Da Nigrizia del 01/07/2005
Originale su http://www.nigrizia.it/doc.asp?ID=7072&What=taormina+il+somalo
Omicidio Alpi-Hrovatin / Prorogata a febbraio 2006 la commissione d’inchiesta
Taormina il Somalo
Intervista a Carlo Taormina
Per il presidente non ci sono prove sui mandanti italiani, né sul perché siano stati assassinati Ilaria e Miran. L’unica cosa certa è che si è trattato di un rapimento finito male. E tutti i depistaggi e i blocchi alle indagini accertati? «Stupidità burocratica, come a Ustica».
di Gianni Ballarini
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L’esecuzione? Una bufala. Si trattò di un rapimento finito male. Le critiche alla commissione? Buffonate da quattro soldi. Mandanti italiani? Letteratura giornalistica. I servizi segreti? Denunciati, come i magistrati di Roma. La pista islamica? Abbiamo il nome del capo a Mogadiscio. Il movente dell’omicidio? Non lo sappiamo.
Capriole linguistiche e verità capovolte. Carlo Taormina, intrappolato nel suo personaggio, indossa i guantoni e non finisce di stupire. Basta leggere cosa racconta il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in questa intervista. Intervista pensata per lacerare il velo che copre i fatti accaduti il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, con l’omicidio della giornalista del Tg3 e del suo operatore. E che finirà, forse, per alimentare rabbia e disillusione. La commissione doveva chiudere i battenti a luglio. I suoi componenti hanno chiesto al presidente della Camera una proroga fino a febbraio 2006. Ma per quale verità?
Presidente Taormina, la commissione cosa ha accertato con certezza?
«Che non è stata un’esecuzione. O meglio: abbiamo la certezza che l’uccisione di Ilaria e di Miran è avvenuta per l’evolversi degli avvenimenti».
Cioè?
«Nell’agguato qualcosa non ha funzionato. Si è trattato di un tentativo di rapimento finito male».
Ma è un’ipotesi negata, non solo dalle varie inchieste giornalistiche, ma dalla stessa sentenza romana del 24 novembre del 2000 in cui si è condannato a 26 anni di carcere il somalo Hashi Omar Hassan…
«Il giudice non era a conoscenza di un elemento ora in possesso della commissione. Abbiamo testimoni oculari che dicono che il primo a sparare, quel giorno, è stato uno dei due uomini di scorta della Alpi. Aveva intuito il pericolo. Da lì la situazione è scappata di mano agli aggressori. Il loro obiettivo, tuttavia, era rapire la giornalista del Tg3 e il suo operatore, perché portavano soldi, perché erano italiani, perché potevano servire a qualche causa. E su questo aspetto vorrei fare un’altra osservazione».
Quale?
«Si parla di delinquenza comune e di rapimento come fossero niente. Credo, invece, che i tempi che stiamo vivendo oggi dimostrino il contrario. Eppure, sembra quasi che si voglia fare un regalo a Ilaria e Miran se si dice che potrebbero essere stati aggrediti a scopo di rapimento. Se la loro storia si fosse svolta nel 2005, l’avremmo descritta con le stesse parole usate per la Sgrena, per le due Simone o per la Clementina Cantoni».
Difficile trasferire a oggi la loro vicenda.
«E perché? Guardi, gli elementi probatoriamente utilizzabili raccolti dalla commissione portano al fondamentalismo islamico».
Ci risiamo con la teoria di Bin Laden responsabile del duplice omicidio.
«Non c’è nulla su cui scherzare. Ci sono un sacco di elementi a riguardo. A parte le dichiarazione del generale Fiore (il responsabile della missione militare italiana in Somalia all’epoca, ndr) che nell’immediatezza dell’evento parla esplicitamente di delitto islamico, ci sono molti documenti del Sismi (il servizio segreto militare italiano, ndr) dai quali risulta che dal 1993 l’integralismo è in forte crescita in Somalia. E anche loro attribuiscono la responsabilità, nell’immediatezza del duplice omicidio, al fondamentalismo islamico. Non bisogna trascurare, poi, un episodio specifico avvenuto a ottobre, quindi pochi mesi dopo la morte di Ilaria e Hrovatin: l’attacco alle carceri di Mogadiscio a opera delle bande delle corti islamiche irregolari. Questo testimonia la loro forza e pericolosità. Alla testa di tutto questo, a Mogadiscio Nord, c’era Sheik Ali Dere, su cui stiamo indagando».
Ma perché, anche se ci fossero stati, gli emuli ante litteram di Bin Laden avrebbero dovuto ammazzare i due italiani?
«Può anche essere che le corti islamiche siano state strumentalizzate. L’integralismo islamico era in un momento di forte formazione e aveva bisogno, non solo di soldi, ma anche di trovare forme di aggregazione. Non è escluso, quindi, che ci possa essere stata la convergenza di più interessi su quel rapimento-delitto: dalla malacooperazione ai traffici di armi e rifiuti. Le squadre delle corti erano composte di delinquenti comuni a disposizione anche di altri “nobili” scopi».
Avete trovato elementi concreti a supporto di questa tesi?
«No. Del resto, fino a oggi non abbiamo trovato neppure uno straccio di elemento probatorio che ci consenta di affermare che una delle cause tanto sbandierate dalla letteratura giornalistica in questi dieci anni (il traffico di rifiuti, di armi e la malacooperazione) sia alla fonte dell’uccisione dei due giornalisti».
Non c’è ancora una causa?
«No. Che ci fossero in Somalia il traffico dei rifiuti e delle armi e la malacooperazione, sono dati acquisiti anche dalla commissione. Ma non abbiamo le prove che uno di questi sia all’origine del duplice delitto».
Lei a marzo sbandierò che la commissione conosceva i nomi di 6 dei 7 aggressori, più quello del loro capo somalo.
«È così».
Ma non sapete perché hanno agito?
«No. Ma non dobbiamo trovare per forza un mandante italiano, solo perché lo volete voi giornalisti, che agite con una logica invertita rispetto alla commissione: prima dite chi è il mandante e poi cercate le prove. Se volete i nomi e i cognomi delle persone che avete per dieci anni messo alla berlina, questo non accadrà».
Lei ha affermato: «Abbiamo raccolto una serie di dati documentali dai quali risulta che qualcuno, un giorno, ci dovrà dire chi ha bloccato gli accertamenti nei confronti dell’uccisione».
«È vero. Ci sono stati blocchi e depistaggi, in Italia, a vari livelli e li abbiamo smascherati tutti, senza tentennamenti, mandando gli atti all’autorità giudiziaria».
Troverà bizzarro che ci siano stati tutti questi depistaggi e nessun mandante.
«Vengo dall’esperienza di Ustica, dove sono state fatte le cose più incredibili, come occultare tracciati, radar. E così, tutti a pensare alle guerre stellari nei cieli italiani. La perizia finale, invece, ha accertato che dentro il bagno posteriore dell’Itavia c’era il segno dell’esistenza di una bomba. Per dire come certe situazioni anomale accadano per una pluralità di circostanze, talvolta anche per la stupidità della burocrazia italiana».
Boh, versione originale. Elenchiamo, comunque, alcune di queste singolari anomalie. Ci sono delle informative del Sismi, a firma del responsabile dell’ufficio a Mogadiscio, Alfredo Tedesco, che, spedite nell’immediatezza del delitto, sono state poi “sbianchettate” a Roma. Per anni nessuno ne ha conosciuto il contenuto.
«Raccontano quattro cose importanti: Ilaria aveva ricevuto delle minacce nel suo viaggio a Bosaso; l’Unosom (le forze dell’Onu in Somalia), cui spettava il compito di condurre le indagini sul delitto, minimizzava l’accaduto; l’ambasciatore Scialoja, presente in Somalia, aveva ricevuto pressioni da Roma per disinteressarsi del delitto. E un’informativa segnalava perfino la presenza, all’ospedale di Mogadiscio, di due aggressori di Ilaria e Miran».
Ovviamente, nessuno diede seguito a quelle informative…
«No. I vertici del Sismi ci hanno perfino detto che non conoscevano l’esistenza di quella documentazione. Sul Sismi abbiamo aperto un pentolone puzzolente. C’è stata la conferma dell’esistenza, all’epoca, di un meccanismo parallelo all’interno della struttura. Di Somalia si doveva occupare la seconda divisione, il cui responsabile era Rajola Pescarini.
In realtà, era attiva e operativa anche l’ottava divisione, dell’ammiraglio Grignolo, che gestiva un po’ tutto. Ci sono addirittura delle lettere dell’ottava in cui si citano gli autori dell’omicidio di Ilaria e Miran».
Nessun responsabile?
«Abbiamo spedito alla magistratura gli atti sul Sismi».
Altre anomalie?
«Scialoja viene in commissione e nega la possibilità che fosse reale il pericolo islamico in quel periodo in Somalia. Il giorno dopo, ci scrive una lettera in cui afferma di essersi completamente sbagliato e che egli stesso era stato testimone dell’esistenza di una pesante realtà fondamentalista».
Poi?
«Abbiamo mandato al tribunale di Perugia gli atti riguardanti alcuni magistrati della Procura di Roma, che avevano indagato sul caso Alpi. In quegli uffici qualcosa non ha funzionato. Fatto grave. Ma le responsabilità maggiori le abbiamo riscontrate alla Questura di Udine, iperattiva in questa storia. Aveva gestito fonti confidenziali, importanti per la stessa inchiesta romana. In realtà, a quelle fonti veniva fatto dire quello che si voleva. E hanno prodotto informazioni sbagliate».
E perché i poliziotti di Udine avrebbero agito in quel modo?
«Non lo sappiamo. Credo ci sia stato un fortissimo flusso informativo tra alcuni uffici investigativi e alcuni giornalisti. Poi, c’è il ruolo giocato dall’ambasciatore Cassini».
Spedito in Somalia nel ’97 da Veltroni, allora vicepresidente del Consiglio, per ricostruire i rapporti con quel paese e che svolge autonomamente indagini sul caso Alpi.
«Fu lui a gestire il testimone di accusa contro Hashi Omar Hassan. Teste che si è rivelato fallace, ma determinante per la condanna di Hashi, un innocente. È un’operazione di depistaggio colossale sui cui stiamo indagando».
Che ne pensa delle inchieste giornalistiche dell’espresso, con nomi e cognomi dei responsabili di traffici di armi e rifiuti in Somalia negli anni ’80 e ’90?
«Se si tratta dell’ennesimo capitolo dell’inchiesta di Reggio Calabria, abbiamo accertato che non esiste alcun legame tra quei fatti e l’uccisione dei due italiani».
Una commissione dalla quale si sono dimessi consulenti e componenti. Perché?
«Ma quali? L’onorevole Mauro Bulgarelli si è autospeso. Non ho ricevuto da lui alcuna lettera di dimissioni. Per quanto riguarda i due consulenti di Famiglia Cristiana, la loro situazione era diventata delicata. Per alcuni episodi verificatisi in commissione potevano trasformarsi in testi e sarebbe stata una situazione incompatibile con il loro ruolo di consulenti».
Per la verità, loro si sono dimessi dopo le perquisizioni, volute dalla commissione, nelle abitazioni di alcuni cronisti e perché si sentivano corpi estranei rispetto al “lato giusto” della commissione, quello controllato da militari, come il generale Carlo Blandini.
«Mi faccia il piacere… Motivazioni strumentali».
E perché la maggior parte delle audizioni è secretata?
«Ci sono testimonianze che è meglio non rendere pubbliche».
Ma i lavori di una commissione d’inchiesta non dovrebbero essere trasparenti?
«È molto più trasparente far uscire i risultati concreti piuttosto che dare la stura a speculazioni giornalistiche».
Tuttavia, si ha l’impressione che la strombazzata rivisitazione dei fatti operata dalla commissione alla fine partorirà un topolino piccino piccino. La commissione rischia di diventare il cimitero della verità?
«Ma come si permette? Abbiamo accertato le responsabilità della magistratura, dell’Unosom, del Sismi, della Questura di Udine, del mondo politico che ruota attorno a Cassini. Abbiamo in mano i nomi dei sei assassini. Siamo nella situazione di ricostruire in modo diverso i fatti rispetto a quanto è stato tramandato negli ultimi dieci anni dalla letteratura giornalistica. Le sembra poco?»
Perché è stata uccisa Ilaria Alpi?
……
Capriole linguistiche e verità capovolte. Carlo Taormina, intrappolato nel suo personaggio, indossa i guantoni e non finisce di stupire. Basta leggere cosa racconta il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in questa intervista. Intervista pensata per lacerare il velo che copre i fatti accaduti il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, con l’omicidio della giornalista del Tg3 e del suo operatore. E che finirà, forse, per alimentare rabbia e disillusione. La commissione doveva chiudere i battenti a luglio. I suoi componenti hanno chiesto al presidente della Camera una proroga fino a febbraio 2006. Ma per quale verità?
Presidente Taormina, la commissione cosa ha accertato con certezza?
«Che non è stata un’esecuzione. O meglio: abbiamo la certezza che l’uccisione di Ilaria e di Miran è avvenuta per l’evolversi degli avvenimenti».
Cioè?
«Nell’agguato qualcosa non ha funzionato. Si è trattato di un tentativo di rapimento finito male».
Ma è un’ipotesi negata, non solo dalle varie inchieste giornalistiche, ma dalla stessa sentenza romana del 24 novembre del 2000 in cui si è condannato a 26 anni di carcere il somalo Hashi Omar Hassan…
«Il giudice non era a conoscenza di un elemento ora in possesso della commissione. Abbiamo testimoni oculari che dicono che il primo a sparare, quel giorno, è stato uno dei due uomini di scorta della Alpi. Aveva intuito il pericolo. Da lì la situazione è scappata di mano agli aggressori. Il loro obiettivo, tuttavia, era rapire la giornalista del Tg3 e il suo operatore, perché portavano soldi, perché erano italiani, perché potevano servire a qualche causa. E su questo aspetto vorrei fare un’altra osservazione».
Quale?
«Si parla di delinquenza comune e di rapimento come fossero niente. Credo, invece, che i tempi che stiamo vivendo oggi dimostrino il contrario. Eppure, sembra quasi che si voglia fare un regalo a Ilaria e Miran se si dice che potrebbero essere stati aggrediti a scopo di rapimento. Se la loro storia si fosse svolta nel 2005, l’avremmo descritta con le stesse parole usate per la Sgrena, per le due Simone o per la Clementina Cantoni».
Difficile trasferire a oggi la loro vicenda.
«E perché? Guardi, gli elementi probatoriamente utilizzabili raccolti dalla commissione portano al fondamentalismo islamico».
Ci risiamo con la teoria di Bin Laden responsabile del duplice omicidio.
«Non c’è nulla su cui scherzare. Ci sono un sacco di elementi a riguardo. A parte le dichiarazione del generale Fiore (il responsabile della missione militare italiana in Somalia all’epoca, ndr) che nell’immediatezza dell’evento parla esplicitamente di delitto islamico, ci sono molti documenti del Sismi (il servizio segreto militare italiano, ndr) dai quali risulta che dal 1993 l’integralismo è in forte crescita in Somalia. E anche loro attribuiscono la responsabilità, nell’immediatezza del duplice omicidio, al fondamentalismo islamico. Non bisogna trascurare, poi, un episodio specifico avvenuto a ottobre, quindi pochi mesi dopo la morte di Ilaria e Hrovatin: l’attacco alle carceri di Mogadiscio a opera delle bande delle corti islamiche irregolari. Questo testimonia la loro forza e pericolosità. Alla testa di tutto questo, a Mogadiscio Nord, c’era Sheik Ali Dere, su cui stiamo indagando».
Ma perché, anche se ci fossero stati, gli emuli ante litteram di Bin Laden avrebbero dovuto ammazzare i due italiani?
«Può anche essere che le corti islamiche siano state strumentalizzate. L’integralismo islamico era in un momento di forte formazione e aveva bisogno, non solo di soldi, ma anche di trovare forme di aggregazione. Non è escluso, quindi, che ci possa essere stata la convergenza di più interessi su quel rapimento-delitto: dalla malacooperazione ai traffici di armi e rifiuti. Le squadre delle corti erano composte di delinquenti comuni a disposizione anche di altri “nobili” scopi».
Avete trovato elementi concreti a supporto di questa tesi?
«No. Del resto, fino a oggi non abbiamo trovato neppure uno straccio di elemento probatorio che ci consenta di affermare che una delle cause tanto sbandierate dalla letteratura giornalistica in questi dieci anni (il traffico di rifiuti, di armi e la malacooperazione) sia alla fonte dell’uccisione dei due giornalisti».
Non c’è ancora una causa?
«No. Che ci fossero in Somalia il traffico dei rifiuti e delle armi e la malacooperazione, sono dati acquisiti anche dalla commissione. Ma non abbiamo le prove che uno di questi sia all’origine del duplice delitto».
Lei a marzo sbandierò che la commissione conosceva i nomi di 6 dei 7 aggressori, più quello del loro capo somalo.
«È così».
Ma non sapete perché hanno agito?
«No. Ma non dobbiamo trovare per forza un mandante italiano, solo perché lo volete voi giornalisti, che agite con una logica invertita rispetto alla commissione: prima dite chi è il mandante e poi cercate le prove. Se volete i nomi e i cognomi delle persone che avete per dieci anni messo alla berlina, questo non accadrà».
Lei ha affermato: «Abbiamo raccolto una serie di dati documentali dai quali risulta che qualcuno, un giorno, ci dovrà dire chi ha bloccato gli accertamenti nei confronti dell’uccisione».
«È vero. Ci sono stati blocchi e depistaggi, in Italia, a vari livelli e li abbiamo smascherati tutti, senza tentennamenti, mandando gli atti all’autorità giudiziaria».
Troverà bizzarro che ci siano stati tutti questi depistaggi e nessun mandante.
«Vengo dall’esperienza di Ustica, dove sono state fatte le cose più incredibili, come occultare tracciati, radar. E così, tutti a pensare alle guerre stellari nei cieli italiani. La perizia finale, invece, ha accertato che dentro il bagno posteriore dell’Itavia c’era il segno dell’esistenza di una bomba. Per dire come certe situazioni anomale accadano per una pluralità di circostanze, talvolta anche per la stupidità della burocrazia italiana».
Boh, versione originale. Elenchiamo, comunque, alcune di queste singolari anomalie. Ci sono delle informative del Sismi, a firma del responsabile dell’ufficio a Mogadiscio, Alfredo Tedesco, che, spedite nell’immediatezza del delitto, sono state poi “sbianchettate” a Roma. Per anni nessuno ne ha conosciuto il contenuto.
«Raccontano quattro cose importanti: Ilaria aveva ricevuto delle minacce nel suo viaggio a Bosaso; l’Unosom (le forze dell’Onu in Somalia), cui spettava il compito di condurre le indagini sul delitto, minimizzava l’accaduto; l’ambasciatore Scialoja, presente in Somalia, aveva ricevuto pressioni da Roma per disinteressarsi del delitto. E un’informativa segnalava perfino la presenza, all’ospedale di Mogadiscio, di due aggressori di Ilaria e Miran».
Ovviamente, nessuno diede seguito a quelle informative…
«No. I vertici del Sismi ci hanno perfino detto che non conoscevano l’esistenza di quella documentazione. Sul Sismi abbiamo aperto un pentolone puzzolente. C’è stata la conferma dell’esistenza, all’epoca, di un meccanismo parallelo all’interno della struttura. Di Somalia si doveva occupare la seconda divisione, il cui responsabile era Rajola Pescarini.
In realtà, era attiva e operativa anche l’ottava divisione, dell’ammiraglio Grignolo, che gestiva un po’ tutto. Ci sono addirittura delle lettere dell’ottava in cui si citano gli autori dell’omicidio di Ilaria e Miran».
Nessun responsabile?
«Abbiamo spedito alla magistratura gli atti sul Sismi».
Altre anomalie?
«Scialoja viene in commissione e nega la possibilità che fosse reale il pericolo islamico in quel periodo in Somalia. Il giorno dopo, ci scrive una lettera in cui afferma di essersi completamente sbagliato e che egli stesso era stato testimone dell’esistenza di una pesante realtà fondamentalista».
Poi?
«Abbiamo mandato al tribunale di Perugia gli atti riguardanti alcuni magistrati della Procura di Roma, che avevano indagato sul caso Alpi. In quegli uffici qualcosa non ha funzionato. Fatto grave. Ma le responsabilità maggiori le abbiamo riscontrate alla Questura di Udine, iperattiva in questa storia. Aveva gestito fonti confidenziali, importanti per la stessa inchiesta romana. In realtà, a quelle fonti veniva fatto dire quello che si voleva. E hanno prodotto informazioni sbagliate».
E perché i poliziotti di Udine avrebbero agito in quel modo?
«Non lo sappiamo. Credo ci sia stato un fortissimo flusso informativo tra alcuni uffici investigativi e alcuni giornalisti. Poi, c’è il ruolo giocato dall’ambasciatore Cassini».
Spedito in Somalia nel ’97 da Veltroni, allora vicepresidente del Consiglio, per ricostruire i rapporti con quel paese e che svolge autonomamente indagini sul caso Alpi.
«Fu lui a gestire il testimone di accusa contro Hashi Omar Hassan. Teste che si è rivelato fallace, ma determinante per la condanna di Hashi, un innocente. È un’operazione di depistaggio colossale sui cui stiamo indagando».
Che ne pensa delle inchieste giornalistiche dell’espresso, con nomi e cognomi dei responsabili di traffici di armi e rifiuti in Somalia negli anni ’80 e ’90?
«Se si tratta dell’ennesimo capitolo dell’inchiesta di Reggio Calabria, abbiamo accertato che non esiste alcun legame tra quei fatti e l’uccisione dei due italiani».
Una commissione dalla quale si sono dimessi consulenti e componenti. Perché?
«Ma quali? L’onorevole Mauro Bulgarelli si è autospeso. Non ho ricevuto da lui alcuna lettera di dimissioni. Per quanto riguarda i due consulenti di Famiglia Cristiana, la loro situazione era diventata delicata. Per alcuni episodi verificatisi in commissione potevano trasformarsi in testi e sarebbe stata una situazione incompatibile con il loro ruolo di consulenti».
Per la verità, loro si sono dimessi dopo le perquisizioni, volute dalla commissione, nelle abitazioni di alcuni cronisti e perché si sentivano corpi estranei rispetto al “lato giusto” della commissione, quello controllato da militari, come il generale Carlo Blandini.
«Mi faccia il piacere… Motivazioni strumentali».
E perché la maggior parte delle audizioni è secretata?
«Ci sono testimonianze che è meglio non rendere pubbliche».
Ma i lavori di una commissione d’inchiesta non dovrebbero essere trasparenti?
«È molto più trasparente far uscire i risultati concreti piuttosto che dare la stura a speculazioni giornalistiche».
Tuttavia, si ha l’impressione che la strombazzata rivisitazione dei fatti operata dalla commissione alla fine partorirà un topolino piccino piccino. La commissione rischia di diventare il cimitero della verità?
«Ma come si permette? Abbiamo accertato le responsabilità della magistratura, dell’Unosom, del Sismi, della Questura di Udine, del mondo politico che ruota attorno a Cassini. Abbiamo in mano i nomi dei sei assassini. Siamo nella situazione di ricostruire in modo diverso i fatti rispetto a quanto è stato tramandato negli ultimi dieci anni dalla letteratura giornalistica. Le sembra poco?»
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