Da Corriere della Sera del 03/11/1975
L’orrore della sua fine pareva presagito negli ultimi scritti
La difficile scelta di essere “contro”
Non era mai stato accettato dalla Roma intellettuale: aveva invece amicizie anonime e popolane. Accuse e insulti
di Lietta Tornabuoni
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E’ la prima volta, almeno nel Novecento, che a uno scrittore italiano tocca una fine così atrocemente violenta. Adesso, a Roma, gli amici dicono che Pasolini è morto, nel giorno dei morti, come uno dei suoi personaggi; dicono che l’orrore di questa morte pareva presentito e prefigurato nei suoi ultimi articoli, dedicati alla nuova oscura ferocia della criminalità giovanile a Roma.
Roma non gli piaceva più: «E’ cambiata estremamente in peggio, diventata piccolo-borghese, meschina, impastata di inautenticità e di nevrosi. Non voglio più capirla, provo verso la città un rifiuto totale». Ventisei anni fa, il suo arrivo a Roma, metropoli «scomposta, stupenda e misera» aveva invece coinciso con la scoperta del mondo popolare, del sottoproletariato protagonista delle sue prime opere: le borgate calcinate e povere.
Quella era la Roma che aveva amato e raccontato negli anni Cinquanta; non la Roma monumentale, con il Colosseo o le Terme di Caracalla sviliti a luogo di incontri loschi; non la Roma bianca, squadrata e anonima dell’Eur, dove abitava.
A Roma, lui non è mai piaciuto. Ne era uno dei personaggi più famosi, ma per anni ha rappresentato per molti l’emblema dello scandalo, la personificazione della trasgressione provocatoria. Gli sketches radiofonici o i settimanali umoristici lo citavano beffardi come prototipo di indecenza, i giornali di destra lo attaccavano con volgarità furibonda. I fascisti lo assalivano picchiandolo, lordandolo di vernice rossa; in tribunale lo accusavano di rapina a mano armata contro un benzinaio di San Felice Circeo. Vocazione e condanna, lo scandalo ha continuato anche più tardi a circondare i suoi film censurati, vituperati, sequestrati, accusati d’essere veicolo di corruzione.
Anticonformista, scomodo, estremo, Pasolini non era certo per piacere al pigro cinismo dei romani: e anche all’ambiente degli intellettuali e dei letterati non si era mai integrato. Tra gli scrittori, i suoi amici veri erano veramente pochi.
La società letteraria romana ne subiva la soggezione; ne riconosceva la genialità di scrittore e di polemista; ne ammirava l’intuito, il talento di suscitare discussione e dibattito con ogni intervento sui problemi della collettività; ne rispettava la figura recente di moralista in pubblico, di predicatore violento e «ingenuo»; ne discuteva appassionatamente le idee; ne invidiava la versatilità, la prontezza, la grande capacità di lavoro.
Ma, anche nell’ambiente intellettuale romano, Pasolini suscitava disagio per la sua diversità. Salotti o cerimonie letterarie, persone «giuste» o importanti non ne frequentava mai: aveva invece amicizie popolane, anonime e pericolose. Lavorava disperatamente. Si divideva tra il mondo borghese della vita familiare (l’appartamento all’Eur, il vecchio castello di Chia nella campagna viterbese per i periodi di riposo, la villa di Sabaudia per l’estate, i rapporti ubbidienti e tenerissimi con la madre o la cugina) e il mondo segreto della vita personale. Non aveva il gusto del mangiare né del bere, non faceva mai pettegolezzi né distratte conversazioni qualsiasi.
Gli altri scrittori capivano male il «mito della gioventù» che a 53 anni lo ossessionava, i suoi vestiti da ragazzo (giubbetti, jeans, stivaletti con i tacchi), la sua snella magrezza, la vanità delle automobili veloci e vistose; capivano male la sua vitalità fisica, le partite di calcio giocate coi ragazzi nei campetti di periferia, le sfide a «braccio di ferro» o a «ditate», la forza muscolare che aveva sviluppato e conservato. Ironizzavano sul suo «masochismo», sull’intrepido coraggio privo di rispetti umani con cui si esponeva nelle polemiche, affrontava nel 1969 un’intera fischiante aula universitaria di studenti ostili, fronteggiava nel 1973 a Venezia una piazza affollata di tumultuanti spettatori d’un suo film. Ironizzavano sul «narcisismo» che lo induceva a recitare parti nei film propri o altrui, a poetare: «Narcisismo! – sola forza consolatoria, sola salvezza!». Ironizzavano sulle indulgenze mondane d’un breve periodo: l’amicizia con Maria Callas, l’incontro amichevole con la moglie dell’ex presidente americano Johnson, certe serate di beneficenza mondana all’Opera di Parigi dove compariva tra la signora Pompidou e la baronessa Rotschild.
La gente di cinema sopportava male il suo successo grandissimo di regista. Gli intellettuali della sinistra gli perdonavano a fatica il modo viscerale, «innocente», contraddittorio di intervenire sui fatti della politica, certe impreviste prese di posizione che parevano dare una dignità culturale a idee conservatrici: contro la contestazione studentesca al tempo della famosa poesia in difesa della polizia; contro il divorzio; contro l’aborto; contro la permissività contemporanea; contro la criminalità crescente; contro il progresso distorto e in lode del buon tempo antico delle «lucciole»; contro la classe dirigente chiamata alla sbarra d’un «processo» globale e senza appello; per l’abolizione della scuola o della televisione. A quel tanto di eccessivo, di fuori del comune, di diretto che caratterizzava i suoi interventi civili, il mondo politico romano, che non lo amava, rispondeva ignorandolo oppure polemizzando con ira sprezzante, dandogli sufficienti lezioni di realismo. Era soprattutto ai radicali che Pasolini, dopo anni di vicinanza ai partiti marxisti, si sentiva oggi vicino: come loro «uomo d’utopia e di rivoluzione».
In ventisei anni a Roma, Pasolini è stato l’artista più discusso, commentato, contrastato. Anche insultato con le beffe persecutorie e razziste riservate agli omosessuali, che lo indignavano ma non lo addoloravano. Diceva una sua poesia: «Cosa conterà la mia “vita privata” / miseri scheletri, senza vita / né privata né pubblica, ricattatori / cosa conterà o conteranno le mie parole, / sarò io, dopo la morte, in primavera, / a vincere la scommessa». t
Roma non gli piaceva più: «E’ cambiata estremamente in peggio, diventata piccolo-borghese, meschina, impastata di inautenticità e di nevrosi. Non voglio più capirla, provo verso la città un rifiuto totale». Ventisei anni fa, il suo arrivo a Roma, metropoli «scomposta, stupenda e misera» aveva invece coinciso con la scoperta del mondo popolare, del sottoproletariato protagonista delle sue prime opere: le borgate calcinate e povere.
Quella era la Roma che aveva amato e raccontato negli anni Cinquanta; non la Roma monumentale, con il Colosseo o le Terme di Caracalla sviliti a luogo di incontri loschi; non la Roma bianca, squadrata e anonima dell’Eur, dove abitava.
A Roma, lui non è mai piaciuto. Ne era uno dei personaggi più famosi, ma per anni ha rappresentato per molti l’emblema dello scandalo, la personificazione della trasgressione provocatoria. Gli sketches radiofonici o i settimanali umoristici lo citavano beffardi come prototipo di indecenza, i giornali di destra lo attaccavano con volgarità furibonda. I fascisti lo assalivano picchiandolo, lordandolo di vernice rossa; in tribunale lo accusavano di rapina a mano armata contro un benzinaio di San Felice Circeo. Vocazione e condanna, lo scandalo ha continuato anche più tardi a circondare i suoi film censurati, vituperati, sequestrati, accusati d’essere veicolo di corruzione.
Anticonformista, scomodo, estremo, Pasolini non era certo per piacere al pigro cinismo dei romani: e anche all’ambiente degli intellettuali e dei letterati non si era mai integrato. Tra gli scrittori, i suoi amici veri erano veramente pochi.
La società letteraria romana ne subiva la soggezione; ne riconosceva la genialità di scrittore e di polemista; ne ammirava l’intuito, il talento di suscitare discussione e dibattito con ogni intervento sui problemi della collettività; ne rispettava la figura recente di moralista in pubblico, di predicatore violento e «ingenuo»; ne discuteva appassionatamente le idee; ne invidiava la versatilità, la prontezza, la grande capacità di lavoro.
Ma, anche nell’ambiente intellettuale romano, Pasolini suscitava disagio per la sua diversità. Salotti o cerimonie letterarie, persone «giuste» o importanti non ne frequentava mai: aveva invece amicizie popolane, anonime e pericolose. Lavorava disperatamente. Si divideva tra il mondo borghese della vita familiare (l’appartamento all’Eur, il vecchio castello di Chia nella campagna viterbese per i periodi di riposo, la villa di Sabaudia per l’estate, i rapporti ubbidienti e tenerissimi con la madre o la cugina) e il mondo segreto della vita personale. Non aveva il gusto del mangiare né del bere, non faceva mai pettegolezzi né distratte conversazioni qualsiasi.
Gli altri scrittori capivano male il «mito della gioventù» che a 53 anni lo ossessionava, i suoi vestiti da ragazzo (giubbetti, jeans, stivaletti con i tacchi), la sua snella magrezza, la vanità delle automobili veloci e vistose; capivano male la sua vitalità fisica, le partite di calcio giocate coi ragazzi nei campetti di periferia, le sfide a «braccio di ferro» o a «ditate», la forza muscolare che aveva sviluppato e conservato. Ironizzavano sul suo «masochismo», sull’intrepido coraggio privo di rispetti umani con cui si esponeva nelle polemiche, affrontava nel 1969 un’intera fischiante aula universitaria di studenti ostili, fronteggiava nel 1973 a Venezia una piazza affollata di tumultuanti spettatori d’un suo film. Ironizzavano sul «narcisismo» che lo induceva a recitare parti nei film propri o altrui, a poetare: «Narcisismo! – sola forza consolatoria, sola salvezza!». Ironizzavano sulle indulgenze mondane d’un breve periodo: l’amicizia con Maria Callas, l’incontro amichevole con la moglie dell’ex presidente americano Johnson, certe serate di beneficenza mondana all’Opera di Parigi dove compariva tra la signora Pompidou e la baronessa Rotschild.
La gente di cinema sopportava male il suo successo grandissimo di regista. Gli intellettuali della sinistra gli perdonavano a fatica il modo viscerale, «innocente», contraddittorio di intervenire sui fatti della politica, certe impreviste prese di posizione che parevano dare una dignità culturale a idee conservatrici: contro la contestazione studentesca al tempo della famosa poesia in difesa della polizia; contro il divorzio; contro l’aborto; contro la permissività contemporanea; contro la criminalità crescente; contro il progresso distorto e in lode del buon tempo antico delle «lucciole»; contro la classe dirigente chiamata alla sbarra d’un «processo» globale e senza appello; per l’abolizione della scuola o della televisione. A quel tanto di eccessivo, di fuori del comune, di diretto che caratterizzava i suoi interventi civili, il mondo politico romano, che non lo amava, rispondeva ignorandolo oppure polemizzando con ira sprezzante, dandogli sufficienti lezioni di realismo. Era soprattutto ai radicali che Pasolini, dopo anni di vicinanza ai partiti marxisti, si sentiva oggi vicino: come loro «uomo d’utopia e di rivoluzione».
In ventisei anni a Roma, Pasolini è stato l’artista più discusso, commentato, contrastato. Anche insultato con le beffe persecutorie e razziste riservate agli omosessuali, che lo indignavano ma non lo addoloravano. Diceva una sua poesia: «Cosa conterà la mia “vita privata” / miseri scheletri, senza vita / né privata né pubblica, ricattatori / cosa conterà o conteranno le mie parole, / sarò io, dopo la morte, in primavera, / a vincere la scommessa». t
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