Da Nigrizia del 29/06/2005
Originale su http://www.nigrizia.it/doc.asp?id=7087&IDCategoria=105

I paradisi fiscali

Abbondano anche in Africa i centri finanziari offshore. Quelli legali nelle Isole Maurizio e Seicelle. Mentre dal 2001 la Nigeria è finita nella lista nera, assieme ad altre nazioni dove imperversano la guerra e la corruzione. Controlli internazionali intensificati, soprattutto dopo l’11 settembre. Istituite speciali task force.

di Marco Leofrigio

Approfondimenti / DOSSIER


 
L'unico paradisto del terrorista, quello "fiscale".

Il numero dei paradisi fiscali catalogati dagli Stati e dagli Organismi finanziari internazionali può variare da 40 a 80, a seconda dei criteri di valutazione seguiti nella classificazione. Il fenomeno offshore infatti si può presentare in varie forme, può essere più o meno esteso, e può riguardare anche Paesi membri dell'UE o dell'ONU. Una recente ricerca a livello europeo(Euroshore) coordinata dal prof. V. Uckmar ha diviso i 48 paesi analizzati in tre gruppi di "centri finanziari" in base al loro livello di prossimità agli Stati membri dell'Unione Europea : 1) Paesi che hanno particolari contatti di ordine geografico, politico ed economico con l'Unione Europea (Andorra, Monaco, Bermuda, Malta San Marino ecc.). 2) Economie in transizione, cioè giurisdizioni appartenenti all'ex blocco sovietico (Romania, Moldavia, Albania ecc.). 3) Giurisdizioni offshore esterne all'Unione Europea (Bahamas, Barbados, Macao, Malesia ecc.). Sette paradisi, tra i quali il Principato di Monaco, Andorra e Liechtenstein hanno apertamente dichiarato di non volersi adeguare alle disposizioni internazionali in materia di trasparenza.
La definizione ufficiale è Centri finanziari internazionali offshore. Ma sono meglio noti come “paradisi fiscali”. Ogni anno, fiumi di denaro si dirigono verso queste realtà. La sola Banca centrale americana li calcola in oltre duemila miliardi di dollari all’anno, tutelati da legislazioni locali permissive.


I paradisi fiscali nascono in paesi in via di sviluppo e con situazioni economiche molto depresse – oltre che nella tradizionale area dei Caraibi – per attrarre finanziamenti esteri e promuovere l’economia locale. Promettono l’assenza o quasi di tassazione, al riparo dell’inviolabile segreto bancario.



Questi paesi, di fatto, “commercializzano” la propria sovranità, offrendo un regime bancario e fiscale di assoluto favore, una totale deregulation, ai detentori di capitali, indipendentemente dall’origine di questi ultimi. Solamente nelle famose isole caraibiche delle Cayman hanno sede oltre 600 banche. Enclave fiscali che procurano gravi danni a quelle nazioni in cui, invece, le tasse si pagano e si effettuano controlli più o meno efficaci.



E se i paradisi fiscali sono nati per aiutare le società a eludere le tasse, negli ultimi venti anni il loro utilizzo ha avuto altri scopi e obiettivi: “ripulire” e poi reinvestire in business assolutamente legali tutti gli enormi profitti derivanti dalle attività criminali e illecite. La tecnica è semplice. Si parte dal “prelavaggio”, fase nella quale il denaro entra, con i più svariati sistemi, nel circuito legale.



Tra i metodi adottati, il più diffuso è quello di frazionare i capitali in tante piccole somme – che destano meno sospetti – da versare in diversi conti bancari. Da essi, e questo è il passaggio successivo, nasceranno altri conti bancari, aperti nei centri offshore. La tappa successiva è il riciclaggio vero e proprio, con società di comodo, sempre costituite nei paradisi fiscali. Da quest’ultimi il denaro viene investito in attività legali: immobili, catene di ristorazione, shopping center, catene alberghiere, partecipazioni azionarie…



L’avvento rivoluzionario di Internet ha ingigantito lo scambio di informazioni e transazioni, dando un impulso senza eguali a queste attività e scambi. Ogni ora, migliaia e migliaia di operazioni bancarie vengono svolte a velocità impressionante tra «l’impero delle mafie internazionali» (definizioni del generale Fabio Mini) e i paradisi fiscali compiacenti. Alcuni osservatori hanno coniato l’espressione “the short arm of the law”. E il braccio della legge è veramente molto corto per fronteggiare la marea montante di flussi illegali di denaro.



La fotografia africana



I paradisi fiscali possono essere divisi in due categorie: i legali e gli illegali.

La Financial Action Task Force on Money Laundering (Fatf) è l’organizzazione internazionale che compila la lista dei “buoni e dei cattivi di turno”, anche se non è un elenco esaustivo.



È nata al G-7 parigino del 1989 e ha fissato “le 40 raccomandazioni”, diventate il quadro di riferimento internazionale per la lotta al fenomeno del riciclaggio.

Nella “lista nera” troviamo le nazioni che violano la normativa internazionale e nelle quali è carente la trasparenza informativa nelle transazioni bancarie e finanziarie.



Gli esperti della Fatf hanno coniato anche un termine per individuare quei paesi: Ncct (Non-Cooperative Countries and Territories). La lista è compilata in base al mancato rispetto e/o osservanza di una lista di 25 criteri. Tra i più importanti troviamo quelli sulla legislazione anticrimine, sulla supervisione finanziaria, sull’identità dei clienti, sul controllo delle attività sospette e sulla cooperazione internazionale.



Secondo la Fatf, sono due in Africa i paradisi fiscali rispettosi della legalità internazionale: le Isole Seicelle e le Isole Maurizio.

Nelle prime, il settore è nato a metà anni ’90, con una normativa che permetteva di offrire la cittadinanza a chiunque avesse depositato una somma di almeno 10 milioni di dollari. Poi, sotto pressione degli Usa, questa “vendita” della cittadinanza è stata abolita.



Le Isole Maurizio, invece, hanno cercato, fin dagli anni ’80, di predisporre una legislazione accurata per definire e gestire le proprie attività di “centro offshore”, per contrastare i flussi finanziari di provenienza illecita.



Ciò non toglie, però, che di queste isole si parlò nel 2002, quando scoppiò il caso Enron, società d’energia texana. Il colosso americano, prima dell’incredibile fallimento, aveva ben 881 società di comodo sparse nei vari paradisi fiscali, di cui ben 43 nelle Maurizio. Nel caso Enron, l’uso sistematico dei paradisi fiscali non è stato fondamentale per i vantaggi fiscali che produceva, quanto per l’anonimato bancario e commerciale. Quest’ultimo è stato usato e abusato nell’elaborazione delle sofisticate strategie di occultamento delle colossali perdite, prodottesi con la gestione della società texana.





Il terrorismo



Ma con lo scoppio della guerra al terrorismo, i problemi provocati dal fenomeno del riciclaggio del denaro diventano ancor più gravi. Difatti, si è scatenata una puntigliosa, ma difficilissima, caccia ai finanziamenti di al-Qaida e degli altri gruppi islamici estremisti. Caccia resa ardua anche dalla peculiare natura e legislazione del sistema bancario islamico.



La Fatf, nella sessione plenaria straordinaria svoltasi a Washington nell’ottobre 2001, varava le Special Recommendations, ossia i nuovi standard internazionali tesi a controllare, e quindi a impedire, l’accesso al sistema finanziario internazionale, da parte sia delle organizzazioni terroristiche, sia dei loro sponsor.



Le Special Recommendations, in estrema sintesi, prevedono:

Il blocco e confisca degli asset finanziari in mano ai terroristi.
Il rafforzamento delle misure di identificazione delle persone coinvolte nei trasferimenti on-line di denaro.
L’attivazione di rigidi controlli, in particolare sulle organizzazioni non-profit, tipiche nel mondo islamico. L’obiettivo è evitare che diventino i vettori di finanziamento delle organizzazioni terroristiche.
L’identificazione di quegli stati dove la normativa e i controlli sono già, o rischiano di diventare, fortemente carenti.


Per rafforzare la rete di controlli, la Fatf collabora con le Nazioni Unite e con il Gruppo Egmont delle Financial Intelligence Unit (team operativi sul campo per la raccolta informazioni e il coordinamento delle azioni di contrasto al riciclaggio).



Inoltre collabora con l’equivalente organo americano del Financial Crimes Enforcement Network (FinCen) e altri organismi specializzati come l’Offshore Group of Banking Supervisors (Og-bs), istituito negli anni ’80 per supervisionare le attività dei paradisi fiscali ed “educare” al rispetto delle regole di trasparenza. Organismo che, nella sostanza, è però inficiato dall’essere formato solo da circa la metà dei centri offshore mondiali.



Gli accordi



Con l’obiettivo di incoraggiare la collaborazione nei controlli dei flussi finanziari di provenienza illecita o sospetta, la Fatf ha preso accordi per istituire nei paesi non appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) specifiche strutture regionali. Attualmente, a livello mondiale vi sono sette realtà regionali, di cui tre create per l’Africa:



Il Gruppo per la zona dell’Africa Orientale e del Sud dell’Africa.
Il Gruppo per la zona Africa Occidentale.
Una struttura che si occupa del Nord Africa e del Medio Oriente.


Nel 2003, ad Addis Abeba, c’è stata una conferenza sul tema. Vi hanno partecipato una trentina di membri dell’Unione africana, assieme a esperti mondiali, funzionari del Fondo monetario internazionale e delle strutture Onu competenti per la lotta la terrorismo, al crimine e al traffico di droga.



Il risultato è stata la stesura di una sorta di “road map” per combattere il terrorismo e le sue fonti di finanziamento nel continente africano. Si è proposta anche l’istituzione, in tutti i paesi del continente, di una task force specializzata in attività di “intelligence finanziaria”.



Nel caso delle nazioni africane, l’Egitto, nel febbraio 2004, è stato rimosso dall’elenco dei paesi e territori non cooperanti, dato che nel triennio 2001-2003 è riuscito a ottemperare a tutte le richieste dei rappresentanti della Fatf. Nel giugno dello stesso anno, il paese dei faraoni è diventato membro dell’Egmont Group.



La Nigeria, invece, è dal 2001 nella lista dei “non cooperanti”, assieme alle Isole Cook, Indonesia, Myanmar, Nauru e Filippine. I nigeriani, per bocca del presidente della Commissione sui crimini economico-finanziari (Efcc), Mallam Nuhu Ribadu, si sono lamentati della presenza del loro paese in quell’elenco. Ribadu ha evidenziato i grossi sforzi fatti per ottenere quello che, in gergo tecnico, si chiama “delisting”, ovvero il rientro della Nigeria nella comunità finanziaria mondiale.



Ha poi sottolineato come il suo paese abbia «instaurato valide procedure sul campo con le autorità competenti, specie per quanto riguarda l’analisi e la diffusione delle informazioni finanziarie inerenti il riciclaggio del denaro e il finanziamento delle organizzazioni terroristiche». Spiegazioni inutili.



Del resto, i responsabili degli organismi internazionali mostrano una scarsa capacità di intervento nelle attività e transazioni bancarie, svolte negli stati africani collocati nella cosiddetta “zona grigia”.



Ovvero, quegli stati in cui sono in corso guerre o che sono temporaneamente sotto il controllo delle forze di peacekeeping Onu (vedi Liberia e Sierra Leone). Oppure quei paesi dove la corruzione è a livelli endemici, come Kenya, Repubblica democratica del Congo e Zimbabwe. Per non parlare della Somalia, di fatto abbandonata dalla comunità internazionale da oltre 15 anni e di cui nessuno parla più.

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