Da La Repubblica del 11/07/2005
Antiterrorismo burocratico
di Giuseppe D'Avanzo
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SE IL TERRORE è quella cosa che provoca l´incapacità d´azione politica e sociale, il terrorismo segna già un buon risultato nell´Italia concretamente minacciata, ma non ancora ferita.
L´élite politica offre in queste ore uno spettacolo deprimente. A casa nostra i policymakers, se non è troppo definirli così, appaiono soltanto capaci di agitare la coscienza collettiva, e nulla più. Appaiono incapaci di azioni razionali, coerenti, equilibrate.
Quel che peggio, mostrano un´assoluta ostinazione a non perdere un minuto del loro tempo nello studio della legislazione in vigore prima di proporre, con un profluvio di interviste, una legislazione speciale. Anche in momenti così inquieti per il Paese, per la minuscola politica di casa nostra conta soltanto una mediocre visibilità mediatica. Quel che dice conta poco. Soprattutto perché non sa che cosa dice e non pare abbia voglia di saperlo. Si rilancia l´idea di un ministero del terrorismo, e naturalmente quel ministero esiste già ed è il ministero dell´Interno, autorità politica della sicurezza nazionale. In tutta Europa, la minaccia del terrorismo è affare del ministero dell´Interno, ma gli incolti sacerdoti delle leggi speciali guardano agli Stati Uniti e dimenticano che Washington ha costituito, dopo l´11 settembre, Homeland Security Department perché non ha mai avuto, appunto, un ministero dell´Interno (Fbi è alle dipendenze dell´Attorney General). D´altronde, è naturale che sia un ministro dell´Interno a occuparsi di queste faccende perché a lui fanno riferimento le polizie, e quindi le informazioni, la prevenzione e la repressione. In Italia, il problema con evidenza non è creare un nuovo ministero, ma rendere effettivo il potere di quello che già esiste. Oggi accade, al contrario, che ogni polizia o intelligence faccia riferimento al suo «protettorato politico».
Ai politici piace molto avere a disposizione una polizia. Quasi ogni ministero ne ha una sua. Al Tesoro, la Guardia di Finanza. Al ministro di Giustizia, la polizia penitenziaria e "squadre speciali" di spionaggio nelle carceri (che di fatto svolgono colloqui "investigativi" con i detenuti). Alla Difesa, il Ris e i carabinieri. Alla presidenza del Consiglio, il Sismi che ha mutato natura: era military intelligence, oggi è la sola agenzia di intelligence generale. I conflitti e le frizioni tra ministeri, ministri e burocrati della sicurezza sono all´ordine del giorno.
Ma chi se ne occupa, e come risolverli o stemperarli? Come dare unità e responsabilità alle comunità della sicurezza? Meglio parlare d´altro. Meglio sostenere che occorrono nuove norme per l´immediata espulsione dal Paese dei sospetti. Naturalmente anche questa possibilità esiste e già è stata utilizzata da un ministro dell´Interno che ha voluto «isolare e mettere in condizioni di non nuocere» gli islamici intolleranti e i violenti. In base al principio del «chiaro e immediato pericolo», con il suo potere eccezionale, ha espulso per via amministrativa personaggi sospettati di essere una minaccia per la sicurezza nazionale.
Anzi, ha voluto fare il passo più lungo della gamba pretendendo di espellere imputati di terrorismo in attesa di processo, e questo non si può fare e sarebbe irrazionale farlo: se puoi tenere in galera un terrorista perché mandarlo in giro per il mondo con la possibilità che torni clandestinamente in Italia? Si dice: sequestriamo le attività che possono finanziare lo jihadismo. Anche questa è una pratica comune, come ben sanno i mafiosi di casa nostra.
La nostra severa legislazione lo permette, come consente accessi bancari e la ricostruzione di ogni storia finanziaria. Si grida: usiamo la tecnologia per un´intrusione costante e capillare in tutti quei luoghi di culto, call center eccetera, che possono essere utilizzati dai terroristi. Si ignora che queste «infiltrazioni» sono pane quotidiano per gli uomini della sicurezza. Il garage di viale Jenner a Milano che ospita una moschea, l´istituto di cultura islamico, un supermercato e un take away è luogo «trasparente» grazie, come sa anche l´imam, a telecamere, microfoni e confidenti. Così che oggi viale Jenner, secondo il controterrorismo, è il «posto più sicuro d´Italia». Si dice: creiamo la possibilità di indagini preventive. E´ la scoperta dell´acqua calda. Sono all´ordine del giorno, le «indagini» che il ministro può disporre e dispone in base a un solo sospetto. Si dice: rilasciamo permessi di soggiorno come misura premiale a chi, musulmano, collabora con le forze di polizia. Davvero c´è qualcuno che crede che questo esercizio non sia pratica abituale delle polizie? Anche nella forma inversa, con la sottrazione o la non concessione del permesso che diventa arma di ricatto per una collaborazione forzata? Si dice: intercettiamoli. Anche illegalmente. Il fatto è che l´illegalità già fa parte del lavoro del controterrorismo. Nelle questure e nelle caserme, la brutalità non è un´eccezione. Piuttosto, con gli immigrati, la regola.
La grande centrale unica di ascolto della Telecom è a Milano, è controllata da ex-ufficiali e sottufficiali dell´Arma dei carabinieri che hanno un contatto diretto e costante con il Sismi.
Sarebbe davvero sorprendente apprendere che si rifiutano di allacciare, con una richiesta dell´intelligence e senza alcuna autorizzazione, qualche telefono «sensibile» per la soluzione di un «caso» di terrrorismo (e si spera che non abbiano ceduto ad altre tentazioni). Il fatto è che tecniche inquisitorie, processi - inchieste di stampo poliziesco, schemi penali modellati sul tipo d´autore non sono l´eccezione ma la normalità di quell´illusione panpenalistica italiana che, dal terrorismo alla mafia, non ha mai abbandonato la nostra (sotto) cultura giuridica. Siamo già dentro un «diritto penale del nemico» dove la convinzione della colpevolezza del nemico prescinde dalle prove ed è un prius indiscutibile. Se poi questo «sistema» appare inefficace lo si deve non alle leggi e ai provvedimenti speciali invocati oggi, ma all´incompiutezza delle leggi che ci sono e alle riforme annunciate e mancate da anni. La legge dell´antiterrorismo approvata nel 2001 ancora attende i decreti attuativi e, per dirne una, gli agenti impegnati in «operazioni sotto copertura» ancora attendono di poter avere, con un´identità ad hoc, documenti falsi.
L´articolo del codice penale che introduce il reato d´associazione con finalità di terrorismo anche internazionale (270 bis, comma 3: «ai fini della legge penale la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno stato estero, un´istituzione e un organismo internazionale») è sempre apparso ai magistrati di difficile applicazione (che cosa è il terrorismo?). Né il Parlamento né il governo, al di là delle intemerate affidate a inutili interviste, se ne sono mai occupati.
Come non è stata affrontata la necessità di coordinare meglio le inchieste con una procura nazionale organizzata sul modello della procura nazionale antimafia (magari con pubblici ministeri meno pasticcioni di quelli visti all´opera in questi anni). Non c´è mai stata risposta. Così le procure si sono organizzate da sole e informalmente si riuniscono con periodicità (come ai tempi del terrorismo nazionale) nell´ufficio del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro. Infine, la riforma dell´intelligence. A parole non c´è chi sia contrario al riordino dei servizi e a una completa riunificazione superando le competenze territoriali di oggi, nate negli anni Settanta. A parole, fatti niente. Il tempo delle chiacchiere, in Italia, sembra non passare mai mentre quello della minaccia jihadista sembra pericolosamente avvicinarsi all´Italia.
L´élite politica offre in queste ore uno spettacolo deprimente. A casa nostra i policymakers, se non è troppo definirli così, appaiono soltanto capaci di agitare la coscienza collettiva, e nulla più. Appaiono incapaci di azioni razionali, coerenti, equilibrate.
Quel che peggio, mostrano un´assoluta ostinazione a non perdere un minuto del loro tempo nello studio della legislazione in vigore prima di proporre, con un profluvio di interviste, una legislazione speciale. Anche in momenti così inquieti per il Paese, per la minuscola politica di casa nostra conta soltanto una mediocre visibilità mediatica. Quel che dice conta poco. Soprattutto perché non sa che cosa dice e non pare abbia voglia di saperlo. Si rilancia l´idea di un ministero del terrorismo, e naturalmente quel ministero esiste già ed è il ministero dell´Interno, autorità politica della sicurezza nazionale. In tutta Europa, la minaccia del terrorismo è affare del ministero dell´Interno, ma gli incolti sacerdoti delle leggi speciali guardano agli Stati Uniti e dimenticano che Washington ha costituito, dopo l´11 settembre, Homeland Security Department perché non ha mai avuto, appunto, un ministero dell´Interno (Fbi è alle dipendenze dell´Attorney General). D´altronde, è naturale che sia un ministro dell´Interno a occuparsi di queste faccende perché a lui fanno riferimento le polizie, e quindi le informazioni, la prevenzione e la repressione. In Italia, il problema con evidenza non è creare un nuovo ministero, ma rendere effettivo il potere di quello che già esiste. Oggi accade, al contrario, che ogni polizia o intelligence faccia riferimento al suo «protettorato politico».
Ai politici piace molto avere a disposizione una polizia. Quasi ogni ministero ne ha una sua. Al Tesoro, la Guardia di Finanza. Al ministro di Giustizia, la polizia penitenziaria e "squadre speciali" di spionaggio nelle carceri (che di fatto svolgono colloqui "investigativi" con i detenuti). Alla Difesa, il Ris e i carabinieri. Alla presidenza del Consiglio, il Sismi che ha mutato natura: era military intelligence, oggi è la sola agenzia di intelligence generale. I conflitti e le frizioni tra ministeri, ministri e burocrati della sicurezza sono all´ordine del giorno.
Ma chi se ne occupa, e come risolverli o stemperarli? Come dare unità e responsabilità alle comunità della sicurezza? Meglio parlare d´altro. Meglio sostenere che occorrono nuove norme per l´immediata espulsione dal Paese dei sospetti. Naturalmente anche questa possibilità esiste e già è stata utilizzata da un ministro dell´Interno che ha voluto «isolare e mettere in condizioni di non nuocere» gli islamici intolleranti e i violenti. In base al principio del «chiaro e immediato pericolo», con il suo potere eccezionale, ha espulso per via amministrativa personaggi sospettati di essere una minaccia per la sicurezza nazionale.
Anzi, ha voluto fare il passo più lungo della gamba pretendendo di espellere imputati di terrorismo in attesa di processo, e questo non si può fare e sarebbe irrazionale farlo: se puoi tenere in galera un terrorista perché mandarlo in giro per il mondo con la possibilità che torni clandestinamente in Italia? Si dice: sequestriamo le attività che possono finanziare lo jihadismo. Anche questa è una pratica comune, come ben sanno i mafiosi di casa nostra.
La nostra severa legislazione lo permette, come consente accessi bancari e la ricostruzione di ogni storia finanziaria. Si grida: usiamo la tecnologia per un´intrusione costante e capillare in tutti quei luoghi di culto, call center eccetera, che possono essere utilizzati dai terroristi. Si ignora che queste «infiltrazioni» sono pane quotidiano per gli uomini della sicurezza. Il garage di viale Jenner a Milano che ospita una moschea, l´istituto di cultura islamico, un supermercato e un take away è luogo «trasparente» grazie, come sa anche l´imam, a telecamere, microfoni e confidenti. Così che oggi viale Jenner, secondo il controterrorismo, è il «posto più sicuro d´Italia». Si dice: creiamo la possibilità di indagini preventive. E´ la scoperta dell´acqua calda. Sono all´ordine del giorno, le «indagini» che il ministro può disporre e dispone in base a un solo sospetto. Si dice: rilasciamo permessi di soggiorno come misura premiale a chi, musulmano, collabora con le forze di polizia. Davvero c´è qualcuno che crede che questo esercizio non sia pratica abituale delle polizie? Anche nella forma inversa, con la sottrazione o la non concessione del permesso che diventa arma di ricatto per una collaborazione forzata? Si dice: intercettiamoli. Anche illegalmente. Il fatto è che l´illegalità già fa parte del lavoro del controterrorismo. Nelle questure e nelle caserme, la brutalità non è un´eccezione. Piuttosto, con gli immigrati, la regola.
La grande centrale unica di ascolto della Telecom è a Milano, è controllata da ex-ufficiali e sottufficiali dell´Arma dei carabinieri che hanno un contatto diretto e costante con il Sismi.
Sarebbe davvero sorprendente apprendere che si rifiutano di allacciare, con una richiesta dell´intelligence e senza alcuna autorizzazione, qualche telefono «sensibile» per la soluzione di un «caso» di terrrorismo (e si spera che non abbiano ceduto ad altre tentazioni). Il fatto è che tecniche inquisitorie, processi - inchieste di stampo poliziesco, schemi penali modellati sul tipo d´autore non sono l´eccezione ma la normalità di quell´illusione panpenalistica italiana che, dal terrorismo alla mafia, non ha mai abbandonato la nostra (sotto) cultura giuridica. Siamo già dentro un «diritto penale del nemico» dove la convinzione della colpevolezza del nemico prescinde dalle prove ed è un prius indiscutibile. Se poi questo «sistema» appare inefficace lo si deve non alle leggi e ai provvedimenti speciali invocati oggi, ma all´incompiutezza delle leggi che ci sono e alle riforme annunciate e mancate da anni. La legge dell´antiterrorismo approvata nel 2001 ancora attende i decreti attuativi e, per dirne una, gli agenti impegnati in «operazioni sotto copertura» ancora attendono di poter avere, con un´identità ad hoc, documenti falsi.
L´articolo del codice penale che introduce il reato d´associazione con finalità di terrorismo anche internazionale (270 bis, comma 3: «ai fini della legge penale la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno stato estero, un´istituzione e un organismo internazionale») è sempre apparso ai magistrati di difficile applicazione (che cosa è il terrorismo?). Né il Parlamento né il governo, al di là delle intemerate affidate a inutili interviste, se ne sono mai occupati.
Come non è stata affrontata la necessità di coordinare meglio le inchieste con una procura nazionale organizzata sul modello della procura nazionale antimafia (magari con pubblici ministeri meno pasticcioni di quelli visti all´opera in questi anni). Non c´è mai stata risposta. Così le procure si sono organizzate da sole e informalmente si riuniscono con periodicità (come ai tempi del terrorismo nazionale) nell´ufficio del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro. Infine, la riforma dell´intelligence. A parole non c´è chi sia contrario al riordino dei servizi e a una completa riunificazione superando le competenze territoriali di oggi, nate negli anni Settanta. A parole, fatti niente. Il tempo delle chiacchiere, in Italia, sembra non passare mai mentre quello della minaccia jihadista sembra pericolosamente avvicinarsi all´Italia.
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