Da Die Weltwoche del 13/05/2005
Hotel Somalia
"C'era un unico guaio, ed era il guaio x" Joseph Heller, Comma 22
Dopo quattordici anni di anarchia, la Somalia ha un parlamento e un governo. Ma Mogadiscio è troppo pericolosa. E ministri e deputati si riuniscono in un albergo di Nairobi
di Mark Fischer
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IL DIRETTORE E I DIPENDENTI non nascondono il loro malcontento. Io, invece, apprezzo molto un albergo che di tanto in tanto ha degli ospiti fuori dall'ordinario. I soldi che la direzione deve anticipare per riparare i televisori distrutti, i divani strappati o le porte scardinate, prima che l'assicurazione li rimborsi, verranno ampiamente ripagati da una fama leggendaria. Alloggiare in una suite che è entrata nella storia è un privilegio ambìto: chiedetelo al Chelsea di NewYor (Sid Vicious e Nancy Spungen) o al Watergate di Washington (Nixon e il suo registratore a cassette).
Certo, l'hotel Sixeighty nel centro di Nairobi - con i suoi 35 anni, i 10 piani, le 340 stanze, i 680 letti, la singola a partire da 50 dollari e la doppia da 60 - in origine non era stato concepito come un luogo che avrebbe fatto la storia. Negli anni settanta, all'epoca dell'inaugurazione, i proprietari pensavano che l'albergo avrebbe ospitato businessman africani, che a quel tempo non guada
gnavàno granché, e stranieri amanti dei safari, per i quali un letto e una doccia funzionante erano già un lusso sufficiente.
Ma non è andata così. Abdulrahman Osman Dirir, 39 anni, alloggia nella stanza 721 del Sixeighty; Khadar Biihi Aalin, 34 anni, sta nella 722; Mohamed Ali Hagaa, 36 anni, occupa invece la 751. I tre non corrispondono all'immagine che si ha normalmente di un uomo d'affari o di un turista: se ne stanno stravaccati sul pavimento della stanza 721, insieme a tre amici e due donne, a inveire l'uno contro l'altro, a cucinare spaghetti sul fornello da campeggio, a sputare sulla moquette sigarette e resti di una pianta inebriante, ascoltando la radio a un volume così alto che si sente per tutto il settimo piano. Va detto però che i signori della 721 sono molto gentili con i visitatori.
"Salam aleikum, straniero. Sigaretta?".
"Aleikum salam, amici. Con piacere, ma non c'è un posacenere qui?".
"E a che serve?".
E poi riprendono: "Quando arrivano gli etiopi, è guerra, Abdulrahman".
"Non avranno il coraggio di entrare nel paese, Omnan'.
"Perché. cos'è successo nel 1964?". "Ma allora avevamo cominciato noi". "Sì, e invece adesso cominciano loro". "Stupidaggini!'.
"Non sono stupidaggini" .
Scene simili si ripetono nelle altre 164 stanze dell'hotel Sixeighty che ospitano i membri del governo somalo.
Facciamo un passo indietro: la Somalia è un paese devastato, in cui da 14 anni si susseguono guerra civile, carestia, anarchia, siccità, conflitti tra clan; un paese che dopo la caduta di Siad Barre nel 1991 non ha mai più avuto nemmeno un'ombra di quello che nel resto del mondo si chiama governo. Ma da qualche tempo la Somalia ha delle istituzioni politiche. L'Unione europea Ue . la comunità internazionale e l' ha d Agenzia intergovernativa per lo svil u p po, riunisce sette stati dell'Africa orientale) sono riuscite a costringere i molti signori della guerra, combattenti dei clan e nomadi a raggiungere un accordo. Ne è nato un parlamento, composto da 27.5 deputati, e un governo di 47 ministri e 47 viceministri, guidati dal premier Ali Mohammed Gedí e dal presidente Abdullahi Yussuf: istituzioni piuttosto affollate per un paese di circa sette milioni di abitanti, ma bisognava assegnare almeno un ministero a ogni signore della guerra se non si voleva che ricominciassero a combattere.
Osman Ato, per esempio, che in passato ha fatto sgomberare le truppe dell'Onu e si è impossessato dei loro camion e jeep, ha ottenuto il dicastero dei trasporti e dell'edilizia. Musa Sudi Yalahow, musulmano osservante che rubava all'Onu le taniche dell'acqua e il materiale sanitario, si è visto assegnare il ministero del commercio. Omar Mohammed Flish, soprannominato Finish per il numero di nemici che ha spedito nel paradiso di Allah, è diventato ministro delle "questioni religiose". E il signore della
guerra Hussein Aídid, figlio del generale Aidid, responsabile della morte di molti soldati statunitensi, ha il classico doppio incarico dì vìce premier e mini-stro degli esteri. Ora non devono fare altro che andare a Mogadiscio e cominciare a governare.
Ma per qualche motivo rinviano la data della partenza. Prima era la fine di gennaio. Poi fine febbraio. Poi fine marzo. Siamo arrivati alla fine di aprile e loro sono ancora a Nairobi, all'hotel Sixeighty. Il motivo, non si riesce a capire. Deve esserci un fattore x nell'enigma della Somalia: una variabile sconosciuta, un elemento di disturbo che impedisce al parlamento di fare ritorno in patria. E allora cerchiamolo, questo fattore x.
Cominciamo dagli esperti: gli occupanti della stanza 721.
"Abdulrahman, perché siete ancora qui?".
"Mogadiscio è ancora troppo pericolosa. Cì sparerebbero per strada, ci farebbero fuori subito".
"Troppo pericolosa? Ma come: voi che siete dei combattenti incalliti, che non avete paura né della morte né del diavolo, voi che considerate la guerra uno sport, dite che sarebbe pericoloso?".
Bisogna ammettere che il giudizio di Abdulrahman è condivisibile: ci varrà ancora molto tempo prima che si possa parlare di pace a Mogadiscio. Nella città non c'è traccia di polizia né di giudici, mentre il suo territorio resta diviso in sette o otto distretti, ciascuno dei quali è governato da un clan. A febbraio la giornalista della Bbc Kate Peyton è stata uccisa davanti al suo albergo. Qualche giorno dopo su una delle vie principali. lungo le quali doveva passare un camion dell' Onu è esplosa una moto-bomba che ha ucciso cinque bambini somali.
Chi soffia sul fuoco
Tutto questo è noto. Quello che non si sa esattamente è chi stia soffiando sul fuoco. Non lo sanno neppure al Sixeighty. Allahi Jama. della stanza 834, crede che siano fondamentalisti islamici del gruppo al Ittihad, legato ad al Qaeda: a quanto sembra, le sue scuole coraniche a Mogadiscio esercitano un'enorme influenza. Hussein Jabiri, della stanza 428, crede invece che si tratti di qualche sottoclan che non è disposto a cedere al governo le strade, gli edifici e i mezzi di trasporto su cui esercita il suo controllo. Asha Ali, della stanza 719, una delle poche donne del parlamento, ritiene che si sia trattato solo di uno sfortunato incidente. Infine c'è l'ipotesi di alcuni rappresentanti dei clan Habr Gedir e Abgal, di Mogadiscio; secondo loro l'uccisione di kate Peyton e l'esplosione sarebbero stati pianificati dal presidente Abdullahi Yússuf in persona. Lui è un membro del clan Darod, originario del nord, e non vuole che Mogadiscio resti la capitale perché teme che lì gli sparerebbero subito, al momento di affacciarsi alla finestra per salutare il popolo. Forse Yussuf non avrebbe dovuto chiedere all'Unione africana trentamila soldati per disarmare i clan. Questi soldati provengono per lo più dall'Etiopia e Yussuf ne ha una buona opinione. A1 tempo della sua presidenza della regione settentrionale del Puntland, quelle truppe lo hanno aiutato a ottenere un secondo mandato, garantendogli rifornimenti di armi e di uomini. A molti somali non piace l'idea che siano proprio i militari etiopi a disarmarli. Temono di venire occupati da quel paese cristiano, contro cui hanno combattuto già due guerre.
C'è anche un'altra tesi per spiegare come mai i somali non se ne tornano a casa. Secondo questa versione, si trovano oramai così bene a Nairobi che non hanno più voglia di governare in patria. Questa posizione è sostenuta dal presidente keniano Mwai Kibaki, che nel suo discorso di capodanno ha chiesto ai somali di lasciare il paese al più presto. Anche John K. Shabaan, direttore del Sixeighty, è d'accordo. Shabaan ha preso l'abitudine di parlare dei suoi ospiti per indovinelli: "Che cosa ci fanno 165 somali tutti nello stesso posto?".
"Non ne ho idea, signor Shabaan". "Litigano in 165 modi diversi".
Bella battuta, ma è sufficiente per identificare il fattore x?
Penso di no, e perciò rivolgo nuovamente l'attenzione ai somalì. A1 Sixeighty non si vive così male, rispetto ai luoghi da cui proviene la maggior parte degli ospiti. Ogni deputato ha una stanza tutta per sé, la tv, una lampada per leggere il Corano, tre pasti al giorno: i costi del pacchetto Nairobi tutto compreso per i 165 somali al Sixeighty e per i 110 che alloggiano ìn altri alberghi di Nairobi sono sostenuti dall'Ue, dalla comunità internazionale e dall'Igad. Le spese per la quattordicesima conferenza di riconciliazione ammontano ormai a somme dell'ordine di miliardi. Abdulrahman, Khadar e Ali - i miei amici della stanza 721- provengono dalla repubblica del Somaliland, nel nord. Prima di essere inviati a Nairobi come deputati del loro clan, un sottogruppo dei Darod, erano semplici commercianti di pesce e vivevano insieme in una capanna di lamiera. Chi ha dormito per tutta la vita su stuoie di paglia e tavolacci di legno, sa apprezzare che ogni mattina a mezzogiorno arrivi la cameriera a rifare il letto e a ripulire la sporcizia del giorno prima. E di sporcizia qui se ne produce davvero tanta. Quello che dà particolarmente fastidio alle cameriere e al signor Shabaan, oltre ai mozziconi di sigaretta, sono i resti di qat sulla moquette. Il qat, pianta dagli effetti inebrianti, è da secoli la droga preferita dei somali. Le foglie fresche, se masticate a lungo, danno un'ebbrezza simile a quella offerta da una blanda anfetamina: pupille dilatate, sguardo vitreo, pensieri confusi e gengive tinte di verde. Dato che molti somali la masticano tutto il giorno, spesso ne cade un po' sul pavimento dell'albergo, trasformandolo in una specie di prato artificiale che non si riesce più a ripulire in nessun modo. Ma non è tutto: qualche settimana fa i somali sono riusciti ad appiccare il fuoco nelle stanze 320 e 321. A tutt’oggi non si sa che cosa sia successo. Forse, indagando un po' più a fondo, ci si può avvicinare al fattore x.
"Osman, che cosa è successo in quelle stanze? Torce? Un falò? Qualcuno fumava a letto?".
"Io non c'entro. Chiedi ad Abdulrahman".
"Cos'è successo in quelle stanze, Abdulrahman?".
"Non so proprio perché Osman abbia pensato che io ne sapessi qualcosa. Chiedi ad Ali".
"Ali?".
"Ho sentito che sono stati degli Abgal, di Mogadiscio sud. Chiedilo al primo ministro".
Non è una cattiva idea. Il primo ministro Ali Mohauuned Gedi non frequenta il Sixeighty. Lo si può incontrare alla piscina dell'hotel Jacaranda, a Westlands, il quartiere delle ville di Nairobi. Gedi è un uomo magro, che indossa un abito con le spalle un po'troppo grandi; in compenso porta dei mocassini neri molto eleganti. Il parlamento ha raggiunto un accordo sulla sua nomina, proprio perché non si era mai occupato troppo di politica. In effetti è veterinario ed è specializzato in bovini e cammelli. I cammelli sono importanti in Somalia: per millenni hanno costituito di fatto la moneta di scambio del paese, finché sono stati sostituiti dai fucili, dai razzi terra-aria e dai pick-up.
"Mogadiscio resterà la capitale?". "Così è scritto nell'accordo. Sì".
"Le truppe etiopiche verranno in Somalia, signor Gedi?".
"Non so nulla al riguardo".
"Com'è la situazione a Mogadiscio?". "Non così brutta come molti pensano".
"Anche se è esplosa una bomba? Anche se hanno assassinato Kate Peyton?".
"Potrebbe essere stato un incidente. A Mogadiscio esplode ogni giorno qualcosa, perché tecnicamente non è possibile curare la manutenzione".
"E i fondamentalisti islamici?". "Non sono così potenti". "Quando andrà a Mogadiscio?". "La settimana prossima". "Con o senza il presidente?". "Dobbiamo ancora deciderlo".
"Al Sixeighty c'è stato un incendio nelle stanze 320 e 321. Ne sa qualcosa?". Gedi mi guarda per un istante, poi si alza e se ne va.
Non c'è problema, lo domanderò al presidente. Purtroppo Abdullahi Yussuf non ha tempo: deve incontrare un deputato etiopico. In compenso c'è Bari Bari, il suo portavoce. Bari Bari è un uomo intelligente e sovrappeso, che ha studiato scienze politiche in Italia. Per incontrarlo, non si va al Sixeighty né al Jacaranda, ma al Grand Regency, in centro: lì le stanze costano sei volte tanto.
"Mogadiscio resterà la capitale, signor Bari Bari?".
"No. Non ha sentito parlare della bomba e dell'assassinio di Kate Peyton".: "Le truppe etiopiche verranno in Somalia. signor Bari Bari?".
"La Somalia è un paese gravemente ammalato. Soffre di molti virus: la guerra civile, l'anarchia e, da qualche tempo, il fondamentalismo islamico. E cosa si fa con un ammalato? Si chiama il medico".
Quest'uomo ama parlare per immagini. Anch'io: "Il medico si chiama forse dottor Etiopia?".
Bari Bari si lascia sfuggire un sogghigno. poi riprende la sua conferenza: biamo bisogno di aiuto, capisce? Di aiuto finanziario sotto forma di un contingente internazionale di pace dall'Europa, dalla Lega araba ma anche dall'Unione africana e da paesi limitrofi come alla favorevole situazione fiscale in Somalia - dove di fatto le tasse non esistono - ci sono più reti di telefonia mobile in quel paese di quante ce ne siano in Kenya, Gibuti, Tanzania ed Etiopia messe insieme; e funzionano anche meglio. Hanno perfino reti senza fili e collegamenti adsl, a prezzi che in occidente ci sogniamo. I buoni affari in questo paradiso del capitalismo hanno permesso ad alcuni signori della guerra di comprarsi delle belle seconde e terze case a Dubai, in Oman e Arabia Saudita. Un altro buon motivo per non affrettarsi ad andare al governo.
Pensieroso, mi stendo sul letto dell'albergo. Qualcuno bussa alla porta. È un ometto con i baffi, che somiglia a Ben Kingsley nel ruolo del Mahatma Gandhi.
"Buona sera. Ho sentito che mi stava cercando", dice in perfetto tedesco. "Mi scusi ma lei chi è?".
"Mi chiamo Ibrahim Rashid Abdulfattah. Mi può chiamare Rashid. Le interessa il governo somalo?".
"Sì, sto cercando il fattore x".
"Il cosa?".
"Il motivo per cui i somali sono ancora a Nairobí, mentre dovrebbero essere a Mogadiscio".
"Posso aiutarla, se vuole gentìlmente seguirmi. Non si preoccupi: non andiamo lontano. Dobbiamo solo scendere di nove piani".
Mentre scendiamo, Rashid mi riferisce per sommi capi la sua biografia: è nato nel 1953: negli anni sessanta, quando era agente della polizia stradale, faceva multe alle vespe truccate; nel 1969, dopo il colpo di stato di Siad Barre, ha chiesto asilo politico in Germania e si è trasferito a Norimberga, dove si è sposato e ha cambiato occupazione più volte facendo lo studente, l'ingegnere, l'addetto alla sorveglianza nei grandi magazzini e l'imprenditore. Il motivo per cui il suo clan, con cui non aveva più contatti da anni, lo ha scelto come rappresentante. alla conferenza di pace, resta un mistero anche per lui. "Forse perché parlo un paio di lingue straniere e ho due abiti buoni", commenta.
Ed eccoci nella hall del Sixeighty. Quella che vediamo è incredibile. Non solo tutte le sedie, i tavoli, i banconi, e addirittura tutti ì posti a sedere tra la reception, il caffè, il negozio di Bata e il gigantesco finestrone di vetro fumé davanti all'ingresso sono occupati, ma anche gli scarsi ottanta metri quadrati che stanno al centro sono gremìtì di somali che formano capannelli di una decina di persone e parlano, gridano, bisbigliano, discutono, urlano nei cellulari. È una miscela, profumata di legno di cedro, che ha qualcosa del bazaar, dell'aeroporto 0 del parlamento. Qui non ci sono soltanto i deputati, ma anche gli esuli del Canada, degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e dell'Italia; tra loro, membri dell'opposizione, uomini d'affari, giornalisti, spie, ínformatori. "Tutta la Somalia, insomma.
"È così ogni giorno", osserva Rashid. `Ascolti e guardi: capirà".
In giro per la hall
Rashid mi prende per mano e mi guida da un gruppo all'altro. Mi porta innanzitutto dal dottor Qaasim Hersi Fara, che si è candidato, insieme a un centinaio di altri somali, alla carica di presidente.
Pur essendo stato respinto, continua ancora ad andarsene in giro con il cartellino di candidato appuntata sulla camicia, perché non ritiene ancora sfumata 1'opportunìtà dì imporre in Somalia una "ferrea politica di legge e ordine in stile italiano'.
Poi Rasllid mi accompagna dal colonnello pilota, lo sceicco Omar Abdi Kassìm, anche luì candidato alla presìdenza, che si è fatto ricamare sul colletto della polo bianca il nome "Mike Tyson"; da quel che mi è dato di capire, vuole trasformare la Somalia in una specie di stato teocratico. Dopo passiamo al colonnello Abdi Assis, chiamato Garam Garam ("quello che parla con voce stridula"), per sua stessa ammissione braccio destro dell'ex signore della guerra generale Morgan. meglio noto come "il macellaio di Hargeisa" per i massacri compiuti ìn quella localìtà. Kashid mi presenta Jama Adam Mohammed, detto Jama, cui manca mezzo dito dall'epoca della guerra combattuta al fianco di Aidid contro gli americani; per questo motivo minaccia di "fare una causa spietata" al governo degli Stati Uniti.
C'è anche Abdir Hassan, ex calciatore professionista di Mogadiscio e ora esule a Londra, privo di qualsiasi incarico, che ha già suscitato un certo scompiglio nel salone con i suoi improperi contro i deputati: "Porci fannullonì, che andrebbero fucìlatì, perché se la spassano qui a Nairobi mentre in Somalia i bambini muoiono di fame".
Incontro pure il signore della guerra Omar Mohammed detto Finish, ministro della religione: sta annunciando al suo pubblico di essere pronto a cedere al governo i suoi duemila kalashnikov e quaranta blindati, purché il governo sia "disposto a pagare l'attuale prezzo di mercato".
A ruota libera
E poi conosco una sessantina di altre persone che, armate di foglietti, volantini, libri, statistiche e "testimonianze di prima mano"; gironzolano nel salone c discutono di tutto quello che gli viene in mente: del "problema etiopico", della questione se il primo ministro sia "più veterinario o più politico"; della potenza e degli arsenali dei singoli signori della guerra che compongono il governo, dei loro politici preferiti (Helmut Schmidt, Berlusconi, il generale Aidid, Idi Amin, Bill Clinton, Nelson Mandela, Arnold Schwarzenegger, Lenin), delle rispettive opinioni sulla situazione in Iraq, Iran, Afghanistan e Germania dopo la seconda guerra mondiale. Chi ha più seguito, prende coraggio e tiene monologhi di ore e ore; chi invece si sente incompreso, si volta e va a cercare migliore fortuna in un altro capannello.
Capisco che l'idea che mi ero fatto dopo i colloqui con Bari Bari e Gedi era sbagliata: il problema che ostacola il ritorno a casa dei somali non è l'assenza di un piano. Il problema è semmai che ognuno ha il suo piano: 165 somali tutti nello stesso posto non sono 165 modi di litigare. Sono 165 visioni completamente diverse del futuro della Somalia. E a queste 165 bisogna sommare anche le 110 dei somali alloggiati negli altri alberghi. Quindi il fattore x è pari a 275.
“Capisce ora?”; mi chiede Rashid, indicando il salone. "In tutti questi anni di ,guerra siamo diventati anormali. Non c'è mai stata alcuna riconciliazione tra i clan nemici e ora ci hanno stipati tutti qui dentro nella speranza che ne venga fuo-ri qualcosa. Rashid alzale mani al cielo.
Più tardi. quella sera, mi ritrovo insieme al giornalista somalo Abdi-Rahman Roble nella stanza di Rashid, la 408. Roble parla della tv che sta creando a Mogadiscio: è stato lì la settimana scorsa, senza alcun aiuto del governo.
"Si può fare, basta volerlo"; dice Roble, alzando le spalle. "Bisogna prendere la decisione di andare lì, anziché restare a discutere per mesi. Naturalmente ci vuole un po' di cautela".
"E i fondamentalisti islamici?".
"Ci sono, chiaro. Ma dovrei rinunciare a tornarmene a casa solo perché ci sono un paio di persone con cui non vado d'accordo?".
Sembra che Roble riesca a fare i conti senza bisogno del fattore x. Certo, lui non è un parlamentare.
"Bari Bari ci ha proposto di andare in Somalia insieme al presidente, dopodomani".
"Non se ne fa niente", annuncia Rashid. "L'ho sentito prima".
"Perché?".
"Improvvisamente è sorto un problema con le piste d'atterraggio". "Attaccate? Distrutte?".
"No. Troppo corte. Lo hanno appena scoperto".
Tutti ridono. Un nuovo fattore x. "C'è ancora una cosa che vorrei sapere, Rashid. Cosa è successo nelle stanze 320 e 321?".
Rashid riflette un momento.
"Forse una grigliata? Sa, a noi somali piace la cucina italiana, ma purtroppo al ristorante dell'albergo non la fanno abbastanza spesso. Può darsi che abbiano deciso di preparare un branzino al limone con patate e verdura di stagione".
Continuo a sentire la risata di Rashid fino all'ascensore. Prima di tornare nella mia camera, do un'occhiata alla hall dell'albergo. Sono ancora lì. Certo, ora hanno un aspetto diverso. Sono tranquilli, placidi. Alcuni russano, altri si rigirano in cerca di una posizione più comoda; altri ancora stanno stesi, come irrigiditi, sulle poltrone. Sono sprofondati tutti nel sonno.
Certo, l'hotel Sixeighty nel centro di Nairobi - con i suoi 35 anni, i 10 piani, le 340 stanze, i 680 letti, la singola a partire da 50 dollari e la doppia da 60 - in origine non era stato concepito come un luogo che avrebbe fatto la storia. Negli anni settanta, all'epoca dell'inaugurazione, i proprietari pensavano che l'albergo avrebbe ospitato businessman africani, che a quel tempo non guada
gnavàno granché, e stranieri amanti dei safari, per i quali un letto e una doccia funzionante erano già un lusso sufficiente.
Ma non è andata così. Abdulrahman Osman Dirir, 39 anni, alloggia nella stanza 721 del Sixeighty; Khadar Biihi Aalin, 34 anni, sta nella 722; Mohamed Ali Hagaa, 36 anni, occupa invece la 751. I tre non corrispondono all'immagine che si ha normalmente di un uomo d'affari o di un turista: se ne stanno stravaccati sul pavimento della stanza 721, insieme a tre amici e due donne, a inveire l'uno contro l'altro, a cucinare spaghetti sul fornello da campeggio, a sputare sulla moquette sigarette e resti di una pianta inebriante, ascoltando la radio a un volume così alto che si sente per tutto il settimo piano. Va detto però che i signori della 721 sono molto gentili con i visitatori.
"Salam aleikum, straniero. Sigaretta?".
"Aleikum salam, amici. Con piacere, ma non c'è un posacenere qui?".
"E a che serve?".
E poi riprendono: "Quando arrivano gli etiopi, è guerra, Abdulrahman".
"Non avranno il coraggio di entrare nel paese, Omnan'.
"Perché. cos'è successo nel 1964?". "Ma allora avevamo cominciato noi". "Sì, e invece adesso cominciano loro". "Stupidaggini!'.
"Non sono stupidaggini" .
Scene simili si ripetono nelle altre 164 stanze dell'hotel Sixeighty che ospitano i membri del governo somalo.
Facciamo un passo indietro: la Somalia è un paese devastato, in cui da 14 anni si susseguono guerra civile, carestia, anarchia, siccità, conflitti tra clan; un paese che dopo la caduta di Siad Barre nel 1991 non ha mai più avuto nemmeno un'ombra di quello che nel resto del mondo si chiama governo. Ma da qualche tempo la Somalia ha delle istituzioni politiche. L'Unione europea Ue . la comunità internazionale e l' ha d Agenzia intergovernativa per lo svil u p po, riunisce sette stati dell'Africa orientale) sono riuscite a costringere i molti signori della guerra, combattenti dei clan e nomadi a raggiungere un accordo. Ne è nato un parlamento, composto da 27.5 deputati, e un governo di 47 ministri e 47 viceministri, guidati dal premier Ali Mohammed Gedí e dal presidente Abdullahi Yussuf: istituzioni piuttosto affollate per un paese di circa sette milioni di abitanti, ma bisognava assegnare almeno un ministero a ogni signore della guerra se non si voleva che ricominciassero a combattere.
Osman Ato, per esempio, che in passato ha fatto sgomberare le truppe dell'Onu e si è impossessato dei loro camion e jeep, ha ottenuto il dicastero dei trasporti e dell'edilizia. Musa Sudi Yalahow, musulmano osservante che rubava all'Onu le taniche dell'acqua e il materiale sanitario, si è visto assegnare il ministero del commercio. Omar Mohammed Flish, soprannominato Finish per il numero di nemici che ha spedito nel paradiso di Allah, è diventato ministro delle "questioni religiose". E il signore della
guerra Hussein Aídid, figlio del generale Aidid, responsabile della morte di molti soldati statunitensi, ha il classico doppio incarico dì vìce premier e mini-stro degli esteri. Ora non devono fare altro che andare a Mogadiscio e cominciare a governare.
Ma per qualche motivo rinviano la data della partenza. Prima era la fine di gennaio. Poi fine febbraio. Poi fine marzo. Siamo arrivati alla fine di aprile e loro sono ancora a Nairobi, all'hotel Sixeighty. Il motivo, non si riesce a capire. Deve esserci un fattore x nell'enigma della Somalia: una variabile sconosciuta, un elemento di disturbo che impedisce al parlamento di fare ritorno in patria. E allora cerchiamolo, questo fattore x.
Cominciamo dagli esperti: gli occupanti della stanza 721.
"Abdulrahman, perché siete ancora qui?".
"Mogadiscio è ancora troppo pericolosa. Cì sparerebbero per strada, ci farebbero fuori subito".
"Troppo pericolosa? Ma come: voi che siete dei combattenti incalliti, che non avete paura né della morte né del diavolo, voi che considerate la guerra uno sport, dite che sarebbe pericoloso?".
Bisogna ammettere che il giudizio di Abdulrahman è condivisibile: ci varrà ancora molto tempo prima che si possa parlare di pace a Mogadiscio. Nella città non c'è traccia di polizia né di giudici, mentre il suo territorio resta diviso in sette o otto distretti, ciascuno dei quali è governato da un clan. A febbraio la giornalista della Bbc Kate Peyton è stata uccisa davanti al suo albergo. Qualche giorno dopo su una delle vie principali. lungo le quali doveva passare un camion dell' Onu è esplosa una moto-bomba che ha ucciso cinque bambini somali.
Chi soffia sul fuoco
Tutto questo è noto. Quello che non si sa esattamente è chi stia soffiando sul fuoco. Non lo sanno neppure al Sixeighty. Allahi Jama. della stanza 834, crede che siano fondamentalisti islamici del gruppo al Ittihad, legato ad al Qaeda: a quanto sembra, le sue scuole coraniche a Mogadiscio esercitano un'enorme influenza. Hussein Jabiri, della stanza 428, crede invece che si tratti di qualche sottoclan che non è disposto a cedere al governo le strade, gli edifici e i mezzi di trasporto su cui esercita il suo controllo. Asha Ali, della stanza 719, una delle poche donne del parlamento, ritiene che si sia trattato solo di uno sfortunato incidente. Infine c'è l'ipotesi di alcuni rappresentanti dei clan Habr Gedir e Abgal, di Mogadiscio; secondo loro l'uccisione di kate Peyton e l'esplosione sarebbero stati pianificati dal presidente Abdullahi Yússuf in persona. Lui è un membro del clan Darod, originario del nord, e non vuole che Mogadiscio resti la capitale perché teme che lì gli sparerebbero subito, al momento di affacciarsi alla finestra per salutare il popolo. Forse Yussuf non avrebbe dovuto chiedere all'Unione africana trentamila soldati per disarmare i clan. Questi soldati provengono per lo più dall'Etiopia e Yussuf ne ha una buona opinione. A1 tempo della sua presidenza della regione settentrionale del Puntland, quelle truppe lo hanno aiutato a ottenere un secondo mandato, garantendogli rifornimenti di armi e di uomini. A molti somali non piace l'idea che siano proprio i militari etiopi a disarmarli. Temono di venire occupati da quel paese cristiano, contro cui hanno combattuto già due guerre.
C'è anche un'altra tesi per spiegare come mai i somali non se ne tornano a casa. Secondo questa versione, si trovano oramai così bene a Nairobi che non hanno più voglia di governare in patria. Questa posizione è sostenuta dal presidente keniano Mwai Kibaki, che nel suo discorso di capodanno ha chiesto ai somali di lasciare il paese al più presto. Anche John K. Shabaan, direttore del Sixeighty, è d'accordo. Shabaan ha preso l'abitudine di parlare dei suoi ospiti per indovinelli: "Che cosa ci fanno 165 somali tutti nello stesso posto?".
"Non ne ho idea, signor Shabaan". "Litigano in 165 modi diversi".
Bella battuta, ma è sufficiente per identificare il fattore x?
Penso di no, e perciò rivolgo nuovamente l'attenzione ai somalì. A1 Sixeighty non si vive così male, rispetto ai luoghi da cui proviene la maggior parte degli ospiti. Ogni deputato ha una stanza tutta per sé, la tv, una lampada per leggere il Corano, tre pasti al giorno: i costi del pacchetto Nairobi tutto compreso per i 165 somali al Sixeighty e per i 110 che alloggiano ìn altri alberghi di Nairobi sono sostenuti dall'Ue, dalla comunità internazionale e dall'Igad. Le spese per la quattordicesima conferenza di riconciliazione ammontano ormai a somme dell'ordine di miliardi. Abdulrahman, Khadar e Ali - i miei amici della stanza 721- provengono dalla repubblica del Somaliland, nel nord. Prima di essere inviati a Nairobi come deputati del loro clan, un sottogruppo dei Darod, erano semplici commercianti di pesce e vivevano insieme in una capanna di lamiera. Chi ha dormito per tutta la vita su stuoie di paglia e tavolacci di legno, sa apprezzare che ogni mattina a mezzogiorno arrivi la cameriera a rifare il letto e a ripulire la sporcizia del giorno prima. E di sporcizia qui se ne produce davvero tanta. Quello che dà particolarmente fastidio alle cameriere e al signor Shabaan, oltre ai mozziconi di sigaretta, sono i resti di qat sulla moquette. Il qat, pianta dagli effetti inebrianti, è da secoli la droga preferita dei somali. Le foglie fresche, se masticate a lungo, danno un'ebbrezza simile a quella offerta da una blanda anfetamina: pupille dilatate, sguardo vitreo, pensieri confusi e gengive tinte di verde. Dato che molti somali la masticano tutto il giorno, spesso ne cade un po' sul pavimento dell'albergo, trasformandolo in una specie di prato artificiale che non si riesce più a ripulire in nessun modo. Ma non è tutto: qualche settimana fa i somali sono riusciti ad appiccare il fuoco nelle stanze 320 e 321. A tutt’oggi non si sa che cosa sia successo. Forse, indagando un po' più a fondo, ci si può avvicinare al fattore x.
"Osman, che cosa è successo in quelle stanze? Torce? Un falò? Qualcuno fumava a letto?".
"Io non c'entro. Chiedi ad Abdulrahman".
"Cos'è successo in quelle stanze, Abdulrahman?".
"Non so proprio perché Osman abbia pensato che io ne sapessi qualcosa. Chiedi ad Ali".
"Ali?".
"Ho sentito che sono stati degli Abgal, di Mogadiscio sud. Chiedilo al primo ministro".
Non è una cattiva idea. Il primo ministro Ali Mohauuned Gedi non frequenta il Sixeighty. Lo si può incontrare alla piscina dell'hotel Jacaranda, a Westlands, il quartiere delle ville di Nairobi. Gedi è un uomo magro, che indossa un abito con le spalle un po'troppo grandi; in compenso porta dei mocassini neri molto eleganti. Il parlamento ha raggiunto un accordo sulla sua nomina, proprio perché non si era mai occupato troppo di politica. In effetti è veterinario ed è specializzato in bovini e cammelli. I cammelli sono importanti in Somalia: per millenni hanno costituito di fatto la moneta di scambio del paese, finché sono stati sostituiti dai fucili, dai razzi terra-aria e dai pick-up.
"Mogadiscio resterà la capitale?". "Così è scritto nell'accordo. Sì".
"Le truppe etiopiche verranno in Somalia, signor Gedi?".
"Non so nulla al riguardo".
"Com'è la situazione a Mogadiscio?". "Non così brutta come molti pensano".
"Anche se è esplosa una bomba? Anche se hanno assassinato Kate Peyton?".
"Potrebbe essere stato un incidente. A Mogadiscio esplode ogni giorno qualcosa, perché tecnicamente non è possibile curare la manutenzione".
"E i fondamentalisti islamici?". "Non sono così potenti". "Quando andrà a Mogadiscio?". "La settimana prossima". "Con o senza il presidente?". "Dobbiamo ancora deciderlo".
"Al Sixeighty c'è stato un incendio nelle stanze 320 e 321. Ne sa qualcosa?". Gedi mi guarda per un istante, poi si alza e se ne va.
Non c'è problema, lo domanderò al presidente. Purtroppo Abdullahi Yussuf non ha tempo: deve incontrare un deputato etiopico. In compenso c'è Bari Bari, il suo portavoce. Bari Bari è un uomo intelligente e sovrappeso, che ha studiato scienze politiche in Italia. Per incontrarlo, non si va al Sixeighty né al Jacaranda, ma al Grand Regency, in centro: lì le stanze costano sei volte tanto.
"Mogadiscio resterà la capitale, signor Bari Bari?".
"No. Non ha sentito parlare della bomba e dell'assassinio di Kate Peyton".: "Le truppe etiopiche verranno in Somalia. signor Bari Bari?".
"La Somalia è un paese gravemente ammalato. Soffre di molti virus: la guerra civile, l'anarchia e, da qualche tempo, il fondamentalismo islamico. E cosa si fa con un ammalato? Si chiama il medico".
Quest'uomo ama parlare per immagini. Anch'io: "Il medico si chiama forse dottor Etiopia?".
Bari Bari si lascia sfuggire un sogghigno. poi riprende la sua conferenza: biamo bisogno di aiuto, capisce? Di aiuto finanziario sotto forma di un contingente internazionale di pace dall'Europa, dalla Lega araba ma anche dall'Unione africana e da paesi limitrofi come alla favorevole situazione fiscale in Somalia - dove di fatto le tasse non esistono - ci sono più reti di telefonia mobile in quel paese di quante ce ne siano in Kenya, Gibuti, Tanzania ed Etiopia messe insieme; e funzionano anche meglio. Hanno perfino reti senza fili e collegamenti adsl, a prezzi che in occidente ci sogniamo. I buoni affari in questo paradiso del capitalismo hanno permesso ad alcuni signori della guerra di comprarsi delle belle seconde e terze case a Dubai, in Oman e Arabia Saudita. Un altro buon motivo per non affrettarsi ad andare al governo.
Pensieroso, mi stendo sul letto dell'albergo. Qualcuno bussa alla porta. È un ometto con i baffi, che somiglia a Ben Kingsley nel ruolo del Mahatma Gandhi.
"Buona sera. Ho sentito che mi stava cercando", dice in perfetto tedesco. "Mi scusi ma lei chi è?".
"Mi chiamo Ibrahim Rashid Abdulfattah. Mi può chiamare Rashid. Le interessa il governo somalo?".
"Sì, sto cercando il fattore x".
"Il cosa?".
"Il motivo per cui i somali sono ancora a Nairobí, mentre dovrebbero essere a Mogadiscio".
"Posso aiutarla, se vuole gentìlmente seguirmi. Non si preoccupi: non andiamo lontano. Dobbiamo solo scendere di nove piani".
Mentre scendiamo, Rashid mi riferisce per sommi capi la sua biografia: è nato nel 1953: negli anni sessanta, quando era agente della polizia stradale, faceva multe alle vespe truccate; nel 1969, dopo il colpo di stato di Siad Barre, ha chiesto asilo politico in Germania e si è trasferito a Norimberga, dove si è sposato e ha cambiato occupazione più volte facendo lo studente, l'ingegnere, l'addetto alla sorveglianza nei grandi magazzini e l'imprenditore. Il motivo per cui il suo clan, con cui non aveva più contatti da anni, lo ha scelto come rappresentante. alla conferenza di pace, resta un mistero anche per lui. "Forse perché parlo un paio di lingue straniere e ho due abiti buoni", commenta.
Ed eccoci nella hall del Sixeighty. Quella che vediamo è incredibile. Non solo tutte le sedie, i tavoli, i banconi, e addirittura tutti ì posti a sedere tra la reception, il caffè, il negozio di Bata e il gigantesco finestrone di vetro fumé davanti all'ingresso sono occupati, ma anche gli scarsi ottanta metri quadrati che stanno al centro sono gremìtì di somali che formano capannelli di una decina di persone e parlano, gridano, bisbigliano, discutono, urlano nei cellulari. È una miscela, profumata di legno di cedro, che ha qualcosa del bazaar, dell'aeroporto 0 del parlamento. Qui non ci sono soltanto i deputati, ma anche gli esuli del Canada, degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e dell'Italia; tra loro, membri dell'opposizione, uomini d'affari, giornalisti, spie, ínformatori. "Tutta la Somalia, insomma.
"È così ogni giorno", osserva Rashid. `Ascolti e guardi: capirà".
In giro per la hall
Rashid mi prende per mano e mi guida da un gruppo all'altro. Mi porta innanzitutto dal dottor Qaasim Hersi Fara, che si è candidato, insieme a un centinaio di altri somali, alla carica di presidente.
Pur essendo stato respinto, continua ancora ad andarsene in giro con il cartellino di candidato appuntata sulla camicia, perché non ritiene ancora sfumata 1'opportunìtà dì imporre in Somalia una "ferrea politica di legge e ordine in stile italiano'.
Poi Rasllid mi accompagna dal colonnello pilota, lo sceicco Omar Abdi Kassìm, anche luì candidato alla presìdenza, che si è fatto ricamare sul colletto della polo bianca il nome "Mike Tyson"; da quel che mi è dato di capire, vuole trasformare la Somalia in una specie di stato teocratico. Dopo passiamo al colonnello Abdi Assis, chiamato Garam Garam ("quello che parla con voce stridula"), per sua stessa ammissione braccio destro dell'ex signore della guerra generale Morgan. meglio noto come "il macellaio di Hargeisa" per i massacri compiuti ìn quella localìtà. Kashid mi presenta Jama Adam Mohammed, detto Jama, cui manca mezzo dito dall'epoca della guerra combattuta al fianco di Aidid contro gli americani; per questo motivo minaccia di "fare una causa spietata" al governo degli Stati Uniti.
C'è anche Abdir Hassan, ex calciatore professionista di Mogadiscio e ora esule a Londra, privo di qualsiasi incarico, che ha già suscitato un certo scompiglio nel salone con i suoi improperi contro i deputati: "Porci fannullonì, che andrebbero fucìlatì, perché se la spassano qui a Nairobi mentre in Somalia i bambini muoiono di fame".
Incontro pure il signore della guerra Omar Mohammed detto Finish, ministro della religione: sta annunciando al suo pubblico di essere pronto a cedere al governo i suoi duemila kalashnikov e quaranta blindati, purché il governo sia "disposto a pagare l'attuale prezzo di mercato".
A ruota libera
E poi conosco una sessantina di altre persone che, armate di foglietti, volantini, libri, statistiche e "testimonianze di prima mano"; gironzolano nel salone c discutono di tutto quello che gli viene in mente: del "problema etiopico", della questione se il primo ministro sia "più veterinario o più politico"; della potenza e degli arsenali dei singoli signori della guerra che compongono il governo, dei loro politici preferiti (Helmut Schmidt, Berlusconi, il generale Aidid, Idi Amin, Bill Clinton, Nelson Mandela, Arnold Schwarzenegger, Lenin), delle rispettive opinioni sulla situazione in Iraq, Iran, Afghanistan e Germania dopo la seconda guerra mondiale. Chi ha più seguito, prende coraggio e tiene monologhi di ore e ore; chi invece si sente incompreso, si volta e va a cercare migliore fortuna in un altro capannello.
Capisco che l'idea che mi ero fatto dopo i colloqui con Bari Bari e Gedi era sbagliata: il problema che ostacola il ritorno a casa dei somali non è l'assenza di un piano. Il problema è semmai che ognuno ha il suo piano: 165 somali tutti nello stesso posto non sono 165 modi di litigare. Sono 165 visioni completamente diverse del futuro della Somalia. E a queste 165 bisogna sommare anche le 110 dei somali alloggiati negli altri alberghi. Quindi il fattore x è pari a 275.
“Capisce ora?”; mi chiede Rashid, indicando il salone. "In tutti questi anni di ,guerra siamo diventati anormali. Non c'è mai stata alcuna riconciliazione tra i clan nemici e ora ci hanno stipati tutti qui dentro nella speranza che ne venga fuo-ri qualcosa. Rashid alzale mani al cielo.
Più tardi. quella sera, mi ritrovo insieme al giornalista somalo Abdi-Rahman Roble nella stanza di Rashid, la 408. Roble parla della tv che sta creando a Mogadiscio: è stato lì la settimana scorsa, senza alcun aiuto del governo.
"Si può fare, basta volerlo"; dice Roble, alzando le spalle. "Bisogna prendere la decisione di andare lì, anziché restare a discutere per mesi. Naturalmente ci vuole un po' di cautela".
"E i fondamentalisti islamici?".
"Ci sono, chiaro. Ma dovrei rinunciare a tornarmene a casa solo perché ci sono un paio di persone con cui non vado d'accordo?".
Sembra che Roble riesca a fare i conti senza bisogno del fattore x. Certo, lui non è un parlamentare.
"Bari Bari ci ha proposto di andare in Somalia insieme al presidente, dopodomani".
"Non se ne fa niente", annuncia Rashid. "L'ho sentito prima".
"Perché?".
"Improvvisamente è sorto un problema con le piste d'atterraggio". "Attaccate? Distrutte?".
"No. Troppo corte. Lo hanno appena scoperto".
Tutti ridono. Un nuovo fattore x. "C'è ancora una cosa che vorrei sapere, Rashid. Cosa è successo nelle stanze 320 e 321?".
Rashid riflette un momento.
"Forse una grigliata? Sa, a noi somali piace la cucina italiana, ma purtroppo al ristorante dell'albergo non la fanno abbastanza spesso. Può darsi che abbiano deciso di preparare un branzino al limone con patate e verdura di stagione".
Continuo a sentire la risata di Rashid fino all'ascensore. Prima di tornare nella mia camera, do un'occhiata alla hall dell'albergo. Sono ancora lì. Certo, ora hanno un aspetto diverso. Sono tranquilli, placidi. Alcuni russano, altri si rigirano in cerca di una posizione più comoda; altri ancora stanno stesi, come irrigiditi, sulle poltrone. Sono sprofondati tutti nel sonno.
Annotazioni − Traduzione: Internazionale
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