Da La Repubblica del 15/04/2005

Il tiranno che sognava Robespierre

Trent´anni fa la presa del potere

Per mano del dittatore comunista la Cambogia subì lo sterminio di milioni di persone.
Il 17 aprile 1975 l´esercito irregolare dei khmer rossi conquistò Phnom Penh

di Bernardo Valli

LE FIABE, le leggende alla base della cultura popolare cambogiana cominciano con dettagli ironici. A volte allegri. Con episodi carichi di sensualità. Sono ricchi di personaggi pittoreschi: re onnipotenti e goffi, stravaganti, conigli furbi, coccodrilli avidi, contadini sempliciotti. Ma degenerano tutte, fiabe e leggende, nella tragedia. Hanno finali precipitosi. Le conclusioni sono brutali. La crudeltà esplode in modo irrazionale, travolge tutto e resta impunita. Sono racconti che possono ricordare quelli dei Fratelli Grimm. Ma una brava cronista dei drammi cambogiani (Elisabeth Baker in "When the War was over") fa notare che l´incipit gioioso trae in inganno.
Quando si arriva a quella che dovrebbe essere la morale, la trama deraglia nella violenza. Una violenza che cresce a valanga ed è fine a se stessa. Il sorriso khmer, tanto celebrato dai vecchi viaggiatori, si trasforma in una smorfia macabra. Anche la storia di Pol Pot e dei suoi khmer rossi è cominciata tra i sorrisi ed è diventata uno sterminio secondo, per proporzioni, soltanto a quello di Hitler.
Il genocidio è maturato sotto gli occhi di noi cronisti occidentali, da anni impegnati a seguire le guerre indocinesi (Vietnam, Cambogia, Laos), senza che ce ne accorgessimo. La stragrande maggioranza dei cambogiani se ne è del resto accorta quando era già troppo tardi. Ritornando a Phnom Penh ho cercato invano Chan Tal. Anche la sua baracca su palafitte era scomparsa. Nell´aprile 1975 la città fu vuotata dei suoi abitanti come una pattumiera umana.

NEI TRE anni successivi, durante l´era di Pol Pot, un milione di cambogiani furono uccisi dai khmer rossi, e poi, nel dicembre 1978, il paese fu invaso dai vietnamiti, al tempo stesso arroganti e predatori, ma anche autentici liberatori della Cambogia dall´incubo Pol Pot. Chan Tal non è sopravvissuta alla lunga ondata di terrore. Tre lustri dopo, quando la cercai, non trovai la minima traccia di lei. Phnom Penh si era nel frattempo ripopolata, ma i suoi abitanti erano contadini arrivati dalle più remote province. Gente nuova appena inurbata.
Chan Tal teneva l´ago come un chirurgo il bisturi. Le sue dita si muovevano con eleganza. I gesti erano essenziali, precisi. Riempito il fornello, Chan Tal punzecchiava e livellava l´oppio con l´ago. Poi posava la pipa calda accanto al fumatore sdraiato su una delle stuoie allineate nella veranda. E restava li accovacciata sul pavimento di legno, con le gambe grassocce incrociate, nell´atteggiamento di una madre al capezzale del figlio malato. E tendeva l´orecchio per afferrare una musica lontana. Il rumore delle bombe sganciate dai B52 americani era soltanto un brontolio. Più vicine, più asciutte, minacciose, erano le esplosioni dei proiettili da 120 alla periferia.
Arrivavano di rado nel centro della città, perché i khmer rossi erano annidati oltre il fiume e molto di al di là dell´aeroporto, e la loro artiglieria non aveva una gittata abbastanza lunga. I razzi lanciati dai guerriglieri infiltratisi a piccoli gruppi fino alle porte di Phnom Penh saettavano invece dappertutto e atterrando accendevano improvvisi falò.
La fumeria di Chan Tal era un prezioso luogo d´incontro. Era una specie di club frequentato da gente informata (diplomatici, reporter, fotografi, funzionari). Mentre fuori era in vigore il coprifuoco e accadeva di tutto, la baracca, sospesa su palafitte per non affondare in un acquitrino, era una rumorosa oasi di pace. Vi regnava una strana atmosfera. Chan Tal sognava l´ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh. Non lo nascondeva. I proiettili da 120 che piovevano sulla periferia, scalzando migliaia di persone dalle loro abitazioni, erano per lei annunci di un futuro, imminente benessere, di una giustizia radiosa che si avvicinava inarrestabile. I portatori di quel benessere e di quella giustizia erano i khmer rossi, in quelle settimane stretti attorno a Phnom Penh come il cappio alla gola del condannato; e sottoposti ai bombardamenti a tappeto dei B52 americani, che cercavano di costringerli ad allentare la stretta.
Quel che Chan Tal sognava a occhi aperti, con i suoi lunghi monologhi, mentre preparava le pipe, lo pensavano molti altri cambogiani. I quali avrebbero pagato con la vita, come è capitato alla stessa Chan Tal, la fiducia riposta nei guerriglieri rivelatisi poi paranoici massacratori.
Quell´atteggiamento è rimasto un enigma. Sciogliendolo, spiegandolo, si tenta di scacciare il tarlo di un vecchio complesso di colpa. Come non ce ne siamo accorti in tempo?
A un certo punto gli americani cessarono i bombardamenti aerei. Il buddismo fascista del generale Lon Nol, loro alleato e protetto, era senza speranza. Meglio abbandonarlo al suo destino (come il vicino regime vietnamita di Saigon lasciato solo davanti al Nord Vietnam). Nei lunghi mesi che seguirono Lon Nol rafforzò la sua fiducia negli indovini che lo circondavano notte e giorno. Non gli restava molto di più. Mentre il suo esercito si decomponeva nella corruzione, lui si interessava agli astri.
Erano la sua passione. Gli astrologi, non i generali, decidevano le offensive o determinavano le linee difensive. Ma nessuno di quegli indovini rivelò a Lon Nol la spietatezza di Pol Pot. Tanto che il suo primo ministro, il 17 aprile 1975, attese dietro la scrivania i khmer rossi vittoriosi.
Long Boret era un signore minuto, gentile e onesto. A volte il parrucchino rosso, con il quale cercava di nascondeva la calvizie, gli scivolava sulla fronte. Si racconta che quel giorno, quando i khmer rossi entrarono nel suo ufficio, lui si alzò, tese la mano e disse sorridendo: «La guerra è finita». Fu portato davanti al circolo sportivo e subito decapitato, sul marciapiede.
I khmer rossi sono nati a Parigi, sulla riva sinistra della Senna, nel Quartiere latino, al numero 28 di rue Saint-André-des-Arts. È là, in uno dei più sofisticati e celebri angoli della vecchia Europa, che Saloth Sar, alias Pol Pot, e Ieng Sary, e le due eleganti sorelle diventate loro mogli, Thirith e Ponnary, cominciarono a pensare alla rivoluzione, studiando Robespierre, Marx, Lenin e Stalin. E ascoltando, nei primi anni Cinquanta, i discorsi di Maurice Thorez, segretario del Partito comunista francese. Frequentavano le scuole francesi e le sezioni del Pc, al quale Saloth Sar era iscritto, e progettavano di realizzare nella loro remota patria una società perfetta. Le interminabili discussioni ruotavano attorno ai metodi per vincere il sottosviluppo e far rinascere l´antica civiltà khmer.
Quest´ultima li faceva sognare. Era fiorita nel IX secolo. Era stata contemporanea dell´Europa di Carlo Magno ed era stata inghiottita dalla giungla, da dove erano riemersi secoli dopo i grandiosi, cupi templi di Angkor. La sua rinascita, associata all´avvento di un comunismo integrale, avrebbe ridato vita alla Cambogia. Anche Phnom Penh, come Pechino, come Hanoi, e prima ancora Mosca, o come la Parigi del 1879, sarebbe diventata il palcoscenico di grandi avvenimenti storici.
Invece di rivolgersi agli intellettuali delle città, reduci dalle università occidentali o occidentalizzate, Pol Pot e i suoi scoprirono nelle giungle segrete della lontana provincia di Ratanariki i khmer-loeu. Erano montanari primitivi, selvaggi non sfiorati dalla civiltà cittadina, non contaminati dalla cultura occidentale portata dal colonialismo, quindi uomini puri, ideali per costruire la nuova società. Robespierre e Lenin erano stati intralciati nella loro marcia da un materiale umano che non erano riusciti a plasmare. Uomini e donne erano inquinati da idee malsane, da tradizioni e abitudini radicatesi in loro nel corso dei secoli. Per Pol Pot quei montanari costituivano gli strumenti migliori per affrettare i tempi della rivoluzione.
Quello era il nucleo essenziale su cui erigere il nuovo ordine. Non i soliti intellettuali formatisi in Europa e negli Stati Uniti, con le loro esitazioni, le loro ambiguità, i loro vizi, le loro pretese. Essere puri, incontaminati: questa era l´originaria ossessione di Pol Pot. E da quella ossessione sono nate le atrocità della rivoluzione pensata a Parigi e sperimentata tra i primitivi abitanti di Ratanariki. Estesa a tutto il paese quella rivoluzione purificatrice e rigeneratrice ha portato allo sterminio di tutti coloro che erano stati inquinati dalle civiltà, dalle culture straniere. Le città furono svuotate perché erano il centro dell´infezione.

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