Da La Repubblica del 19/06/1999
Le idee
Aguzzini sotto le bombe
di Adriano Sofri
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CI SONO porte destinate a non aprirsi. Scantinati senza finestre. Luoghi riservati. Letti di contenzione, sedie per slogare. E' raro che vengano alla luce: per un terremoto, per un'eruzione vulcanica. E' raro che se ne parli: gli ospitati non ne escono vivi. E' più facile che ne parlino i gestori: si resiste difficilmente alle vanterie, anche quando possono costare. Nel Kosovo riaperto si sapeva - purché lo si volesse sapere - che si sarebbero trovati forni e fosse comuni. Non era facile immaginare lo scantinato della tortura. Gira in questi anni una - detestabile - mostra sugli strumenti di tortura: la vergine di Norimberga, le ruote dentate, genere che ha i suoi amatori. Il repertorio interrato che da Pristina è arrivato sui nostri teleschermi è tecnologicamente grossolano, ma moralmente scelto: i pugni di ferro, i coltellacci, i mazzi di preservativi, il bastone spaccato in due (ne sarà stato orgoglioso, o seccato, quello che ha dato il colpo?), la rinfusa di documenti personali dei torturati e dei giornaletti zozzi dei torturatori. Eloquente repertorio: museo già pronto per le scolaresche.
Resistono stupidi pregiudizi sul conto della tortura, di cui i torturatori sarebbero i primi a farsi beffe. Che serva a qualcosa, a far parlare... Ma no. La tortura è un'arte, è un piacere, è gratuita. Deve far male dentro il corpo dell'altro, dell'altra. Quello scantinato è altra cosa dall'assassinio di strada e dallo stupro compiuto a cielo aperto, al caso dell'agguato e della furia improvvisa. Quello scantinato è la sala operatoria di una chirurgia d'eccezione, in cui la potenza dell'odio si è presa un ufficio, e lavora con metodo. Il paziente è di preferenza una giovane donna, e se no un uomo su cui si compiano atti di effeminazione oltraggiosa. Il torturatore è un uomo: lo diventa davvero lì dentro. E' un luogo di iniziazione completa: dal giornaletto porno alla precauzione del preservativo, dal corpo spogliato e legato alla carne incisa, alle ossa frantumate, al sangue scolato in un recipiente lurido.
Nella camera della tortura ogni movente mostra la propria fuorviante superfluità. Non importa più la divergenza nazionale e religiosa, neanche quella spinta all'assassinio di massa o allo stupro di massa. C'è il rapporto di potere nella sua essenza: il corpo a corpo fra il gruppo di armati e l'inerme denudato. Sempre la tortura prende la mano ai suoi apprendisti, dovunque, nelle caserme di polizia, nelle celle di punizione, nelle stanze private in cui uomini piccoli e impazziti si vendicano della propria paura. Succede molto, molto largamente. Ieri era anche uscito il benemerito rapporto annuale di Amnesty, impressionante: eppure succede ancora più largamente. L'omertà e la paura tengono ancora chiuse molte cantine. Possiamo fingere di non saperlo. La mia generazione ebbe fra le prime letture civili il saggio sulla tortura di Henri Alleg: era il 1958, l'Algeria. A nessuna generazione è mancato il suo addestramento. Ora i bambini vedono al telegiornale - i bambini vedono tutto, infatti - quel pavimento disseminato di ferri e mazze, in uno strano disordine; ci si aspetterebbe una cura diversa, da uomini d'ordine per eccellenza come sono i torturatori.
Non so se si solleveranno dubbi, sull'"autenticità" di questo scantinato. Se le cose stanno così - mi pare di sì - vorrà forse dire che gli aguzzini si sono lasciati prendere di sorpresa; ma anche che è costato loro caro staccarsi da quel laboratorio professionale. Si dice che un'antica dama implorasse graziosamente: "Ancora un minuto, signor boia". Qui, forse, era il boia a chiedere per sè ancora un minuto. Chi ha percorso in questi anni la Jugoslavia conosce la scena infinita delle Pompei dei vivi, delle case abbandonate senza il tempo di afferrare un oggetto, di dare un'ultima occhiata. A Spalato un soldato appena reduce dalla "pulizia" della Krajna di Knin, bevendo birra un po' per festeggiare un po' per tristezza, mi disse: "Si entra nelle case e si trova la vita normale, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è uno a casa mia... Questa è la cosa più dolorosa. Poi ho finito anch' io col prendermi una targa d' auto, come hanno fatto tutti". Un altro mi volle regalare una bomba a mano serba, declinai, e accettai una banconota datata Knin 1992. Neanche i soldi avevano fatto in tempo a portarsi via.
Nella cantina di Pristina non hanno fatto in tempo a raccogliere i machete, né i preservativi. Bisogna tener ferme le distinzioni. Riconoscere, dietro la fisionomia comune della violenza fisica, della violazione corporale, della tortura, i tratti speciali di ogni nuova impresa. Pristina è Pristina: non solo un altro nome da aggiungere alla mappa della tortura nel mondo. A Pristina la "polizia" serbista ha dovuto fuggire all'improvviso, questo ci dicono le immagini dell'ispezione imprevista. Ma ci dicono anche che avevano avuto molto tempo. Per 78 giorni lo scantinato è stato un quieto riparo antiaereo, nel quale fare il lavoro. Per 78 giorni noi abbiamo fissato un buco nero che si chiamava Kosovo, senza vederne se non i bordi, persone schizzate fuori a suon di minacce botte sparatorie e bombe. Abbiamo gremito il cielo, e perso di vista la terra. Ci siamo chiesti che cosa stesse succedendo, per terra, sotto la terra. Si lavorava, nella cantina di Pristina.
E' doloroso, oggi, guardare il corteo vilipeso o esasperato di serbi che abbandonano a loro volta il Kosovo: era diventato fatale. Ma è commovente vedere il corteo di ritorno dei kosovari albanesi cacciati fuori dai confini. Mai, che mi ricordi, una popolazione deportata ha fatto ritorno alle sue case - alle sue macerie: si possono amare le proprie macerie - per effetto del soccorso dei potenti. Non certo dopo la Seconda guerra, e tanto meno per i suoi scampati ebrei. Bisogna esultare per questo rientro, ed esserne grati. Bisogna dire che l'incriminazione di Milosevic e i suoi all'Aia non ha affatto dilazionato la resa, ma l'ha accelerata: e sarebbe stata comunque giusta. Bisogna riconoscere in sé il rischio orribile del negazionismo e della minimizzazione di fronte alla misura e alla profondità di una persecuzione, in nome di diffidenze e di partiti presi.
Bisogna congratularsi che la nostra parte di mondo, a differenza che per la Bosnia, non si sia lasciata piegare dall' antipatia per l'anagrafe musulmana della maggioranza della gente kosovaro-albanese. Tuttavia, si deve tornare all'inizio della questione. Perché una ottusità politica indusse a chiedersi se si dovesse o no intervenire a difesa dei kosovari, piuttosto che come intervenire. Anche dopo l'inizio dell'intervento, quando le milizie serbiste hanno risposto con l'inaudita deportazione di centinaia di migliaia di persone, e nessuno avrebbe dovuto più esitare ad affrontare quella tragedia, qualunque giudizio si desse sulla sua origine. Oggi ci si congratula dello scampato maggior pericolo, e si rischia di barattare la "vittoria" -com'era possibile che una "vittoria" non arrivasse? - con la rassegnazione al modo in cui è stata ottenuta. Credo che non dovrebbe succedere. Né per questa volta, né per le prossime, che purtroppo ci saranno. Non si può lasciare per tanto tempo una gente indifesa in balia degli scannatori. Non si può tenersi il cielo, e abbandonare loro il suolo e gli scantinati. Risparmiare le "nostre" vite è un proposito lodevole, purché non manchi il soccorso. Non è con quel proposito che agiscono le forze di polizia, o i vigili del fuoco: perché dev'essere altrimenti per la strapotenza militare del soccorso internazionale?
Qualunque conclusione si raggiunga sull' efficacia di interventi militari nel corso della seconda guerra mondiale, resta imperdonabile l'omissione, vile o rassegnata, di qualunque tentativo per anni, mentre si sapeva dello sterminio, dei suoi modi, dei suoi luoghi. Altri paragoni troppo ravvicinati sono impropri, ma questo confronto è difficile da eludere. Chi di noi non ha ceduto al sarcasmo nei confronti delle armi "intelligenti", e degli imbecilli che le hanno chiamate così? Ma è un fatto che una delle obiezioni - non la peggiore - all'invocazione di bombardare Auschwitz- Birkenau durante la guerra riguardava l'imprecisione delle armi.
L'obiezione principale fu che nessuna energia andava distolta dalla vittoria nella guerra, e che quella sarebbe coincisa con il salvataggio delle vittime. Col Kosovo, non poteva essere ripetuta. Bisognava soccorrere le vittime, non "vincere la guerra". Mi dispiace del fraintendimento che mi procurerò, ma voglio fare un altro paragone. I nazisti si servirono della guerra, che aveva i suoi propri fini, per spingersi alla soluzione finale del problema ebraico - per sterminare gli ebrei. Anche per questo la posizione degli Alleati - vincere la guerra per salvare le vittime dello sterminio - era fuori luogo. In un certo senso, questo spostamento si è ripetuto nella vicenda del Kosovo: la Nato ha trattato come una guerra il suo intervento, e ha affidato alla ripetizione della strategia aerea la "vittoria". Il regime serbo ha usato della "guerra" come dell'occasione per liquidare il problema kosovaro: cioè decimare con gli assassinii la popolazione maschile, deportare quanta più gente possibile, e ridurre un popolo in gran maggioranza numerica e in forte crescita demografica a una proporzione "accettabile": la metà.
I deportati che non torneranno, gli uccisi che riempiono le fosse comuni o i pozzi di miniera, sono un risultato acquisito. L'intervento della Nato non l'ha impedito, l'ha in parte involontariamente favorito. E la scoperta del sotterraneo della tortura ha divaricato fino al paradosso la distanza fra il pilota cui era interdetto scendere sotto i 5000 metri, e il perseguitato nel sottosuolo. La camera della tortura di Pristina è un di più, un lusso che la pulizia etnica si è regalata, nei suoi attori più scelti. Come ogni impresa gratuita, ha rivelato a perfezione il fondo della contesa. L'attaccamento all'odio, al potere, al sangue versato, all'abiezione inflitta in gruppo a ciascuno degli altri. La morte del nemico, nella tortura, diventa un' appendice, un effetto finale, se non addirittura un infortunio: la cosa sta nella sottomissione e nell'agonia protratta, nel dolore distillato, nello spettacolo offerto dal suppliziato al macellaio. Le vittime sono comunque inermi: alla tortura ci si addestra tormentando una lucertola, sbatacchiando furiosamente un neonato che piange.
Alla vista del locale e dei suoi utensili abbandonati, non riesco a vedere né a sentire le vittime, perché non voglio. Da quella cantina non si sentiva il rombo dei bombardieri della Nato: figurarsi se si potessero sentire dal nostro cielo le urla e i gemiti dei tormentati. Mute, le vittime. Quella camera improvvisamente spalancata non deve mostrar loro, né farle immaginare con paura o con raccapriccio. Deve far vedere gli aguzzini, il loro spalleggiarsi, le loro risate ubriache, i loro giornaletti e le loro tre dita levate. Restituire i jingle politici - la nazione serba, la battaglia sacra di Lazar, i monasteri magnifici e la fraternità panslava - alla loro dimensione personale, alla libertà senza confini di mettere alla prova se stessi sul corpo dell'altro. Sono scappati a gambe levate, quegli artigiani efferati: lungo la strada avranno alzato le tre dita, incrociando i carri russi, o le telecamere di ogni parte. A Belgrado, o in un'altra loro città, in un'osteria o in una caserma, non resisteranno al piacere di raccontare che cos'hanno fatto a Pristina. Troveranno altri come loro cui le cose si possono dire. Il bello di essere poliziotti - o paramilitari, è lo stesso, anzi meglio: parastatali della brutalità - in tempo di guerra patriottica è che si può fare tutto per una causa superiore. Sarebbe la dimostrazione finale del fatto che il male è più forte del bene, fra gli animali umani, se non si ricevesse ogni volta di nuovo la prova che resta nei torturatori e nei massacratori il fondo di una paura e una vergogna, la foga di cancellare le tracce. Qualcuno di noi l'aveva temuto: i serbisti tiravano per le lunghe solo per avere il tempo di cancellare le tracce. La stessa cosa era successa ai nazisti. Quando lo sterminio passò dalle fucilazioni di massa alle camere a gas, fu anche per smaltire le scorie nei forni. I nazisti (e tanti altri) seppellirono e riesumarono tante loro vittime per riseppellirle o bruciarle: come hanno appena fatto bande serbe. Dicevano, gli altruisti carnefici nazisti: il mondo non è ancora preparato a capire. Non si può lavorare alla luce del sole. Anche i serbisti devono aver pensato così. Il mondo non è ancora preparato, e anzi ha incaricato un tribunale di occuparsene: benché non lo prenda ancora abbastanza sul serio.
Resistono stupidi pregiudizi sul conto della tortura, di cui i torturatori sarebbero i primi a farsi beffe. Che serva a qualcosa, a far parlare... Ma no. La tortura è un'arte, è un piacere, è gratuita. Deve far male dentro il corpo dell'altro, dell'altra. Quello scantinato è altra cosa dall'assassinio di strada e dallo stupro compiuto a cielo aperto, al caso dell'agguato e della furia improvvisa. Quello scantinato è la sala operatoria di una chirurgia d'eccezione, in cui la potenza dell'odio si è presa un ufficio, e lavora con metodo. Il paziente è di preferenza una giovane donna, e se no un uomo su cui si compiano atti di effeminazione oltraggiosa. Il torturatore è un uomo: lo diventa davvero lì dentro. E' un luogo di iniziazione completa: dal giornaletto porno alla precauzione del preservativo, dal corpo spogliato e legato alla carne incisa, alle ossa frantumate, al sangue scolato in un recipiente lurido.
Nella camera della tortura ogni movente mostra la propria fuorviante superfluità. Non importa più la divergenza nazionale e religiosa, neanche quella spinta all'assassinio di massa o allo stupro di massa. C'è il rapporto di potere nella sua essenza: il corpo a corpo fra il gruppo di armati e l'inerme denudato. Sempre la tortura prende la mano ai suoi apprendisti, dovunque, nelle caserme di polizia, nelle celle di punizione, nelle stanze private in cui uomini piccoli e impazziti si vendicano della propria paura. Succede molto, molto largamente. Ieri era anche uscito il benemerito rapporto annuale di Amnesty, impressionante: eppure succede ancora più largamente. L'omertà e la paura tengono ancora chiuse molte cantine. Possiamo fingere di non saperlo. La mia generazione ebbe fra le prime letture civili il saggio sulla tortura di Henri Alleg: era il 1958, l'Algeria. A nessuna generazione è mancato il suo addestramento. Ora i bambini vedono al telegiornale - i bambini vedono tutto, infatti - quel pavimento disseminato di ferri e mazze, in uno strano disordine; ci si aspetterebbe una cura diversa, da uomini d'ordine per eccellenza come sono i torturatori.
Non so se si solleveranno dubbi, sull'"autenticità" di questo scantinato. Se le cose stanno così - mi pare di sì - vorrà forse dire che gli aguzzini si sono lasciati prendere di sorpresa; ma anche che è costato loro caro staccarsi da quel laboratorio professionale. Si dice che un'antica dama implorasse graziosamente: "Ancora un minuto, signor boia". Qui, forse, era il boia a chiedere per sè ancora un minuto. Chi ha percorso in questi anni la Jugoslavia conosce la scena infinita delle Pompei dei vivi, delle case abbandonate senza il tempo di afferrare un oggetto, di dare un'ultima occhiata. A Spalato un soldato appena reduce dalla "pulizia" della Krajna di Knin, bevendo birra un po' per festeggiare un po' per tristezza, mi disse: "Si entra nelle case e si trova la vita normale, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è uno a casa mia... Questa è la cosa più dolorosa. Poi ho finito anch' io col prendermi una targa d' auto, come hanno fatto tutti". Un altro mi volle regalare una bomba a mano serba, declinai, e accettai una banconota datata Knin 1992. Neanche i soldi avevano fatto in tempo a portarsi via.
Nella cantina di Pristina non hanno fatto in tempo a raccogliere i machete, né i preservativi. Bisogna tener ferme le distinzioni. Riconoscere, dietro la fisionomia comune della violenza fisica, della violazione corporale, della tortura, i tratti speciali di ogni nuova impresa. Pristina è Pristina: non solo un altro nome da aggiungere alla mappa della tortura nel mondo. A Pristina la "polizia" serbista ha dovuto fuggire all'improvviso, questo ci dicono le immagini dell'ispezione imprevista. Ma ci dicono anche che avevano avuto molto tempo. Per 78 giorni lo scantinato è stato un quieto riparo antiaereo, nel quale fare il lavoro. Per 78 giorni noi abbiamo fissato un buco nero che si chiamava Kosovo, senza vederne se non i bordi, persone schizzate fuori a suon di minacce botte sparatorie e bombe. Abbiamo gremito il cielo, e perso di vista la terra. Ci siamo chiesti che cosa stesse succedendo, per terra, sotto la terra. Si lavorava, nella cantina di Pristina.
E' doloroso, oggi, guardare il corteo vilipeso o esasperato di serbi che abbandonano a loro volta il Kosovo: era diventato fatale. Ma è commovente vedere il corteo di ritorno dei kosovari albanesi cacciati fuori dai confini. Mai, che mi ricordi, una popolazione deportata ha fatto ritorno alle sue case - alle sue macerie: si possono amare le proprie macerie - per effetto del soccorso dei potenti. Non certo dopo la Seconda guerra, e tanto meno per i suoi scampati ebrei. Bisogna esultare per questo rientro, ed esserne grati. Bisogna dire che l'incriminazione di Milosevic e i suoi all'Aia non ha affatto dilazionato la resa, ma l'ha accelerata: e sarebbe stata comunque giusta. Bisogna riconoscere in sé il rischio orribile del negazionismo e della minimizzazione di fronte alla misura e alla profondità di una persecuzione, in nome di diffidenze e di partiti presi.
Bisogna congratularsi che la nostra parte di mondo, a differenza che per la Bosnia, non si sia lasciata piegare dall' antipatia per l'anagrafe musulmana della maggioranza della gente kosovaro-albanese. Tuttavia, si deve tornare all'inizio della questione. Perché una ottusità politica indusse a chiedersi se si dovesse o no intervenire a difesa dei kosovari, piuttosto che come intervenire. Anche dopo l'inizio dell'intervento, quando le milizie serbiste hanno risposto con l'inaudita deportazione di centinaia di migliaia di persone, e nessuno avrebbe dovuto più esitare ad affrontare quella tragedia, qualunque giudizio si desse sulla sua origine. Oggi ci si congratula dello scampato maggior pericolo, e si rischia di barattare la "vittoria" -com'era possibile che una "vittoria" non arrivasse? - con la rassegnazione al modo in cui è stata ottenuta. Credo che non dovrebbe succedere. Né per questa volta, né per le prossime, che purtroppo ci saranno. Non si può lasciare per tanto tempo una gente indifesa in balia degli scannatori. Non si può tenersi il cielo, e abbandonare loro il suolo e gli scantinati. Risparmiare le "nostre" vite è un proposito lodevole, purché non manchi il soccorso. Non è con quel proposito che agiscono le forze di polizia, o i vigili del fuoco: perché dev'essere altrimenti per la strapotenza militare del soccorso internazionale?
Qualunque conclusione si raggiunga sull' efficacia di interventi militari nel corso della seconda guerra mondiale, resta imperdonabile l'omissione, vile o rassegnata, di qualunque tentativo per anni, mentre si sapeva dello sterminio, dei suoi modi, dei suoi luoghi. Altri paragoni troppo ravvicinati sono impropri, ma questo confronto è difficile da eludere. Chi di noi non ha ceduto al sarcasmo nei confronti delle armi "intelligenti", e degli imbecilli che le hanno chiamate così? Ma è un fatto che una delle obiezioni - non la peggiore - all'invocazione di bombardare Auschwitz- Birkenau durante la guerra riguardava l'imprecisione delle armi.
L'obiezione principale fu che nessuna energia andava distolta dalla vittoria nella guerra, e che quella sarebbe coincisa con il salvataggio delle vittime. Col Kosovo, non poteva essere ripetuta. Bisognava soccorrere le vittime, non "vincere la guerra". Mi dispiace del fraintendimento che mi procurerò, ma voglio fare un altro paragone. I nazisti si servirono della guerra, che aveva i suoi propri fini, per spingersi alla soluzione finale del problema ebraico - per sterminare gli ebrei. Anche per questo la posizione degli Alleati - vincere la guerra per salvare le vittime dello sterminio - era fuori luogo. In un certo senso, questo spostamento si è ripetuto nella vicenda del Kosovo: la Nato ha trattato come una guerra il suo intervento, e ha affidato alla ripetizione della strategia aerea la "vittoria". Il regime serbo ha usato della "guerra" come dell'occasione per liquidare il problema kosovaro: cioè decimare con gli assassinii la popolazione maschile, deportare quanta più gente possibile, e ridurre un popolo in gran maggioranza numerica e in forte crescita demografica a una proporzione "accettabile": la metà.
I deportati che non torneranno, gli uccisi che riempiono le fosse comuni o i pozzi di miniera, sono un risultato acquisito. L'intervento della Nato non l'ha impedito, l'ha in parte involontariamente favorito. E la scoperta del sotterraneo della tortura ha divaricato fino al paradosso la distanza fra il pilota cui era interdetto scendere sotto i 5000 metri, e il perseguitato nel sottosuolo. La camera della tortura di Pristina è un di più, un lusso che la pulizia etnica si è regalata, nei suoi attori più scelti. Come ogni impresa gratuita, ha rivelato a perfezione il fondo della contesa. L'attaccamento all'odio, al potere, al sangue versato, all'abiezione inflitta in gruppo a ciascuno degli altri. La morte del nemico, nella tortura, diventa un' appendice, un effetto finale, se non addirittura un infortunio: la cosa sta nella sottomissione e nell'agonia protratta, nel dolore distillato, nello spettacolo offerto dal suppliziato al macellaio. Le vittime sono comunque inermi: alla tortura ci si addestra tormentando una lucertola, sbatacchiando furiosamente un neonato che piange.
Alla vista del locale e dei suoi utensili abbandonati, non riesco a vedere né a sentire le vittime, perché non voglio. Da quella cantina non si sentiva il rombo dei bombardieri della Nato: figurarsi se si potessero sentire dal nostro cielo le urla e i gemiti dei tormentati. Mute, le vittime. Quella camera improvvisamente spalancata non deve mostrar loro, né farle immaginare con paura o con raccapriccio. Deve far vedere gli aguzzini, il loro spalleggiarsi, le loro risate ubriache, i loro giornaletti e le loro tre dita levate. Restituire i jingle politici - la nazione serba, la battaglia sacra di Lazar, i monasteri magnifici e la fraternità panslava - alla loro dimensione personale, alla libertà senza confini di mettere alla prova se stessi sul corpo dell'altro. Sono scappati a gambe levate, quegli artigiani efferati: lungo la strada avranno alzato le tre dita, incrociando i carri russi, o le telecamere di ogni parte. A Belgrado, o in un'altra loro città, in un'osteria o in una caserma, non resisteranno al piacere di raccontare che cos'hanno fatto a Pristina. Troveranno altri come loro cui le cose si possono dire. Il bello di essere poliziotti - o paramilitari, è lo stesso, anzi meglio: parastatali della brutalità - in tempo di guerra patriottica è che si può fare tutto per una causa superiore. Sarebbe la dimostrazione finale del fatto che il male è più forte del bene, fra gli animali umani, se non si ricevesse ogni volta di nuovo la prova che resta nei torturatori e nei massacratori il fondo di una paura e una vergogna, la foga di cancellare le tracce. Qualcuno di noi l'aveva temuto: i serbisti tiravano per le lunghe solo per avere il tempo di cancellare le tracce. La stessa cosa era successa ai nazisti. Quando lo sterminio passò dalle fucilazioni di massa alle camere a gas, fu anche per smaltire le scorie nei forni. I nazisti (e tanti altri) seppellirono e riesumarono tante loro vittime per riseppellirle o bruciarle: come hanno appena fatto bande serbe. Dicevano, gli altruisti carnefici nazisti: il mondo non è ancora preparato a capire. Non si può lavorare alla luce del sole. Anche i serbisti devono aver pensato così. Il mondo non è ancora preparato, e anzi ha incaricato un tribunale di occuparsene: benché non lo prenda ancora abbastanza sul serio.
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