Da Corriere della Sera del 31/05/2005
«Volevano distruggere la democrazia, hanno eliminato un mondo di relazioni affettive». I quattro brigatisti ascoltano dando le spalle
Il pm in lacrime: ergastolo per i killer di Biagi
Requisitoria di 5 ore, poi il magistrato, amico del giuslavorista, si commuove. La vedova assiste nascosta
di Giovanni Bianconi
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BOLOGNA - La commozione prende il sopravvento dopo cinque ore di requisitoria, al momento delle conclusioni, quando il pubblico ministero dedica qualche pensiero alla vittima, il suo amico Marco Biagi. A pochi metri da lui, dietro le sbarre della gabbia, ci sono i brigatisti accusati di averlo ucciso una sera di tre anni fa, che chiacchierano dando le spalle al magistrato che proprio di loro sta parlando. Tra poco chiederà quattro ergastoli, uno per ciascuno, ma non sembra questione che li riguardi.
«I nostri imputati - dice il pm Paolo Giovagnoli - hanno dedicato tutte le loro risorse di tempo, intelligenza e dedizione allo scopo di distruggere la democrazia e di imporre le loro idee politiche con l’uso della violenza e della sopraffazione, mediante l’omicidio di persone considerate importanti per la realizzazione di scopi di politica nazionale opposti ai propri». Come Marco Biagi, professore, consulente del governo, che il magistrato conosceva e frequentava, insieme alle rispettive famiglie.
Tra il pubblico è seduta la moglie di Giovagnoli, che della moglie di Biagi era compagna di scuola ed è rimasta amica negli anni. La vedova invece, che ha sempre rifiutato clamori e apparizioni pubbliche, ascolta la requisitoria nascosta dietro un pannello di legno che separa l’aula dalle stanze interne dell’antico tribunale. Nessuno lo sa, e in gran segreto può sentire le parole del pm che adesso si spezzano ed escono a fatica: «Hanno ucciso con totale premeditazione un uomo che era l’espressione piena della democrazia, una persona che contribuiva con la propria intelligenza, cultura, studi e lavoro intellettuale a proporre soluzioni politiche per questioni di rilevanza nazionale come quelle del lavoro...». Pausa, ancora la voce che trema, poi riprende: «... nel confronto con gli altri, nella dialettica del dibattito con le proposte di altri studiosi e operatori».
Gli imputati continuano a non ascoltare, quasi ostentando il loro disinteresse. Per loro - accusa Giovagnoli - Marco Biagi era solo un simbolo da colpire; invece era un uomo, con una vita vissuta e ancora da vivere, insieme alla famiglia e agli amici. La commozione si rifà sotto e il pm sembra trattenere le lacrime quando aggiunge: «Hanno ucciso con la massima premeditazione un uomo nella pienezza della sua vita, un uomo che aveva due figli molto giovani, una moglie, una sorella, un padre, amici, allievi, interlocutori». Altra pausa. «Hanno distrutto consapevolmente un mondo di relazioni affettive, di studio e di lavoro per la loro pretesa di non essere uguali agli altri».
È finita, resta il tempo per le richieste di condanna: carcere a vita per i brigatisti confessi Nadia Lioce e Roberto Morandi e per quelli che hanno rivendicato il supporto fornito all'organizzazione, Marco Mezzasalma e Diana Blefari Melazzi.
Ventiquattro anni, invece, a un brigatista solo presunto che continua a proclamarsi innocente, Simone Boccaccini. il quale, dice il pm, merita «solo» 24 anni di anni di galera poiché «la sua partecipazione al delitto è stata minore, per paura, minore convinzione o debolezza». Che le nuove Br siano quelle a giudizio qui e a Roma per gli omicidi D’Antona e Biagi non ci sono dubbi; resta il problema delle responsabilità personali sui singoli fatti, delitti compresi, che sarà risolto dalla valutazione degli indizi e delle prove, dalle indagini telefoniche e telematiche alle confessioni della «pentita» Cinzia Banelli, riscontrate anche dal ritrovamento di un motorino Peugeot verde due mesi dopo il delitto, ma quando tornarono a prenderlo non c’era più.
«Succede, anche a un magistrato...» risponde Giovagnoli a chi gli chiede di quell’emozione emersa al termine di un processo appena portato a termine dalla Procura, dalla Corte d’assise ma anche da una città - Bologna «la rossa» - che di processi per terrorismo ne ha visti tanti, ma mai contro le Brigate rosse. Invece gli epigoni del partito armato, il 19 marzo 2002, sono venuti a uccidere proprio qui. Un delitto «annunciato, propagandato e firmato», accusa il legale della famiglia Biagi, l’avvocato Magnisi. Il quale chiede un risarcimento di 8,5 milioni di euro e ricorda la fretta dei brigatisti dopo aver letto su un settimanale la relazione dei Servizi segreti sui possibili nuovi obiettivi dei terroristi, nel timore che alla vittima prescelta fosse assegnata una scorta che avrebbe scombinato i loro piani di morte. «Gli assassini furono messi in allarme, ma i guardiani?», domanda polemico l’avvocato che ricorda come la vedova del professor Biagi, la signora Marina che ascolta lì dietro, abbia detto di aver ancora fiducia nella giustizia: «Non toglietecela», dice ai giudici.
Nel primo processo bolognese alle Br, l’avvocato Giampaolo che rappresenta il Comune e ha portato in aula il sindaco Cofferati a parlare di Biagi dopo le polemiche scoppiate all’indomani dell’omicidio, ricorda il documento di rivendicazione scritto «da questi gentiluomini» e indica la gabbia. «Citano le stragi - dice - compresa quella alla stazione di Bologna, che noi abbiamo vissuto e sofferto». Il legale è anche l’avvocato storico del Pci bolognese, e si sente l’orgoglio cittadino e forse anche di partito quando dice «a questi giovani sconsiderati che non è così che si combatte lo stragismo. Occorre combattere all’interno della legalità», aggiunge, e sembra rievocare le vecchie diatribe interne alla sinistra agli albori degli anni di piombo. E non trattiene la retorica mentre invita ad «amare la legalità come si ama un’amante focosa», un bene da custodire con gelosia e da proteggere «a ogni costo». Ma in quella gabbia così vicina e così lontana gli imputati seguitano a chiacchierare, ripresi di tanto in tanto dal presidente della Corte come fa un professore con gli scolari che disturbano la lezione, mostrando il disinteresse di sempre per le battute finali di un processo rifiutato ma giunto alle battute finali. Oggi le arringhe dei difensori, poi le eventuali repliche e la sentenza.
«I nostri imputati - dice il pm Paolo Giovagnoli - hanno dedicato tutte le loro risorse di tempo, intelligenza e dedizione allo scopo di distruggere la democrazia e di imporre le loro idee politiche con l’uso della violenza e della sopraffazione, mediante l’omicidio di persone considerate importanti per la realizzazione di scopi di politica nazionale opposti ai propri». Come Marco Biagi, professore, consulente del governo, che il magistrato conosceva e frequentava, insieme alle rispettive famiglie.
Tra il pubblico è seduta la moglie di Giovagnoli, che della moglie di Biagi era compagna di scuola ed è rimasta amica negli anni. La vedova invece, che ha sempre rifiutato clamori e apparizioni pubbliche, ascolta la requisitoria nascosta dietro un pannello di legno che separa l’aula dalle stanze interne dell’antico tribunale. Nessuno lo sa, e in gran segreto può sentire le parole del pm che adesso si spezzano ed escono a fatica: «Hanno ucciso con totale premeditazione un uomo che era l’espressione piena della democrazia, una persona che contribuiva con la propria intelligenza, cultura, studi e lavoro intellettuale a proporre soluzioni politiche per questioni di rilevanza nazionale come quelle del lavoro...». Pausa, ancora la voce che trema, poi riprende: «... nel confronto con gli altri, nella dialettica del dibattito con le proposte di altri studiosi e operatori».
Gli imputati continuano a non ascoltare, quasi ostentando il loro disinteresse. Per loro - accusa Giovagnoli - Marco Biagi era solo un simbolo da colpire; invece era un uomo, con una vita vissuta e ancora da vivere, insieme alla famiglia e agli amici. La commozione si rifà sotto e il pm sembra trattenere le lacrime quando aggiunge: «Hanno ucciso con la massima premeditazione un uomo nella pienezza della sua vita, un uomo che aveva due figli molto giovani, una moglie, una sorella, un padre, amici, allievi, interlocutori». Altra pausa. «Hanno distrutto consapevolmente un mondo di relazioni affettive, di studio e di lavoro per la loro pretesa di non essere uguali agli altri».
È finita, resta il tempo per le richieste di condanna: carcere a vita per i brigatisti confessi Nadia Lioce e Roberto Morandi e per quelli che hanno rivendicato il supporto fornito all'organizzazione, Marco Mezzasalma e Diana Blefari Melazzi.
Ventiquattro anni, invece, a un brigatista solo presunto che continua a proclamarsi innocente, Simone Boccaccini. il quale, dice il pm, merita «solo» 24 anni di anni di galera poiché «la sua partecipazione al delitto è stata minore, per paura, minore convinzione o debolezza». Che le nuove Br siano quelle a giudizio qui e a Roma per gli omicidi D’Antona e Biagi non ci sono dubbi; resta il problema delle responsabilità personali sui singoli fatti, delitti compresi, che sarà risolto dalla valutazione degli indizi e delle prove, dalle indagini telefoniche e telematiche alle confessioni della «pentita» Cinzia Banelli, riscontrate anche dal ritrovamento di un motorino Peugeot verde due mesi dopo il delitto, ma quando tornarono a prenderlo non c’era più.
«Succede, anche a un magistrato...» risponde Giovagnoli a chi gli chiede di quell’emozione emersa al termine di un processo appena portato a termine dalla Procura, dalla Corte d’assise ma anche da una città - Bologna «la rossa» - che di processi per terrorismo ne ha visti tanti, ma mai contro le Brigate rosse. Invece gli epigoni del partito armato, il 19 marzo 2002, sono venuti a uccidere proprio qui. Un delitto «annunciato, propagandato e firmato», accusa il legale della famiglia Biagi, l’avvocato Magnisi. Il quale chiede un risarcimento di 8,5 milioni di euro e ricorda la fretta dei brigatisti dopo aver letto su un settimanale la relazione dei Servizi segreti sui possibili nuovi obiettivi dei terroristi, nel timore che alla vittima prescelta fosse assegnata una scorta che avrebbe scombinato i loro piani di morte. «Gli assassini furono messi in allarme, ma i guardiani?», domanda polemico l’avvocato che ricorda come la vedova del professor Biagi, la signora Marina che ascolta lì dietro, abbia detto di aver ancora fiducia nella giustizia: «Non toglietecela», dice ai giudici.
Nel primo processo bolognese alle Br, l’avvocato Giampaolo che rappresenta il Comune e ha portato in aula il sindaco Cofferati a parlare di Biagi dopo le polemiche scoppiate all’indomani dell’omicidio, ricorda il documento di rivendicazione scritto «da questi gentiluomini» e indica la gabbia. «Citano le stragi - dice - compresa quella alla stazione di Bologna, che noi abbiamo vissuto e sofferto». Il legale è anche l’avvocato storico del Pci bolognese, e si sente l’orgoglio cittadino e forse anche di partito quando dice «a questi giovani sconsiderati che non è così che si combatte lo stragismo. Occorre combattere all’interno della legalità», aggiunge, e sembra rievocare le vecchie diatribe interne alla sinistra agli albori degli anni di piombo. E non trattiene la retorica mentre invita ad «amare la legalità come si ama un’amante focosa», un bene da custodire con gelosia e da proteggere «a ogni costo». Ma in quella gabbia così vicina e così lontana gli imputati seguitano a chiacchierare, ripresi di tanto in tanto dal presidente della Corte come fa un professore con gli scolari che disturbano la lezione, mostrando il disinteresse di sempre per le battute finali di un processo rifiutato ma giunto alle battute finali. Oggi le arringhe dei difensori, poi le eventuali repliche e la sentenza.
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