politica estera dell’amministrazione Bush, il valore della verità e la necessità della menzogna in democrazia, il ruolo dell’Onu, il modo in cui l’Impero può oggi governare i suoi satelliti, le strategie da mettere in campo per battere il nemico nell’«attuale scontro di civiltà». Strauss e Trotzkij rappresentano, cioè, le radici filosofiche dell’albero genealogico dei neoconservative, i cosiddetti neocon, una famiglia politica che ha diretto la risposta americana all’11 settembre.
Secondo l’accusa, il presidente mai eletto George W. Bush non sarebbe altro che il pupo di una congrega di filosofi re come Paul D. Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa, Richard Perle, ex presidente del Defence Policy Board che recentemente si è dovuto dimettere per avere fatto troppi affari con quelli che avrebbe dovuto combattere o Douglas Feith, incaricato del Pentagono per la ricostruzione in Iraq. L’elenco potrebbe continuare: si tratta di circa venti persone che occupano ruoli chiave nell’amministrazione Bush. A cui si devono aggiungere gli amici giornalisti e i giornali amici: William Kristol, direttore del Weekly Standard di Rupert Murdoch, il settimanale che all’indomani dell’elezione di Bush titolò, più o meno: «Ecco come li abbiamo fregati», o John Podhoretz del New York Post (sempre di Murdoch), Washington Post, Newsweek, National Review, Public Interest, Commentary. Poi c’è Fox, la televisione di Murdoch che ha sbaragliato Cnn. E ancora, intellettuali come Francis Fukuyama, profeta della «fine della storia», Robert Kagan e Michael Ledeen che fu coinvolto nello scandalo Iran-Contra e che oggi vorrebbe attaccare Teheran (secondo alcuni studiosi fu tra i teorici della strategia della tensione in Italia). Molti di loro sono ebrei, alcuni (come Perle e Feith) vicini al Likud e all’ex premier israeliano Bibi Nethanyau. La loro attività è intrecciata (nel senso che spesso ricoprono cariche ufficiali) con potenti e danarose associazioni come l’American Enterprise Institute (di cui fa parte Lynn Cheney, moglie di Dick), il Project for a New American Century e la Heritage Foundation. Tutti, o quasi, hanno avuto a che fare con Leo Strauss.
IL CODICE STRAUSS. In Strauss l’ambiguità è un metodo, prima che un limite. Un metodo di filosofia e di insegnamento che veniva dall’ermeneutica di Heidegger, ma anche dalla tradizione ebraica. Il suo percorso filosofico è interno al pensiero ebraico nel suo desiderio di assimilazione e di mantenimento dell’identità. La caduta nell’incubo hitleriano tradì questa speranza. Strauss pensò allora che era stata la debolezza della Repubblica di Weimar a lasciare che Hitler prosperasse. Pensò che se Heidegger, che considerava la più grande mente del suo secolo, aveva aderito al nazismo c’era qualcosa di radicalmente malato nella modernità. Scrisse a Karl Lowith, già nel 1946, che «l’ordinamento politico perfetto, come era stato tracciato da Platone e Aristotele, era davvero l’ordinamento politico perfetto. E so molto bene che non può essere restaurato».
Credeva con Churchill che la «democrazia fosse il peggiore dei sistemi possibili, fatta eccezione per tutti gli altri». Un esempio su cui tornava spesso, per mostrare quanto il potere potesse apparire cattivo anche agendo per il bene comune, era tratto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift: quando Gulliver fa pipì sulle case di Lilliput per spegnere un incendio, i lillipuziani pensano a un atto blasfemo. Strauss pensò che il peccato originale della filosofia ebraica era la perdita di Dio, come principio trascendente e ordinatore, come sovrano, operata dall’immanentismo di Spinoza. Come ogni pensatore di destra, riteneva l’uomo cattivo per natura e che solo un potere forte potesse limitarne gli istinti. Si limitò a insegnare e a coltivare quella che definiva «la crema della gioventù». Non fece mai politica attiva, ma incoraggiò i suoi allievi ad andare e moltiplicarsi.
Insegnò che dopo la morte di Socrate, i filosofi avevano imparato a scrivere nascondendo il proprio pensiero per non essere perseguitati dal potere. E che lo stesso metodo potesse essere adottato per comunicare al popolo «nobili bugie» e nascondere verità dannose. Per questo, i grandi filosofi vanno studiati ponendo attenzione ai loro silenzi e alle loro ambiguità, i loro testi vanno decodificati. Sfortunatamente per Strauss e per i suoi, la teorizzazione di un metodo di questo genere e la sua applicazione alla pratica politica spinge a difendersi applicando lo stesso metodo. Sospettare, intraleggere, cercare nelle dichiarazioni ufficiali intenzioni e significati reconditi.
Naturale che intorno a un piatto così ricco, le teorie del complotto fiorissero. Ma dietro ai deliri antisemiti e a una visione della storia esoterica, rimane una verità semplice. I neocon, che fiorirono alla politica nell’amministrazione Reagan, si rafforzarono con Bush senior e rimasero ai margini negli anni di Clinton, hanno trovato il modo, durante gli anni di George figlio, di dettare l’agenda della politica estera americana grazie a una serie di circostanze storiche favorevoli (11 settembre, inadeguatezza in politica estera del Presidente, presenza di Rumsfeld e Cheney nell’esecutivo). Ma il loro potere non va sopravvalutato. Il loro nemico Colin Powell non ha perso la partita, anzi. Un recente sondaggio Time/Cnn afferma che gode della fiducia del 77 per cento degli americani, il più amato tra i Bush boys. In più c’è questa fastidiosa pressione internazionale che vuole stabilire chi abbia mentito di più.
Il dato interessante è che questo gruppo di persone, diverse tra loro per competenze e temi, ma unite tra loro, ha dato forma, nell’insieme, a una ideologia di destra piuttosto raffinata, gratificante per le élite e comprensibile per le masse, percorsa da stilemi e temi tipici della sinistra radical, una destra aperta al mondo e alla storia come terreno di lotta, di difesa e di conquista. Realista e idealista al contempo. Reazionaria nell’accettazione della legge del più forte come regola della storia. Ma, in fondo, ottimista nell’idea che sia possibile esportare libertà e democrazia. In un certo senso, progressista. «Il punto di partenza» ha dichiarato Kenneth Adelman, già consigliere di Ford e Reagan, «è che i conservatori oggi sono per il cambiamento radicale e i progressisti... per lo status quo». Ma che c’entra Trotzkij?
LA TRAVERSATA DI LEV. Verso la fine degli anni Sessanta, un gruppo di giovani intellettuali di sinistra, spesso comunisti, molto spesso trotzkisti, decide di abbandonare le sponde irrequiete e un po’ conformiste della sinistra libertaria, contraria alla guerra in Vietnam e attratta da modelli di vita alternativi, per riaffermare la propria fede nell’America, nella democrazia e nei valori autenticamente americani. Quindi, poche concessioni a mollezze dei costumi e patriottismo a fiumi, coniugato però nel linguaggio dell’intellighenzia. I più famosi tra loro si chiamano Norman Podhoretz, leggendario direttore di Commentary, e Irving Kristol, direttore di The Public Interest cui si deve la definizione di neoconservatore come «liberal che è stato aggredito dalla realtà». Generarono, rispettivamente, John Podhoretz, oggi ras delle pagine degli editoriali del New York Post, e William Kristol, ras di tante cose, tra cui il Weekly Standard, ma anche ex consulente della Enron e capo dello staff di Dan Quayle.
Nelle ultime generazioni di neocon, la componente trotzkista è costituita essenzialmente dalla «terza internazionale e mezzo», come l’ha definita lo storico Stephen Schwartz (lui è per attaccare subito l’Arabia Saudita). Ne fanno parte lo stesso Schwartz, il giornalista Christopher Hitchens (che ce l’ha tanto con Henry Kissinger), lo scrittore Kanan Makiya, iracheno americano («noto ai veterani del trozkismo», scrive Hitchens, «come leader della Quarta internazionale araba») molto ascoltato da Rumsfeld e Wolfowitz e infine – ecco il «mezzo» – Paul Berman, autore di Terror and Liberalism, che pur essendosi schierato in favore della guerra in Iraq non è ancora considerato un neocon fatto e finito. Nonostante questa esiguità numerica, tracce di trotskismo sono rintracciabili ancora oggi nell’ideologia neocon: il concetto di «rivoluzione permanente» che per i neocon è quella democratica americana (Michael Ledeen ha scritto su National Review: «Distruzione Creativa è il nostro nome di mezzo. Noi lo facciamo automaticamente... È venuto il tempo, ancora una volta, di esportare la rivoluzione democratica»), il respiro internazionalista della politica estera, l’ammirazione per l’esercito e l’organizzazione militare (Trotzkij organizzò e diresse l’Armata rossa). Più in basso nella scala dei valori politici, ma ben presente, è la tattica dell’«entrismo» predicata dalla Quarta internazionale, che prescrive ai militanti, nei periodi di scarsa forza politica, di infiltrarsi in altre organizzazioni aspettando tempi propizi. Un modello in qualche misura adottato dai neocon nella strategia di lenta, capillare diffusione nei vari centri del potere, nelle varie amministrazioni (anche avverse come nell’era Clinton), nelle università, nei giornali anche storicamente liberal come The New Republic o The Atlantic Monthly, nelle fondazioni, tra i repubblicani come tra i democratici.
Il terreno di questa trasmigrazione di anime progressiste alla causa dell’America conservatrice - ha scritto il quotidiano canadese National Post - era stato preparato da un altro trotzkista, Max Shachtman, nato ebreo in Polonia nel 1904 ed emigrato negli Usa da bambino. Shachtman aderirì al Partito comunista americano per lasciarlo quando Trotzkij fu espulso dall’Unione Sovietica. Nel 1929 fu il primo americano a fargli visita nell’isola di Prinkipo in Turchia dove era stato esiliato, nel 1933 lo accompagnò a Parigi, nel 1937 lo accolse a Tampico in Messico. Nell’agosto 1940, dopo l’assassinio, fu tra i primi a portare conforto alla vedova Natalia Sedova a Città del Messico. Nonostante i sentimenti che lo legavano a Trotzkij, già nel 1939, ai tempi del patto tra Hitler e Stalin, Shachtman aveva elaborato altre posizioni. Se per Trotzkij l’Urss andava comunque sostenuto contro il capitalismo mondiale, Shachtman era dell’idea che Stalin avesse prodotto un nuovo fenomeno sociale che definiva «collettivismo burocratico», altrettanto nefasto per i lavoratori del capitalismo americano. Nei decenni successivi, Shachtman radicalizzò a tal punto la sua opposizione all’Urss da allearsi, di fatto, con la causa della crociata anti comunista, fino a testimoniare di fronte alla Commissione per le attività anti americane, un’ombra pesante sul suo percorso politico. Era un tipo simpatico, amava il jazz, e capì prima degli altri quanto triste, mostruoso e perdente fosse il modello sovietico. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1972, lavorò per la causa, intrecciando contatti con fiumi di comunisti, da Nicola Chiaromonte a Ignazio Silone. Per capire la trasmigrazione di tanti trozkisti alla destra interventista, all’ubriacatura a stelle e strisce di questi anni, all’alleanza con i fondamentalisti cristiani di Bush junior, la figura di Shachtman rimane fondamentale. Ma c’è un altro motivo per cui Shachtman in questa storia è importante. Ci permette di gettare un ponte tra fantasmi del passato e attori del presente. Tra Lev Trotzkij, Leo Strauss e Paul D. Wolfowitz, che l’Economist ha definito il «velociraptor» dell’amministrazione Bush. Questo ponte si chiama Saul Bellow, grande scrittore.
IL VELOCIRAPTOR. Il trotskista Saul Bellow, il shachtmanita Saul Bellow, il premio Nobel Saul Bellow, ha costruito il suo ultimo romanzo, Ravelstein, intorno alla figura di Allan Bloom, collega e alter ego di Leo Strauss a Chicago, autore nel 1987 di The closing of American mind, opera che viene da molti indicata come la prima divulgazione del pensiero di Strauss presso un pubblico di massa. In Ravelstein Bellow descrive una telefonata privata del 1991 tra Wolfowitz e Bloom all’indomani della decisione di Bush padre di ritirare le truppe americane dall’Iraq fermandosi alle porte di Baghdad. Una decisione presa contro i consigli di Dick Cheney, allora segretario alla Difesa e Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla Difesa per la politica. Nel romanzo di Bellow, Wolfowitz è infuriato, accusa il vecchio George Herbert di essere un mollacchione. Nella famosa intervista concessa a Sam Tannehaus di Vanity fair, quella in cui Wolfowitz avrebbe affermato che la guerra era stata fatta per il petrolio e che le armi di distruzione di massa erano solo una scusa burocratica (la trascrizione integrale pubblicata sul sito della Difesa Usa dimostra che le parole effettivamente pronunciate furono molto più caute e molto meno scandalose), Wolfowitz ride dell’onore della citazione e nega che una simile telefonata sia avvenuta, anche se lascia capire che Bellow non è andato troppo lontano dalla realtà, ha soltanto esagerato e romanzato gli eventi. «Quella conversazione non avvenne mai. Quella telefonata in particolare», spiega Wolfie (Bush lo chiama così). «Bloom... aveva la tendenza a vedere ognuno in grande. Quasi tutti quelli con cui aveva a che fare si trasformavano in personaggi di un dialogo platonico. Era un modo, un modo di guardare al mondo che in un certo senso ti apriva gli occhi...». Quello che è certo è che per Wolfowitz, Richard Perle e i neocon in genere, la decisione di Bush padre di «non finire il lavoro» nel 1991 su consiglio di Colin Powell è stata vissuta come una ferita e un errore fatale a cui porre rimedio alla prima occasione.
La carriera di Paul Dean Wolfowitz è quella di un tecnico che in trent’anni ha servito cinque presidenti, democratici e repubblicani, che è stato ambasciatore americano in Indonesia, il più popoloso Paese musulmano della Terra. L’influenza di Leo Strauss, afferma Wolfowitz, è trascurabile. Il suo vero maestro fu Albert Wohlstetter, anche lui professore all’Università di Chicago, allievo del logico Willard Van Orman Quine, quindi della scuola analitica, lontana dai classici e portata alla risoluzione dei problemi. È proprio Wohlstetter, che fu la mente della politica di armamento e disarmo nucleare americano durante la Guerra Fredda, ad aprire a Wolfowitz le porte alla vita politica attiva. Il lavoro di Wohlstetter, dice Wolfowitz a Vanity fair, è stato «assolutamente seminale. E non derivava, mi creda, dalla lettura di Platone. Né da pregiudizi ideologici di qualsiasi genere. Derivava dalla constatazione di un problema, dall’osservarlo secondo i fatti in modo da vedere che cosa emergeva dalla cosa e farla parlare – un modo di procedere induttivo più che deduttivo – e ritengo che sia questa la differenza tra il pensiero ideologico e il pensiero pragmatico». Sulla cosiddetta «Straussian Connection», Wolfowitz è drastico: «È il prodotto di menti febbricitanti che sembrano incapaci di comprendere che l’11 settembre ha cambiato un sacco di cose nel modo in cui affrontiamo il mondo... Dopo la laurea, ho seguito due terrificanti corsi con Leo Strauss. Uno era sullo Spirito delle leggi di Montesquieu e mi ha aiutato a capire meglio la nostra Costituzione. L’altro sulle Leggi di Platone. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la politica estera Usa fa soltanto ridere». «Strauss è davvero una figura importante. Questo non mi rende un suo discepolo, ma è davvero molto importante». Più avanti: «Penso di essere un miscuglio... Penso di essere un idealista pragmatico». Il problema, data l’influenza di Wohlstetter, è stabilire le origini di questo idealismo. Se anche l’ideologia di Wolfowitz non fiorisce da Strauss, certo un pochino gli somiglia.
Paul Wolfowitz nasce a New York nel 1943, figlio di Jacob, professore di Matematica ebreo, di origine polacca. I Wolfowitz che non emigrarono furono sterminati durante la Shoah. Ha raccontato Paul al New York Times: «Penso che il senso di ciò che accadde in Europa durante la Seconda guerra mondiale abbia modellato molte delle mie convinzioni sulla politica e sulla politica estera». Tra gli allievi del padre c’è Alan Greenspan, il presidente della Federal Reserve, la Banca centrale Usa. Paul si laurea in matematica e fisica alla Cornell University. Dopo la laurea, contro la volontà di papà, va all’Università di Chicago dove studia con Wohlstetter, Bloom e Leo Strauss e ottiene due dottorati in Scienze politiche ed Economia. Risalgono a questo periodo le discussioni con il padre, l’ossessione per la Shoah e la rabbia per la debolezza e la mollezza ebraica e occidentale, che l’hanno resa possibile. Nei primi anni Settanta lavora con il senatore democratico ferocemente anticomunista Henry «Scoop» Jackson dove incontra transfughi trotzkisti e giovani falchi come Richard Perle.
Dopo anni al fianco di Wohlstetter, la carriera di Wolfowitz fiorisce durante l’amministrazione Reagan. Nel 1983 Assistant Secretary of State for East Asian and Pacific Affairs, dal 1986 al 1989 ambasciatore in Indonesia, dal 1989 al 1993, sotto Bush padre, Under Secretary for Defence Policy. Risale a questi anni, al 1992, la Defence Policy Guidance, la cui bozza diffusa dal New York Times provocò furenti polemiche. Nel documento Wolfowitz sostiene che, dopo il crollo dell’Urss, gli Stati Uniti devono prepararsi a combattere una guerra globale, puntare sulla tecnologia militare, impedire la nascita di ogni altra potenza militare. L’ossessione di Wolfowitz, ribadita da molti altri neoconservatori – questa sì straussiana – nasceva da una delusione storica e psicologica. Uno gioca una partita impegnandosi allo spasimo per decenni, e poi un giorno, quando le cose sembrano mettersi bene, l’avversario implode, muore da solo, crolla come un muro friabile. Gli Stati Uniti, sostengono i neocon, non hanno vinto la Guerra Fredda, l’Urss si è dissolta da sola. Una vittoria avrebbe propagato il modello americano in tutto il mondo, spalancando decenni di democrazie in fiore. Il crollo dell’Urss ha invece creato sacche ingovernabili e mantenuto in vita regimi tirannici. Ne consegue che l’Impero americano va imposto con la forza. Perché è il modello migliore, perché il bene dell’America coincide con il bene dell’umanità: ecco le motivazioni quasi hegeliane che abitano l’ideologia neoconservatrice. C’è poi il problema politico della necessità del nemico.
In una lettera a Carl Schmitt, filosofo che diede una base ideologica al nazismo e che fu molto studiato in Unione Sovietica, Leo Strauss scrive: «Poiché il genere umano è intrisecamente cattivo, deve essere governato. Un simile governo può essere stabilito, tuttavia, solo quando gli uomini sono uniti e possono essere uniti soltanto contro altri uomini». Insomma, il nemico è indispensabile. L’America era rimasta orfana dell’Unione sovietica, i neocon avevano compreso quanto potenzialmente fiaccante questo potesse essere. L’America sarebbe stata all’altezza del compito, sosteneva Wolfowitz nel documento del 1992, poi scartato da Bush padre, solo impedendo ad altre superpotenze di nascere. Il concetto di «guerra preventiva» trova qui la sua prima formulazione. Se avesse seguito Strauss, avrebbe anche pensato che la missione era così vitale, per l’America e per il mondo, che un po’ di «nobili bugie» erano necessarie, che si era giustificati a ingigantire la potenza del nemico.
Esiste un documento molto poco noto che può gettare ulteriore luce sui metodi teorizzati e concepiti da Wolfowitz. Soprattutto, in relazione alle polemiche di questi giorni sull’uso dei servizi segreti durante la crisi irachena. Si tratta di un memorandum del 1996, firmato Jack Davis e intitolato Paul Wolfowitz on Intelligence Policy-Relations (P. W. sulle relazioni tra intelligence e politica). È un documento ufficiale della Cia. L’idea di Wolfowitz è molto semplice: l’intelligence deve fornire alla politica gli strumenti per attuare la propria politica. Un coordinamento è necessario, ma per risolvere possibili disaccordi c’è un solo modo: mettere i servizi segreti alle dirette dipendenze del potere politico («La produzione di materiali di intelligence dovrebbe essere guidata dal processo politico»). Wolfowitz auspica continui incontri informali tra servizi e politica in modo tale che «gli agenti apprendano di prima mano quali temi siano nella mente dei politici e su quali particolari aspetti ci sia più bisogno di aiuto».
L’aspetto più interessante riguarda le istruzioni per maneggiare informazioni che contrastano con la strategia politica in atto. «L’ambasciatore Wolfowitz raccomanda che gli analisti portino le cattive notizie all’ufficio di un membro dello staff del politico. L’enfasi deve essere posta sulle nuove prove e scoperte. Poi si lasci all’assistente la decisione di portare le notizie al suo capo». Interessante anche che per Wolfowitz «gli allarmi sono i cugini primi delle cattive notizie». Siamo di fronte, insomma, alla teorizzazione di un uso spregiudicato dei servizi segreti che ha alcune risonanze nel pensiero di Strauss e molte affinità con le varie, ormai dimostrate, manipolazioni e bugie diffuse per preparare la guerra in Iraq.
L’impressione complessiva è quella di un gruppo di intelligenze raffinate, ma troppo spregiudicate. Variamente messianiche nella loro esaltazione della democrazia americana e nella loro, probabilmente sincera, fede nella minaccia rappresentata dal mondo arabo. Per James Woolsey, ex direttore della Cia, la guerra in Afghanistan è stata la prima campagna della Quarta guerra mondiale, essendo la Guerra Fredda la Terza. Un po’ esaltati, insomma. E molto arroganti.
Decisiva, per capire da dove provenga questo sacro fuoco ordinatore, è l’origine ebraica di molti neocon, ancora di più dell’influenza di Strauss, di Wohlstetter e Trotzkij (tutti ebrei, peraltro). Che il trauma della Shoah, prima, e la questione dello Stato di Israele, poi, abbiano alimentato per decenni, in modo drammatico, ideologico, quasi religioso, l’edificazione di una ideologia politica che presenta tinte religiose e messianiche. Il sogno, forse, è ancora quello della completa assimilazione tra fede ebraica e democrazia liberale, un sogno che paradossalmente Strauss aveva dichiarato fallito per sempre. Non è un caso che Richard Perle e Douglas Feith siano molto vicini al quotidiano della destra israeliana Jerusalem Post, né che i metodi militari di Israele godano dell’ammirazione generale. La storia ha molti conti in sospeso e il Ventesimo secolo fatica a finire.
L’impostazione ideologica e perfino gestuale dei neoconservatori si riverbera in Italia nelle posizioni del Foglio di Giuliano Ferrara che, non a caso, segue le gesta neocon dall’inizio e quotidianamente, con toni invariabilmente apologetici e spesso ammirati. Non a caso Ferrara dedicò a Leo Strauss, già nel 1990, una densa e destrissima prefazione appena ripubblicata dal quotidiano. Basti questa didascalia che recita, dopo aver accusato Spinoza di essere «un genio del male moderno» che ha posto «le premesse del nichilismo»: «Come il Sionismo, anche il liberalismo è una benedizione, ma solo a patto che riconosca le proprie debolezze e sappia medicarle creando élite forti e consapevoli. Perché il pensiero debole è così incapace di capire il mondo e di guidare gli uomini e le donne». Un appello all’uso della forza, al pragmatismo in politica e allo slancio ideale che combina il pensiero di Strauss con pose più autoctone di stampo vagamente dannunziano.
L’altra impressione è che la novità rappresentata da costoro e il loro potere non vadano ingigantiti. Pat Buchanan, il più fascista dei membri del Partito repubblicano americano, e acerrimo nemico dei neocon (li accusa di avere rastrellato fondi per trent’anni sottraendoli alle organizzazioni della sana destra americana) fa una annotazione semplice e vera: la loro forza è la loro debolezza. Sono uniti e intelligenti, ma politicamente parlando si tratta di «parassiti». Nessuno di loro è stato eletto. Rimangono espressione dei ceti intellettuali urbani, tecnici che possono stringere temporanee alleanze, ma che verranno sacrificati e messi in disparte quando le cose si metteranno male. L’Iraq di oggi non sembra – come si aspettava Wolfowitz – la Francia che accoglie i liberatori lanciando rose e offrendo vino. E Charles De Gaulle non è certo Ahmed Chalabi, il bancarottiere iracheno, presidente dell’organizzazione di esuli Iraqi National Congress che per un decennio ha rastrellato fondi e pick up Toyota al Congresso per organizzare un’insurrezione contro Saddam mai avvenuta. Oggi è chiaro che Chalabi, introdotto nell’ambiente da Wohlstetter, era l’unica carta su cui puntavano Wolfowitz, Doug Feith e, soprattutto, Richard Perle. E che si trattava di un due di picche. Mentre la statua di Saddam veniva abbattuta, Wolfowitz, che è di gran lunga il più intelligente della banda, ha evitato di esultare. Ha parlato di un processo di ricostruzione che può durare anche dieci anni. Ha paragonato il gran numero di militari lasciati in eredità da Saddam a quelli del dopo Ceausescu in Romania. Oggi va a raccontarla once again a folle di sciiti iracheni americani plaudenti come è recentemente avvenuto a Washington. Sempre la stessa storia, fondata su schemi argomentativi nuovi, ma di basso sofismo politico. Come Rumsfeld, Wolfowitz insiste principalmente su un concetto: il fatto che le armi di distruzione di massa non siano state trovate, dimostra soltanto che Saddam le ha nascoste, il fatto che i servizi segreti non abbiano diffuso serie informative in proposito è dovuto soltanto alla furbizia del nemico. Un nemico che, come d’abitudine, è scomparso nel nulla. Dice Wolfowitz al Council for Foreign Relations di New York il 23 gennaio 2003: «Pensateci un attimo. Quando un revisore contabile scopre discrepanze in un libro, non è suo compito provare dove il truffatore abbia nascosto i soldi. È obbligo della persona o dell’istituzione essere ascoltata per spiegare la discrepanza». Una strategia di difesa che in Italia è ben nota. Verrebbe da leggere i testi di Wolfowitz come Strauss leggeva quelli degli amati filosofi, come testi cifrati. Parlando allo stesso meeting di Rihab Taha, «tutt’ora la principale e sinistra figura nel programma di armamento biologico iracheno», Paul Wolfowitz spiega: «Mentire era più di una tecnica. Era, e rimane, politica».
I razionalisti non credono ai fantasmi. Ma sanno che quando ai fantasmi si presta fede, le vite dei vivi cambiano. Sanno che il principio di autorità offre ai morti il potere di influenzare il presente. I fantasmi di Lev Trotzkij e Leo Strauss da alcuni mesi compaiono ovunque. Nei seminari delle università americane, in centinaia di siti e weblog, in decine di articoli dei maggiori giornali del pianeta. Sembrerebbe una moda culturale, e forse un po’ lo è. Sicuramente ha a che fare con questioni decisive. Dalla loro influenza (da quella di Strauss soprattutto) dipenderebbero la guerra in Iraq e la politica estera dell’amministrazione Bush, il valore della verità e la necessità della menzogna in democrazia, il ruolo dell’Onu, il modo in cui l’Impero può oggi governare i suoi satelliti, le strategie da mettere in campo per battere il nemico nell’«attuale scontro di civiltà». Strauss e Trotzkij rappresentano, cioè, le radici filosofiche dell’albero genealogico dei neoconservative, i cosiddetti neocon, una famiglia politica che ha diretto la risposta americana all’11 settembre.
Secondo l’accusa, il presidente mai eletto George W. Bush non sarebbe altro che il pupo di una congrega di filosofi re come Paul D. Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa, Richard Perle, ex presidente del Defence Policy Board che recentemente si è dovuto dimettere per avere fatto troppi affari con quelli che avrebbe dovuto combattere o Douglas Feith, incaricato del Pentagono per la ricostruzione in Iraq. L’elenco potrebbe continuare: si tratta di circa venti persone che occupano ruoli chiave nell’amministrazione Bush. A cui si devono aggiungere gli amici giornalisti e i giornali amici: William Kristol, direttore del Weekly Standard di Rupert Murdoch, il settimanale che all’indomani dell’elezione di Bush titolò, più o meno: «Ecco come li abbiamo fregati», o John Podhoretz del New York Post (sempre di Murdoch), Washington Post, Newsweek, National Review, Public Interest, Commentary. Poi c’è Fox, la televisione di Murdoch che ha sbaragliato Cnn. E ancora, intellettuali come Francis Fukuyama, profeta della «fine della storia», Robert Kagan e Michael Ledeen che fu coinvolto nello scandalo Iran-Contra e che oggi vorrebbe attaccare Teheran (secondo alcuni studiosi fu tra i teorici della strategia della tensione in Italia). Molti di loro sono ebrei, alcuni (come Perle e Feith) vicini al Likud e all’ex premier israeliano Bibi Nethanyau. La loro attività è intrecciata (nel senso che spesso ricoprono cariche ufficiali) con potenti e danarose associazioni come l’American Enterprise Institute (di cui fa parte Lynn Cheney, moglie di Dick), il Project for a New American Century e la Heritage Foundation. Tutti, o quasi, hanno avuto a che fare con Leo Strauss.
IL CODICE STRAUSS. In Strauss l’ambiguità è un metodo, prima che un limite. Un metodo di filosofia e di insegnamento che veniva dall’ermeneutica di Heidegger, ma anche dalla tradizione ebraica. Il suo percorso filosofico è interno al pensiero ebraico nel suo desiderio di assimilazione e di mantenimento dell’identità. La caduta nell’incubo hitleriano tradì questa speranza. Strauss pensò allora che era stata la debolezza della Repubblica di Weimar a lasciare che Hitler prosperasse. Pensò che se Heidegger, che considerava la più grande mente del suo secolo, aveva aderito al nazismo c’era qualcosa di radicalmente malato nella modernità. Scrisse a Karl Lowith, già nel 1946, che «l’ordinamento politico perfetto, come era stato tracciato da Platone e Aristotele, era davvero l’ordinamento politico perfetto. E so molto bene che non può essere restaurato».
Credeva con Churchill che la «democrazia fosse il peggiore dei sistemi possibili, fatta eccezione per tutti gli altri». Un esempio su cui tornava spesso, per mostrare quanto il potere potesse apparire cattivo anche agendo per il bene comune, era tratto da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift: quando Gulliver fa pipì sulle case di Lilliput per spegnere un incendio, i lillipuziani pensano a un atto blasfemo. Strauss pensò che il peccato originale della filosofia ebraica era la perdita di Dio, come principio trascendente e ordinatore, come sovrano, operata dall’immanentismo di Spinoza. Come ogni pensatore di destra, riteneva l’uomo cattivo per natura e che solo un potere forte potesse limitarne gli istinti. Si limitò a insegnare e a coltivare quella che definiva «la crema della gioventù». Non fece mai politica attiva, ma incoraggiò i suoi allievi ad andare e moltiplicarsi.
Insegnò che dopo la morte di Socrate, i filosofi avevano imparato a scrivere nascondendo il proprio pensiero per non essere perseguitati dal potere. E che lo stesso metodo potesse essere adottato per comunicare al popolo «nobili bugie» e nascondere verità dannose. Per questo, i grandi filosofi vanno studiati ponendo attenzione ai loro silenzi e alle loro ambiguità, i loro testi vanno decodificati. Sfortunatamente per Strauss e per i suoi, la teorizzazione di un metodo di questo genere e la sua applicazione alla pratica politica spinge a difendersi applicando lo stesso metodo. Sospettare, intraleggere, cercare nelle dichiarazioni ufficiali intenzioni e significati reconditi.
Naturale che intorno a un piatto così ricco, le teorie del complotto fiorissero. Ma dietro ai deliri antisemiti e a una visione della storia esoterica, rimane una verità semplice. I neocon, che fiorirono alla politica nell’amministrazione Reagan, si rafforzarono con Bush senior e rimasero ai margini negli anni di Clinton, hanno trovato il modo, durante gli anni di George figlio, di dettare l’agenda della politica estera americana grazie a una serie di circostanze storiche favorevoli (11 settembre, inadeguatezza in politica estera del Presidente, presenza di Rumsfeld e Cheney nell’esecutivo). Ma il loro potere non va sopravvalutato. Il loro nemico Colin Powell non ha perso la partita, anzi. Un recente sondaggio Time/Cnn afferma che gode della fiducia del 77 per cento degli americani, il più amato tra i Bush boys. In più c’è questa fastidiosa pressione internazionale che vuole stabilire chi abbia mentito di più.
Il dato interessante è che questo gruppo di persone, diverse tra loro per competenze e temi, ma unite tra loro, ha dato forma, nell’insieme, a una ideologia di destra piuttosto raffinata, gratificante per le élite e comprensibile per le masse, percorsa da stilemi e temi tipici della sinistra radical, una destra aperta al mondo e alla storia come terreno di lotta, di difesa e di conquista. Realista e idealista al contempo. Reazionaria nell’accettazione della legge del più forte come regola della storia. Ma, in fondo, ottimista nell’idea che sia possibile esportare libertà e democrazia. In un certo senso, progressista. «Il punto di partenza» ha dichiarato Kenneth Adelman, già consigliere di Ford e Reagan, «è che i conservatori oggi sono per il cambiamento radicale e i progressisti... per lo status quo». Ma che c’entra Trotzkij?
LA TRAVERSATA DI LEV. Verso la fine degli anni Sessanta, un gruppo di giovani intellettuali di sinistra, spesso comunisti, molto spesso trotzkisti, decide di abbandonare le sponde irrequiete e un po’ conformiste della sinistra libertaria, contraria alla guerra in Vietnam e attratta da modelli di vita alternativi, per riaffermare la propria fede nell’America, nella democrazia e nei valori autenticamente americani. Quindi, poche concessioni a mollezze dei costumi e patriottismo a fiumi, coniugato però nel linguaggio dell’intellighenzia. I più famosi tra loro si chiamano Norman Podhoretz, leggendario direttore di Commentary, e Irving Kristol, direttore di The Public Interest cui si deve la definizione di neoconservatore come «liberal che è stato aggredito dalla realtà». Generarono, rispettivamente, John Podhoretz, oggi ras delle pagine degli editoriali del New York Post, e William Kristol, ras di tante cose, tra cui il Weekly Standard, ma anche ex consulente della Enron e capo dello staff di Dan Quayle.
Nelle ultime generazioni di neocon, la componente trotzkista è costituita essenzialmente dalla «terza internazionale e mezzo», come l’ha definita lo storico Stephen Schwartz (lui è per attaccare subito l’Arabia Saudita). Ne fanno parte lo stesso Schwartz, il giornalista Christopher Hitchens (che ce l’ha tanto con Henry Kissinger), lo scrittore Kanan Makiya, iracheno americano («noto ai veterani del trozkismo», scrive Hitchens, «come leader della Quarta internazionale araba») molto ascoltato da Rumsfeld e Wolfowitz e infine – ecco il «mezzo» – Paul Berman, autore di Terror and Liberalism, che pur essendosi schierato in favore della guerra in Iraq non è ancora considerato un neocon fatto e finito. Nonostante questa esiguità numerica, tracce di trotskismo sono rintracciabili ancora oggi nell’ideologia neocon: il concetto di «rivoluzione permanente» che per i neocon è quella democratica americana (Michael Ledeen ha scritto su National Review: «Distruzione Creativa è il nostro nome di mezzo. Noi lo facciamo automaticamente... È venuto il tempo, ancora una volta, di esportare la rivoluzione democratica»), il respiro internazionalista della politica estera, l’ammirazione per l’esercito e l’organizzazione militare (Trotzkij organizzò e diresse l’Armata rossa). Più in basso nella scala dei valori politici, ma ben presente, è la tattica dell’«entrismo» predicata dalla Quarta internazionale, che prescrive ai militanti, nei periodi di scarsa forza politica, di infiltrarsi in altre organizzazioni aspettando tempi propizi. Un modello in qualche misura adottato dai neocon nella strategia di lenta, capillare diffusione nei vari centri del potere, nelle varie amministrazioni (anche avverse come nell’era Clinton), nelle università, nei giornali anche storicamente liberal come The New Republic o The Atlantic Monthly, nelle fondazioni, tra i repubblicani come tra i democratici.
Il terreno di questa trasmigrazione di anime progressiste alla causa dell’America conservatrice - ha scritto il quotidiano canadese National Post - era stato preparato da un altro trotzkista, Max Shachtman, nato ebreo in Polonia nel 1904 ed emigrato negli Usa da bambino. Shachtman aderirì al Partito comunista americano per lasciarlo quando Trotzkij fu espulso dall’Unione Sovietica. Nel 1929 fu il primo americano a fargli visita nell’isola di Prinkipo in Turchia dove era stato esiliato, nel 1933 lo accompagnò a Parigi, nel 1937 lo accolse a Tampico in Messico. Nell’agosto 1940, dopo l’assassinio, fu tra i primi a portare conforto alla vedova Natalia Sedova a Città del Messico. Nonostante i sentimenti che lo legavano a Trotzkij, già nel 1939, ai tempi del patto tra Hitler e Stalin, Shachtman aveva elaborato altre posizioni. Se per Trotzkij l’Urss andava comunque sostenuto contro il capitalismo mondiale, Shachtman era dell’idea che Stalin avesse prodotto un nuovo fenomeno sociale che definiva «collettivismo burocratico», altrettanto nefasto per i lavoratori del capitalismo americano. Nei decenni successivi, Shachtman radicalizzò a tal punto la sua opposizione all’Urss da allearsi, di fatto, con la causa della crociata anti comunista, fino a testimoniare di fronte alla Commissione per le attività anti americane, un’ombra pesante sul suo percorso politico. Era un tipo simpatico, amava il jazz, e capì prima degli altri quanto triste, mostruoso e perdente fosse il modello sovietico. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1972, lavorò per la causa, intrecciando contatti con fiumi di comunisti, da Nicola Chiaromonte a Ignazio Silone. Per capire la trasmigrazione di tanti trozkisti alla destra interventista, all’ubriacatura a stelle e strisce di questi anni, all’alleanza con i fondamentalisti cristiani di Bush junior, la figura di Shachtman rimane fondamentale. Ma c’è un altro motivo per cui Shachtman in questa storia è importante. Ci permette di gettare un ponte tra fantasmi del passato e attori del presente. Tra Lev Trotzkij, Leo Strauss e Paul D. Wolfowitz, che l’Economist ha definito il «velociraptor» dell’amministrazione Bush. Questo ponte si chiama Saul Bellow, grande scrittore.
IL VELOCIRAPTOR. Il trotskista Saul Bellow, il shachtmanita Saul Bellow, il premio Nobel Saul Bellow, ha costruito il suo ultimo romanzo, Ravelstein, intorno alla figura di Allan Bloom, collega e alter ego di Leo Strauss a Chicago, autore nel 1987 di The closing of American mind, opera che viene da molti indicata come la prima divulgazione del pensiero di Strauss presso un pubblico di massa. In Ravelstein Bellow descrive una telefonata privata del 1991 tra Wolfowitz e Bloom all’indomani della decisione di Bush padre di ritirare le truppe americane dall’Iraq fermandosi alle porte di Baghdad. Una decisione presa contro i consigli di Dick Cheney, allora segretario alla Difesa e Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla Difesa per la politica. Nel romanzo di Bellow, Wolfowitz è infuriato, accusa il vecchio George Herbert di essere un mollacchione. Nella famosa intervista concessa a Sam Tannehaus di Vanity fair, quella in cui Wolfowitz avrebbe affermato che la guerra era stata fatta per il petrolio e che le armi di distruzione di massa erano solo una scusa burocratica (la trascrizione integrale pubblicata sul sito della Difesa Usa dimostra che le parole effettivamente pronunciate furono molto più caute e molto meno scandalose), Wolfowitz ride dell’onore della citazione e nega che una simile telefonata sia avvenuta, anche se lascia capire che Bellow non è andato troppo lontano dalla realtà, ha soltanto esagerato e romanzato gli eventi. «Quella conversazione non avvenne mai. Quella telefonata in particolare», spiega Wolfie (Bush lo chiama così). «Bloom... aveva la tendenza a vedere ognuno in grande. Quasi tutti quelli con cui aveva a che fare si trasformavano in personaggi di un dialogo platonico. Era un modo, un modo di guardare al mondo che in un certo senso ti apriva gli occhi...». Quello che è certo è che per Wolfowitz, Richard Perle e i neocon in genere, la decisione di Bush padre di «non finire il lavoro» nel 1991 su consiglio di Colin Powell è stata vissuta come una ferita e un errore fatale a cui porre rimedio alla prima occasione.
La carriera di Paul Dean Wolfowitz è quella di un tecnico che in trent’anni ha servito cinque presidenti, democratici e repubblicani, che è stato ambasciatore americano in Indonesia, il più popoloso Paese musulmano della Terra. L’influenza di Leo Strauss, afferma Wolfowitz, è trascurabile. Il suo vero maestro fu Albert Wohlstetter, anche lui professore all’Università di Chicago, allievo del logico Willard Van Orman Quine, quindi della scuola analitica, lontana dai classici e portata alla risoluzione dei problemi. È proprio Wohlstetter, che fu la mente della politica di armamento e disarmo nucleare americano durante la Guerra Fredda, ad aprire a Wolfowitz le porte alla vita politica attiva. Il lavoro di Wohlstetter, dice Wolfowitz a Vanity fair, è stato «assolutamente seminale. E non derivava, mi creda, dalla lettura di Platone. Né da pregiudizi ideologici di qualsiasi genere. Derivava dalla constatazione di un problema, dall’osservarlo secondo i fatti in modo da vedere che cosa emergeva dalla cosa e farla parlare – un modo di procedere induttivo più che deduttivo – e ritengo che sia questa la differenza tra il pensiero ideologico e il pensiero pragmatico». Sulla cosiddetta «Straussian Connection», Wolfowitz è drastico: «È il prodotto di menti febbricitanti che sembrano incapaci di comprendere che l’11 settembre ha cambiato un sacco di cose nel modo in cui affrontiamo il mondo... Dopo la laurea, ho seguito due terrificanti corsi con Leo Strauss. Uno era sullo Spirito delle leggi di Montesquieu e mi ha aiutato a capire meglio la nostra Costituzione. L’altro sulle Leggi di Platone. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la politica estera Usa fa soltanto ridere». «Strauss è davvero una figura importante. Questo non mi rende un suo discepolo, ma è davvero molto importante». Più avanti: «Penso di essere un miscuglio... Penso di essere un idealista pragmatico». Il problema, data l’influenza di Wohlstetter, è stabilire le origini di questo idealismo. Se anche l’ideologia di Wolfowitz non fiorisce da Strauss, certo un pochino gli somiglia.
Paul Wolfowitz nasce a New York nel 1943, figlio di Jacob, professore di Matematica ebreo, di origine polacca. I Wolfowitz che non emigrarono furono sterminati durante la Shoah. Ha raccontato Paul al New York Times: «Penso che il senso di ciò che accadde in Europa durante la Seconda guerra mondiale abbia modellato molte delle mie convinzioni sulla politica e sulla politica estera». Tra gli allievi del padre c’è Alan Greenspan, il presidente della Federal Reserve, la Banca centrale Usa. Paul si laurea in matematica e fisica alla Cornell University. Dopo la laurea, contro la volontà di papà, va all’Università di Chicago dove studia con Wohlstetter, Bloom e Leo Strauss e ottiene due dottorati in Scienze politiche ed Economia. Risalgono a questo periodo le discussioni con il padre, l’ossessione per la Shoah e la rabbia per la debolezza e la mollezza ebraica e occidentale, che l’hanno resa possibile. Nei primi anni Settanta lavora con il senatore democratico ferocemente anticomunista Henry «Scoop» Jackson dove incontra transfughi trotzkisti e giovani falchi come Richard Perle.
Dopo anni al fianco di Wohlstetter, la carriera di Wolfowitz fiorisce durante l’amministrazione Reagan. Nel 1983 Assistant Secretary of State for East Asian and Pacific Affairs, dal 1986 al 1989 ambasciatore in Indonesia, dal 1989 al 1993, sotto Bush padre, Under Secretary for Defence Policy. Risale a questi anni, al 1992, la Defence Policy Guidance, la cui bozza diffusa dal New York Times provocò furenti polemiche. Nel documento Wolfowitz sostiene che, dopo il crollo dell’Urss, gli Stati Uniti devono prepararsi a combattere una guerra globale, puntare sulla tecnologia militare, impedire la nascita di ogni altra potenza militare. L’ossessione di Wolfowitz, ribadita da molti altri neoconservatori – questa sì straussiana – nasceva da una delusione storica e psicologica. Uno gioca una partita impegnandosi allo spasimo per decenni, e poi un giorno, quando le cose sembrano mettersi bene, l’avversario implode, muore da solo, crolla come un muro friabile. Gli Stati Uniti, sostengono i neocon, non hanno vinto la Guerra Fredda, l’Urss si è dissolta da sola. Una vittoria avrebbe propagato il modello americano in tutto il mondo, spalancando decenni di democrazie in fiore. Il crollo dell’Urss ha invece creato sacche ingovernabili e mantenuto in vita regimi tirannici. Ne consegue che l’Impero americano va imposto con la forza. Perché è il modello migliore, perché il bene dell’America coincide con il bene dell’umanità: ecco le motivazioni quasi hegeliane che abitano l’ideologia neoconservatrice. C’è poi il problema politico della necessità del nemico.
In una lettera a Carl Schmitt, filosofo che diede una base ideologica al nazismo e che fu molto studiato in Unione Sovietica, Leo Strauss scrive: «Poiché il genere umano è intrisecamente cattivo, deve essere governato. Un simile governo può essere stabilito, tuttavia, solo quando gli uomini sono uniti e possono essere uniti soltanto contro altri uomini». Insomma, il nemico è indispensabile. L’America era rimasta orfana dell’Unione sovietica, i neocon avevano compreso quanto potenzialmente fiaccante questo potesse essere. L’America sarebbe stata all’altezza del compito, sosteneva Wolfowitz nel documento del 1992, poi scartato da Bush padre, solo impedendo ad altre superpotenze di nascere. Il concetto di «guerra preventiva» trova qui la sua prima formulazione. Se avesse seguito Strauss, avrebbe anche pensato che la missione era così vitale, per l’America e per il mondo, che un po’ di «nobili bugie» erano necessarie, che si era giustificati a ingigantire la potenza del nemico.
Esiste un documento molto poco noto che può gettare ulteriore luce sui metodi teorizzati e concepiti da Wolfowitz. Soprattutto, in relazione alle polemiche di questi giorni sull’uso dei servizi segreti durante la crisi irachena. Si tratta di un memorandum del 1996, firmato Jack Davis e intitolato Paul Wolfowitz on Intelligence Policy-Relations (P. W. sulle relazioni tra intelligence e politica). È un documento ufficiale della Cia. L’idea di Wolfowitz è molto semplice: l’intelligence deve fornire alla politica gli strumenti per attuare la propria politica. Un coordinamento è necessario, ma per risolvere possibili disaccordi c’è un solo modo: mettere i servizi segreti alle dirette dipendenze del potere politico («La produzione di materiali di intelligence dovrebbe essere guidata dal processo politico»). Wolfowitz auspica continui incontri informali tra servizi e politica in modo tale che «gli agenti apprendano di prima mano quali temi siano nella mente dei politici e su quali particolari aspetti ci sia più bisogno di aiuto».
L’aspetto più interessante riguarda le istruzioni per maneggiare informazioni che contrastano con la strategia politica in atto. «L’ambasciatore Wolfowitz raccomanda che gli analisti portino le cattive notizie all’ufficio di un membro dello staff del politico. L’enfasi deve essere posta sulle nuove prove e scoperte. Poi si lasci all’assistente la decisione di portare le notizie al suo capo». Interessante anche che per Wolfowitz «gli allarmi sono i cugini primi delle cattive notizie». Siamo di fronte, insomma, alla teorizzazione di un uso spregiudicato dei servizi segreti che ha alcune risonanze nel pensiero di Strauss e molte affinità con le varie, ormai dimostrate, manipolazioni e bugie diffuse per preparare la guerra in Iraq.
L’impressione complessiva è quella di un gruppo di intelligenze raffinate, ma troppo spregiudicate. Variamente messianiche nella loro esaltazione della democrazia americana e nella loro, probabilmente sincera, fede nella minaccia rappresentata dal mondo arabo. Per James Woolsey, ex direttore della Cia, la guerra in Afghanistan è stata la prima campagna della Quarta guerra mondiale, essendo la Guerra Fredda la Terza. Un po’ esaltati, insomma. E molto arroganti.
Decisiva, per capire da dove provenga questo sacro fuoco ordinatore, è l’origine ebraica di molti neocon, ancora di più dell’influenza di Strauss, di Wohlstetter e Trotzkij (tutti ebrei, peraltro). Che il trauma della Shoah, prima, e la questione dello Stato di Israele, poi, abbiano alimentato per decenni, in modo drammatico, ideologico, quasi religioso, l’edificazione di una ideologia politica che presenta tinte religiose e messianiche. Il sogno, forse, è ancora quello della completa assimilazione tra fede ebraica e democrazia liberale, un sogno che paradossalmente Strauss aveva dichiarato fallito per sempre. Non è un caso che Richard Perle e Douglas Feith siano molto vicini al quotidiano della destra israeliana Jerusalem Post, né che i metodi militari di Israele godano dell’ammirazione generale. La storia ha molti conti in sospeso e il Ventesimo secolo fatica a finire.
L’impostazione ideologica e perfino gestuale dei neoconservatori si riverbera in Italia nelle posizioni del Foglio di Giuliano Ferrara che, non a caso, segue le gesta neocon dall’inizio e quotidianamente, con toni invariabilmente apologetici e spesso ammirati. Non a caso Ferrara dedicò a Leo Strauss, già nel 1990, una densa e destrissima prefazione appena ripubblicata dal quotidiano. Basti questa didascalia che recita, dopo aver accusato Spinoza di essere «un genio del male moderno» che ha posto «le premesse del nichilismo»: «Come il Sionismo, anche il liberalismo è una benedizione, ma solo a patto che riconosca le proprie debolezze e sappia medicarle creando élite forti e consapevoli. Perché il pensiero debole è così incapace di capire il mondo e di guidare gli uomini e le donne». Un appello all’uso della forza, al pragmatismo in politica e allo slancio ideale che combina il pensiero di Strauss con pose più autoctone di stampo vagamente dannunziano.
L’altra impressione è che la novità rappresentata da costoro e il loro potere non vadano ingigantiti. Pat Buchanan, il più fascista dei membri del Partito repubblicano americano, e acerrimo nemico dei neocon (li accusa di avere rastrellato fondi per trent’anni sottraendoli alle organizzazioni della sana destra americana) fa una annotazione semplice e vera: la loro forza è la loro debolezza. Sono uniti e intelligenti, ma politicamente parlando si tratta di «parassiti». Nessuno di loro è stato eletto. Rimangono espressione dei ceti intellettuali urbani, tecnici che possono stringere temporanee alleanze, ma che verranno sacrificati e messi in disparte quando le cose si metteranno male. L’Iraq di oggi non sembra – come si aspettava Wolfowitz – la Francia che accoglie i liberatori lanciando rose e offrendo vino. E Charles De Gaulle non è certo Ahmed Chalabi, il bancarottiere iracheno, presidente dell’organizzazione di esuli Iraqi National Congress che per un decennio ha rastrellato fondi e pick up Toyota al Congresso per organizzare un’insurrezione contro Saddam mai avvenuta. Oggi è chiaro che Chalabi, introdotto nell’ambiente da Wohlstetter, era l’unica carta su cui puntavano Wolfowitz, Doug Feith e, soprattutto, Richard Perle. E che si trattava di un due di picche. Mentre la statua di Saddam veniva abbattuta, Wolfowitz, che è di gran lunga il più intelligente della banda, ha evitato di esultare. Ha parlato di un processo di ricostruzione che può durare anche dieci anni. Ha paragonato il gran numero di militari lasciati in eredità da Saddam a quelli del dopo Ceausescu in Romania. Oggi va a raccontarla once again a folle di sciiti iracheni americani plaudenti come è recentemente avvenuto a Washington. Sempre la stessa storia, fondata su schemi argomentativi nuovi, ma di basso sofismo politico. Come Rumsfeld, Wolfowitz insiste principalmente su un concetto: il fatto che le armi di distruzione di massa non siano state trovate, dimostra soltanto che Saddam le ha nascoste, il fatto che i servizi segreti non abbiano diffuso serie informative in proposito è dovuto soltanto alla furbizia del nemico. Un nemico che, come d’abitudine, è scomparso nel nulla. Dice Wolfowitz al Council for Foreign Relations di New York il 23 gennaio 2003: «Pensateci un attimo. Quando un revisore contabile scopre discrepanze in un libro, non è suo compito provare dove il truffatore abbia nascosto i soldi. È obbligo della persona o dell’istituzione essere ascoltata per spiegare la discrepanza». Una strategia di difesa che in Italia è ben nota. Verrebbe da leggere i testi di Wolfowitz come Strauss leggeva quelli degli amati filosofi, come testi cifrati. Parlando allo stesso meeting di Rihab Taha, «tutt’ora la principale e sinistra figura nel programma di armamento biologico iracheno», Paul Wolfowitz spiega: «Mentire era più di una tecnica. Era, e rimane, politica».
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di AA.VV. su La Repubblica del 17/09/2005